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domenica 4 maggio 2014

PALERMO E CATANIA, IL PARADIGMA DI FAVA

Nel 1980 il giornalista siracusano teorizzò ne "I Siciliani" i contrapposti vizi delle due città, entrambe legate da un diverso destino di malcostume ed illegalità 

Un gruppo di suonatori di chitarra
ed un cantante a Catania:
una teatrale rappresentazione del carattere
popolare ed istrionico della città,
in contrapposizione a quello
riservato e malinconico di Palermo.
La fotografia è tratta
dal saggio di Giuseppe Fava "I Siciliani",
edito da Cappelli Editore nel 1980

"Catania è febbrile sfottente e allegra, e Palermo invece appagata, ironica e malinconica.
Catania è furiosamente laboriosa in tutte le sue attività esistenziali, quindi anche nel ladrocinio, nel furto, nella truffa, nel crimine, cioè produce denaro, e invece Palermo questo denaro tende a conglobarlo dagli altri anche nel delitto.
Catania è colei che corrompe, Palermo è che colei che si fa corrompere.
Catania corre per andare a vedere le cose, Palermo sta quieta in attesa che le cose passino dinnanzi. Catania è nera, Palermo è bianca. Catania è popolare, Palermo nobile.


Palermitani nello storico mercato della Vucciria.
La fotografia è di Enzo Sellerio
e venne pubblicata nel volume
"Libro di Palermo",
edito nel 1977 da S.F. Flaccovio

Infine, l'essenziale: Catania rifiuta il potere perché lo ritiene una sopraffazione e quindi ogni suo cittadino tende a trasformare, anzi ad accomodare la legge al suo interesse personale, mentre Palermo crede nel potere anzi nel suo diritto al potere.
Ecco perché i più grandi e geniali delinquenti catanesi sono stati soprattutto i falsari, ed a Palermo invece mafiosi. 
Il paradigma è evidente".
Il lucido teorema sulle differenza fra le due città siciliane in eterna contrapposizione di potere e di prestigio venne così descritto dal giornalista Giuseppe Fava nel saggio inchiesta "I Siciliani", edito da Cappelli Editore nel 1980.


Sopra e sotto,
immagini di Catania e Palermo
in due fotografie
di Josip Ciganovic.
Entrambi gli scatti furono pubblicati nel 1962
nell'opera "Sicilia", edita da Sansoni e
dall'Istituto Geografico De Agostini

Fava - siracusano di Palazzolo Acreide -  affrontò il dualismo fra Palermo e Catania sul piano a lui ben noto delle diverse anime politiche, affaristiche e criminali delle due città.
L'analisi - trent'anni dopo il suo omicidio ordinato dal clan Santapaola - mantiene ancora oggi un'amara attualità, a conferma della persistenza delle vecchissime tare che bloccano la crescita civile delle due più importanti realtà urbane e sociali dell'isola. 



"Resta da capire - scriverà ancora Giuseppe Fava ne "I Siciliani", senza fornire una risposta dietro cui si cela la voragine di una verità irraccontabile   - se è stata Palermo a fare lentamente una Sicilia a sua somiglianza, disposta cioè a lasciarsi governare con l'intrigo, il clientelismo, lo sperpero, l'arricchimento e la potenza dei pochi contrapposti alla sofferenza dei più, leggi a favore delle tribù e dei feudi, disprezzo per gli immensi problemi collettivi, oppure è stata la Sicilia con le sue infinite miserie anche mentali, il brulicare dei suoi individualismi, rancori, sordide avidità paesane, a costruirsi una capitale a sua immagine e necessità, capace perciò di tutte le corruzioni, violenze, congiure, complicità, assoluzioni". 




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