I temi degli alunni di una scuola media fra le rovine di Montevago e la testimonianza della devastazione a Gibellina in due reportage pubblicati dalla "Domenica del Corriere" il 30 gennaio del 1968
Negli ultimi giorni di gennaio di 47 anni fa, numerosi inviati di testate giornalistiche italiane documentarono con i loro reportage il dramma del terremoto nel Belìce, che provocò la morte di almeno 296 persone, il ferimento di un migliaio e circa 10.000 sfollati ( dati della Protezione Civile, discordanti però rispetto a quelli riferiti da altri siti, anche di Comuni coinvolti nell'evento ).
Le scosse provocarono danni in una ventina di abitati del trapanese, dell'agrigentino e del palermitano.
Salaparuta, Gibellina, Santa Ninfa e Montevago vennero cancellati dalla violenza del terremoto e da un'edilizia in cui l'uso del cemento armato era limitato solo a pochissimi edifici di più recente costruzione.
Danni gravi colpirono invece Santa Margherita del Belice e Partanna.
Pochi giorni dopo il sisma, le poche costruzioni rimaste parzialmente in piedi furono distrutte con l'esplosivo, a completare la distruzione in quest'area della Sicilia occidentale.
Quello del 1968 fu un evento che per settimane rivelò all'Italia già da tempo uscita dall'illusoria bolla del "boom economico" la realtà di un Sud lasciato ai margini dello sviluppo socio-economico e consegnato all'immobilismo clientelare della sua classe politica.
Quel terremoto avrebbe inoltre riservato al Belìce - oltre ai lutti ed alle devastazioni - un inevitabile stravolgimento dell'originario tessuto sociale, minato nelle settimane successive da un'accelerazione dei fenomeni migratori da parte di famiglie che per colpa del sisma avevano perso ogni loro bene o fonte di reddito.
Le fotografie riproposte nel post illustrarono due resoconti compiuti pochi giorni dopo il terremoto dal settimanale "Domenica del Corriere" in edicola il 30 gennaio del 1968.
Gli articoli di quel periodico portano la firma di Luigi Cavicchioli, Vittorio Paliotti e Gilberto Severi; le immagini quelle di Evaristo Fusar e Gianni Gelmi.
Il reportage del romano Cavicchioli fu ambientato a Montevago, uno dei paesi agrigentini distrutti dal terremoto con 95 vittime e "simbolo, mi è parso - scrisse l'inviato - "di una Sicilia sventurata e fiera, amara e generosa, fatalista e passionale, che il tempo va lentamente cancellando".
"E' di Montevago che parlerò, parlando dei alcuni suoi abitanti, morti o superstiti, perché un misterioso cordone ombelicale unisce a Montevago ognuno dei suoi tremila abitanti: tremila corpi e un'anima sola.
I cadaveri tirati fuori dalle macerie erano mucchietti di stracci, su quelli già identificati era appuntato un pezzo di carta col nome.
Da un mucchio di macerie ( facile arguire che qui c'era la scuola media ) affioravano due pacchetti di fogli protocollo.
Non senza difficoltà li ho recuperati.
Sono compiti d'italiano corretti e passati all'archivio della scuola.
Nel primo pacchetto ci sono i temi svolti il 22 novembre 1966 nella classe prima B maschile. Nel secondo, quelli svolti il 18 maggio 1967 dalle femmine della seconda A.
Ma il fatto singolare è che in entrambi i casi il tema sia praticamente lo stesso: 'Parla del tuo paese' e 'Descrivi il tuo paese'.
Chissà quanti temi sono stati assegnati, nelle due annate scolastiche, nelle diverse classi: proprio questi due pacchetti dovevano finire insieme, affiorare dalle macerie, come per farsi 'udire', per confidarci che cosa pensavano questi ragazzi del loro paese che non c'è più.
Una ben strana e sconcertante coincidenza: ma i temi sono qui, col loro ingenuo linguaggio, con i nomi delle bambine e dei maschietti che li svolsero, le correzioni in rosso dell'insegnante, i voti ( brutti voti in verità, che allora erano giusti, ma se li rileggesse oggi quei temi, l'insegnante, oggi che il paese non c'è più, avrebbe dieci e lacrime per tutti ).
Bavetta Calogera ( il cui sei e mezzo la qualifica come la prima della classe ) comincia così il suo temino:
'In questa occasione posso parlare e difendere il mio paese Montevago: è un piccolo paese, ma a me è molto caro, anche perchè ci sono nata e cresciuta. Conta tremila abitanti. Lo fecero costruire il principe Rutilio Scirotta nel 1640...'.
E lo ha distrutto il terremoto all'alba di lunedi 15 gennaio 1968.
Altri paesi, Salaparuta, Santa Margherita Belice, Gibellina, sono stati distrutti completamente o quasi: ma una differenza enorme e incomprensibile è nel numero delle vittime.
Pochissimi morti o nessuno negli altri centri, tranne Gibellina, dove sono tanti, i morti, ma sempre un terzo di quelli di Montevago su un numero più che doppio di abitanti. Perché?
Il terremoto ha investito con uguale violenza una zona vastissima: le rovine sono ugualmente impressionanti a Montevago e a Santa Margherita, a Salaparuta e a Gibellina.
Ma tre scosse, nel primo pomeriggio di domenica, avevano dato un allarme ben chiaro, avvertito in tutta la zona.
Ci fu uno nuova e più forte scossa alle 2.35 di notte, prima del fatale sconquasso che avvenne alle 3.02.
E a quell'ora i paesi erano già quasi completamente abbandonati, la gente era fuggita nei campi, in tutta la zona.
Soltanto a Montevago molta gente indugiava ancora nelle case o addirittura dormiva nel proprio letto. Perché?
Non avevano compreso il pericolo? Non avevano paura del terremoto?
'Altroché, se avevamo paura: mio cugino Antonio, poverino, prima di andare a dormire lo disse, un pò per scherzare e un pò sul serio, che andava a fare la morte del topo', afferma Giuseppe Calogero, scampato per un soffio.
Perché non scapparono come la gente di altri paesi?
Giuseppe Calogero si stringe nelle spalle:
'Ma, per destino... Qualcuno doveva pure sacrificarsi, altrimenti senza il mucchio di morti, nemmeno si sarebbero accorti, nel continente, che le nostre case sono crollate, che abbiamo perso tutto'.
Simili argomenti, è ovvio, non hanno un senso concreto, ma adombrano la realtà di un fatalismo che a Montevago toccava il punto massimo di tutta la zona: questo era, di tutta la zona, il paese più povero, più solo, arroccato nella consapevolezza o convinzione dei suoi diritti traditi, non solo nell'ambito nazionale, ma regionale e forse persino provinciale.
Angelo Basile scriveva nel suo tema:
'A Montevago abbiamo specialmente il nostro arciprete che tutti vanno da lui per qualsiasi bisogno e lui aiuta sempre tutti, i poveri e bisognosi'.
Francesco Billeri scrive nel suo:
'Il sindaco di Montevago è Barile Leonardo lui è buono con tutti e chi ha bisogno a qualunque cosa ci pensa lui'...
... Scrive Rosaria Miliello nel suo testo:
'Tutti al mio paese si aiutano uno con l'altro, anche qualunque sacrificio per aiutare parenti ed amici. Uno che tutti dicono è tanto buono anche più di tutti è il medico condotto Marino, i malati lui il dottore darebbe la vita perché diventassero tutti guariti e vivaci'...
... Così Antonina Gusso nel suo tema:
' A Montevago non ci sono divertimenti, né cinema, il cinema è nei paesi vicini. Ma è un paese bello anche senza divertimenti, chi c'è nato ci vuole morire, anche se non c'è divertimento'.
Avrebbero parlato e come, i ragazzi della prima B, nei loro temi, dell'eroe di Montevago, se i temi non fossero di due anni fa, quando l'eroe era un semplice carabiniere.
Quel carabiniere, Giuseppe Giordano, che recentemente ha meritato plauso e gratitudine arrestando con azione audace i due banditi Cavallero e Notarnicola.
Montevago organizzò festeggiamenti in suo onore, il sindaco gli appuntò sul petto una medaglia d'oro.
Ora il carabiniere Giuseppe Giordano è tornato al paese, per identificare il padre e due fratelli morti sotto le macerie.
Le strazianti immagini che abbiamo negli occhi, non ci impediscono di sorridere leggendo l'ultimo tema, quello di Geronimo Galanti, che a un certo punto dice:
'... Al mio paese, Montevago, si vive tranquilli e felici, l'aria è buona, si sente l'odore dei fiori, a Montevago vivono più di cento anni come la signora Giuseppina'.
La signora Giuseppina aveva 104 anni. E' rimasta alcune ore sotto le macerie, l'hanno tirata fuori che sembrava sana e vispa, ma poi è morta anche lei".
L'altro inviato della "Domenica del Corriere", il napoletano Vittorio Paliotti, firmo invece un reportage che documentò drammaticamente la devastazione a Gibellina, nel trapanese.
Qui il terremoto provocò 133 vittime e la distruzione degli edifici fu quasi totale.
Il viaggio da Palermo sino alle rovine del paese, secondo il cronista, fu "inenarrabile":
"Autocolonne di soccorritori che andavano, mezzi di fortuna di profughi che venivano. Ogni tanto una tendopoli. Alle porte del Comune di Vita, sono entrato in una di queste tendopoli. Gli uomini erano fuori dalle tende e si contendevano le pagnotte e le coperte che alcuni marinai, da un camion in movimento, lanciavano alla rinfusa.
'A me, un pezzo di pane a me!'.
Ma i marinai non avevano il tempo di scegliere le persone alle quali dare le pagnotte. Lanciavano pagnotte sulla folla e basta.
A Salemi ( il comune che precede Gibellina ) sono entrato nell'ospedale: un ospedale di guerra.
A mano a mano che procedo verso Gibellina il viaggio diventa più difficile.
I ponticelli sui torrenti sono pericolanti. Bisogna scendere, attraversarli a piedi, per accertarsi che non si odano scricchiolii, e poi si può passare con l'automobile.
Quando sono in vista di Gibellina, abbandono la macchina e mi unisco ad Arrigo Pasquini.
Presso il cimitero ( i morti sono ancora allineati sul prato, ne arrivano in continuazione ) sono accampati i carabinieri giunti da Palermo.
'Andiamo di casa in casa e gridiamo "C'è qualcuno?". Se rispondono scaviamo. Non c'è altra scelta', mi spiega un carabiniere.
Un vigile del fuoco di Brescia, certo Magni, mi racconta che, con questo sistema, ha salvato una bambina di quattro anni.
'Appena l'ho portata alla luce ha detto "Ciuccio, ciuccio".
Io credevo che chiedesse notizie del suo asino. Lei per "ciuccio" invece intendeva "biberon". Con noi non abbiamo biberon'...".
Il racconto di Paliotti è una testimonianza paurosa della scossa più violenta che colpì in quei giorni il Belìce, quella registrata alle 17.45 di martedì 16 gennaio e dalla durata di 57 secondi.
L'inviato del settimanale si trovava in compagnia del giornalista palermitano Arrigo Pasquini e di tre carabinieri: il terrore li sorprese mentre camminavano sui cumuli di rovine di via del Calvario, una delle principali strade del paese:
"Dunque, camminavamo per Gibellina, io e Pasquini, un ragazzo di meno di trent'anni.
Fin dove i bulldozer hanno lavorato si procede abbastanza speditamente, ma più in là sono soltanto macerie: macerie al centro della strada, macerie ai due lati.
I residui di quelle che furono case, e che ora, orribili occhiaie di morte, lasciano intravedere soltanto quadri in bilico su ritagli di pareti.
C'è un tanfo orribile.
'Saranno le condutture igieniche rotte', dico.
'Macchè condutture. Sono i morti', replica Pasquini.
E procediamo fra i massi, aiutandoci con le mani per camminare.
Incontriamo i tre carabinieri, tuta mimetica e basco; ragazzi sui ventidue anni, uno è napoletano, gli altri due sono di Palermo.
Hanno appena messo di scavare. Che cosa? 'Morti, soltanto morti', mi risponde il carabiniere napoletano.
Siamo tutti e cinque su un cumulo di macerie, e parliamo. Io segno qualche notizia sul taccuino. Parliamo, e anche ridiamo, perchè i militari di leva, dovunque li spinga il loro dovere, hanno sempre sulle labbra una battuta pronta.
Ma ecco ( sono le 17.45 ) che le parole e le risate si spengono: le macerie sulle quali sostiamo sussultano paurosamente, i residui di pareti che a destra e sinistra, fiancheggiano la strada, precipitano.
'Fuggiamo', grida il carabiniere napoletano.
Ma dove fuggire, se tutto precipita, se la terra ci manca sotto i piedi, se ora davanti a noi si è aperta una voragine?
Scivoliamo dolcemente in questa voragine e tutto balla intorno a noi.
Istintivamente ci abbracciamo tutti e cinque, stretti a capannello.
E' stato allora che ho imparato a conoscere la paura. Che cos'è la paura? E' fiato grosso, asma, impossibilità di respirare, mancanza assoluta di pensiero.
Credevo che il pensiero umano non si arrestasse mai, e invece il mio pensiero si è arrestato per 57 secondi.
E' stata, dicono, la scossa più spaventose di tutte, la più violenta.
Quando il boato si è spento e la terra ha smesso di sussultare, io, Arrigo Pasquini e i tre carabinieri, tutti e cinque con lividure varie alle gambe e alle braccia, ma vivi ( perché poi, vivi, proprio noi cinque? ) ci siamo messi ad annaspare fra le macerie e, raggiunto il tratto di strada spianato dai bulldozer, a fuggire, finalmente a fuggire..."
Negli ultimi giorni di gennaio di 47 anni fa, numerosi inviati di testate giornalistiche italiane documentarono con i loro reportage il dramma del terremoto nel Belìce, che provocò la morte di almeno 296 persone, il ferimento di un migliaio e circa 10.000 sfollati ( dati della Protezione Civile, discordanti però rispetto a quelli riferiti da altri siti, anche di Comuni coinvolti nell'evento ).
Le scosse provocarono danni in una ventina di abitati del trapanese, dell'agrigentino e del palermitano.
Salaparuta, Gibellina, Santa Ninfa e Montevago vennero cancellati dalla violenza del terremoto e da un'edilizia in cui l'uso del cemento armato era limitato solo a pochissimi edifici di più recente costruzione.
Fuga in strada durante una delle numerose scosse che colpirono duramente le province di Trapani e Agrigento |
Danni gravi colpirono invece Santa Margherita del Belice e Partanna.
Pochi giorni dopo il sisma, le poche costruzioni rimaste parzialmente in piedi furono distrutte con l'esplosivo, a completare la distruzione in quest'area della Sicilia occidentale.
Quello del 1968 fu un evento che per settimane rivelò all'Italia già da tempo uscita dall'illusoria bolla del "boom economico" la realtà di un Sud lasciato ai margini dello sviluppo socio-economico e consegnato all'immobilismo clientelare della sua classe politica.
Quel terremoto avrebbe inoltre riservato al Belìce - oltre ai lutti ed alle devastazioni - un inevitabile stravolgimento dell'originario tessuto sociale, minato nelle settimane successive da un'accelerazione dei fenomeni migratori da parte di famiglie che per colpa del sisma avevano perso ogni loro bene o fonte di reddito.
Gli articoli di quel periodico portano la firma di Luigi Cavicchioli, Vittorio Paliotti e Gilberto Severi; le immagini quelle di Evaristo Fusar e Gianni Gelmi.
Il reportage del romano Cavicchioli fu ambientato a Montevago, uno dei paesi agrigentini distrutti dal terremoto con 95 vittime e "simbolo, mi è parso - scrisse l'inviato - "di una Sicilia sventurata e fiera, amara e generosa, fatalista e passionale, che il tempo va lentamente cancellando".
"E' di Montevago che parlerò, parlando dei alcuni suoi abitanti, morti o superstiti, perché un misterioso cordone ombelicale unisce a Montevago ognuno dei suoi tremila abitanti: tremila corpi e un'anima sola.
I cadaveri tirati fuori dalle macerie erano mucchietti di stracci, su quelli già identificati era appuntato un pezzo di carta col nome.
Da un mucchio di macerie ( facile arguire che qui c'era la scuola media ) affioravano due pacchetti di fogli protocollo.
Non senza difficoltà li ho recuperati.
Sono compiti d'italiano corretti e passati all'archivio della scuola.
Nel primo pacchetto ci sono i temi svolti il 22 novembre 1966 nella classe prima B maschile. Nel secondo, quelli svolti il 18 maggio 1967 dalle femmine della seconda A.
Ma il fatto singolare è che in entrambi i casi il tema sia praticamente lo stesso: 'Parla del tuo paese' e 'Descrivi il tuo paese'.
"Cinque persone viaggiavano su quest'auto. Percorrevano una strada di Montevago quando il paese ha sussultato. L'auto è rimasta sotto le macerie con i cinque prigionieri che sono stati trovati morti" |
Chissà quanti temi sono stati assegnati, nelle due annate scolastiche, nelle diverse classi: proprio questi due pacchetti dovevano finire insieme, affiorare dalle macerie, come per farsi 'udire', per confidarci che cosa pensavano questi ragazzi del loro paese che non c'è più.
Una ben strana e sconcertante coincidenza: ma i temi sono qui, col loro ingenuo linguaggio, con i nomi delle bambine e dei maschietti che li svolsero, le correzioni in rosso dell'insegnante, i voti ( brutti voti in verità, che allora erano giusti, ma se li rileggesse oggi quei temi, l'insegnante, oggi che il paese non c'è più, avrebbe dieci e lacrime per tutti ).
Bavetta Calogera ( il cui sei e mezzo la qualifica come la prima della classe ) comincia così il suo temino:
'In questa occasione posso parlare e difendere il mio paese Montevago: è un piccolo paese, ma a me è molto caro, anche perchè ci sono nata e cresciuta. Conta tremila abitanti. Lo fecero costruire il principe Rutilio Scirotta nel 1640...'.
E lo ha distrutto il terremoto all'alba di lunedi 15 gennaio 1968.
Altri paesi, Salaparuta, Santa Margherita Belice, Gibellina, sono stati distrutti completamente o quasi: ma una differenza enorme e incomprensibile è nel numero delle vittime.
Pochissimi morti o nessuno negli altri centri, tranne Gibellina, dove sono tanti, i morti, ma sempre un terzo di quelli di Montevago su un numero più che doppio di abitanti. Perché?
Il terremoto ha investito con uguale violenza una zona vastissima: le rovine sono ugualmente impressionanti a Montevago e a Santa Margherita, a Salaparuta e a Gibellina.
Ma tre scosse, nel primo pomeriggio di domenica, avevano dato un allarme ben chiaro, avvertito in tutta la zona.
Ci fu uno nuova e più forte scossa alle 2.35 di notte, prima del fatale sconquasso che avvenne alle 3.02.
E a quell'ora i paesi erano già quasi completamente abbandonati, la gente era fuggita nei campi, in tutta la zona.
Soltanto a Montevago molta gente indugiava ancora nelle case o addirittura dormiva nel proprio letto. Perché?
Non avevano compreso il pericolo? Non avevano paura del terremoto?
'Altroché, se avevamo paura: mio cugino Antonio, poverino, prima di andare a dormire lo disse, un pò per scherzare e un pò sul serio, che andava a fare la morte del topo', afferma Giuseppe Calogero, scampato per un soffio.
Perché non scapparono come la gente di altri paesi?
Giuseppe Calogero si stringe nelle spalle:
'Ma, per destino... Qualcuno doveva pure sacrificarsi, altrimenti senza il mucchio di morti, nemmeno si sarebbero accorti, nel continente, che le nostre case sono crollate, che abbiamo perso tutto'.
Simili argomenti, è ovvio, non hanno un senso concreto, ma adombrano la realtà di un fatalismo che a Montevago toccava il punto massimo di tutta la zona: questo era, di tutta la zona, il paese più povero, più solo, arroccato nella consapevolezza o convinzione dei suoi diritti traditi, non solo nell'ambito nazionale, ma regionale e forse persino provinciale.
"Tutto il dolore della Sicilia sembra raccolto in questo volto" |
Angelo Basile scriveva nel suo tema:
'A Montevago abbiamo specialmente il nostro arciprete che tutti vanno da lui per qualsiasi bisogno e lui aiuta sempre tutti, i poveri e bisognosi'.
Francesco Billeri scrive nel suo:
'Il sindaco di Montevago è Barile Leonardo lui è buono con tutti e chi ha bisogno a qualunque cosa ci pensa lui'...
... Scrive Rosaria Miliello nel suo testo:
'Tutti al mio paese si aiutano uno con l'altro, anche qualunque sacrificio per aiutare parenti ed amici. Uno che tutti dicono è tanto buono anche più di tutti è il medico condotto Marino, i malati lui il dottore darebbe la vita perché diventassero tutti guariti e vivaci'...
"Hanno perso tutto e ancora non se ne rendono conto. Non hanno più la casa, non hanno più i parenti. Li ospita una tenda, poi si vedrà. I tre di questa famiglia non hanno nemmeno la forza di parlare" |
... Così Antonina Gusso nel suo tema:
' A Montevago non ci sono divertimenti, né cinema, il cinema è nei paesi vicini. Ma è un paese bello anche senza divertimenti, chi c'è nato ci vuole morire, anche se non c'è divertimento'.
Avrebbero parlato e come, i ragazzi della prima B, nei loro temi, dell'eroe di Montevago, se i temi non fossero di due anni fa, quando l'eroe era un semplice carabiniere.
Quel carabiniere, Giuseppe Giordano, che recentemente ha meritato plauso e gratitudine arrestando con azione audace i due banditi Cavallero e Notarnicola.
Montevago organizzò festeggiamenti in suo onore, il sindaco gli appuntò sul petto una medaglia d'oro.
"Il vitello era appena nato quando si è avuta la prima scossa. La stalla è crollata ma un soldato, scavando faticosamente tra le rovine, ha estratto il vitello dalle macerie e l'ha portato in salvo" |
Ora il carabiniere Giuseppe Giordano è tornato al paese, per identificare il padre e due fratelli morti sotto le macerie.
Le strazianti immagini che abbiamo negli occhi, non ci impediscono di sorridere leggendo l'ultimo tema, quello di Geronimo Galanti, che a un certo punto dice:
'... Al mio paese, Montevago, si vive tranquilli e felici, l'aria è buona, si sente l'odore dei fiori, a Montevago vivono più di cento anni come la signora Giuseppina'.
La signora Giuseppina aveva 104 anni. E' rimasta alcune ore sotto le macerie, l'hanno tirata fuori che sembrava sana e vispa, ma poi è morta anche lei".
L'altro inviato della "Domenica del Corriere", il napoletano Vittorio Paliotti, firmo invece un reportage che documentò drammaticamente la devastazione a Gibellina, nel trapanese.
Qui il terremoto provocò 133 vittime e la distruzione degli edifici fu quasi totale.
Il viaggio da Palermo sino alle rovine del paese, secondo il cronista, fu "inenarrabile":
"Una donna di Santa Margherita del Belìce ha salvato la capra, un sacco di povere cose, una sedia. Ora è in un campo profughi, con la sua capra e le sue poche cose" |
"Autocolonne di soccorritori che andavano, mezzi di fortuna di profughi che venivano. Ogni tanto una tendopoli. Alle porte del Comune di Vita, sono entrato in una di queste tendopoli. Gli uomini erano fuori dalle tende e si contendevano le pagnotte e le coperte che alcuni marinai, da un camion in movimento, lanciavano alla rinfusa.
'A me, un pezzo di pane a me!'.
Ma i marinai non avevano il tempo di scegliere le persone alle quali dare le pagnotte. Lanciavano pagnotte sulla folla e basta.
A Salemi ( il comune che precede Gibellina ) sono entrato nell'ospedale: un ospedale di guerra.
A mano a mano che procedo verso Gibellina il viaggio diventa più difficile.
I ponticelli sui torrenti sono pericolanti. Bisogna scendere, attraversarli a piedi, per accertarsi che non si odano scricchiolii, e poi si può passare con l'automobile.
Quando sono in vista di Gibellina, abbandono la macchina e mi unisco ad Arrigo Pasquini.
Presso il cimitero ( i morti sono ancora allineati sul prato, ne arrivano in continuazione ) sono accampati i carabinieri giunti da Palermo.
'Andiamo di casa in casa e gridiamo "C'è qualcuno?". Se rispondono scaviamo. Non c'è altra scelta', mi spiega un carabiniere.
Un vigile del fuoco di Brescia, certo Magni, mi racconta che, con questo sistema, ha salvato una bambina di quattro anni.
'Appena l'ho portata alla luce ha detto "Ciuccio, ciuccio".
Io credevo che chiedesse notizie del suo asino. Lei per "ciuccio" invece intendeva "biberon". Con noi non abbiamo biberon'...".
Il racconto di Paliotti è una testimonianza paurosa della scossa più violenta che colpì in quei giorni il Belìce, quella registrata alle 17.45 di martedì 16 gennaio e dalla durata di 57 secondi.
L'inviato del settimanale si trovava in compagnia del giornalista palermitano Arrigo Pasquini e di tre carabinieri: il terrore li sorprese mentre camminavano sui cumuli di rovine di via del Calvario, una delle principali strade del paese:
"Dunque, camminavamo per Gibellina, io e Pasquini, un ragazzo di meno di trent'anni.
Fin dove i bulldozer hanno lavorato si procede abbastanza speditamente, ma più in là sono soltanto macerie: macerie al centro della strada, macerie ai due lati.
I residui di quelle che furono case, e che ora, orribili occhiaie di morte, lasciano intravedere soltanto quadri in bilico su ritagli di pareti.
C'è un tanfo orribile.
'Saranno le condutture igieniche rotte', dico.
'Macchè condutture. Sono i morti', replica Pasquini.
E procediamo fra i massi, aiutandoci con le mani per camminare.
Incontriamo i tre carabinieri, tuta mimetica e basco; ragazzi sui ventidue anni, uno è napoletano, gli altri due sono di Palermo.
Hanno appena messo di scavare. Che cosa? 'Morti, soltanto morti', mi risponde il carabiniere napoletano.
Siamo tutti e cinque su un cumulo di macerie, e parliamo. Io segno qualche notizia sul taccuino. Parliamo, e anche ridiamo, perchè i militari di leva, dovunque li spinga il loro dovere, hanno sempre sulle labbra una battuta pronta.
Ma ecco ( sono le 17.45 ) che le parole e le risate si spengono: le macerie sulle quali sostiamo sussultano paurosamente, i residui di pareti che a destra e sinistra, fiancheggiano la strada, precipitano.
'Fuggiamo', grida il carabiniere napoletano.
Ma dove fuggire, se tutto precipita, se la terra ci manca sotto i piedi, se ora davanti a noi si è aperta una voragine?
Scivoliamo dolcemente in questa voragine e tutto balla intorno a noi.
Istintivamente ci abbracciamo tutti e cinque, stretti a capannello.
E' stato allora che ho imparato a conoscere la paura. Che cos'è la paura? E' fiato grosso, asma, impossibilità di respirare, mancanza assoluta di pensiero.
Credevo che il pensiero umano non si arrestasse mai, e invece il mio pensiero si è arrestato per 57 secondi.
E' stata, dicono, la scossa più spaventose di tutte, la più violenta.
Quando il boato si è spento e la terra ha smesso di sussultare, io, Arrigo Pasquini e i tre carabinieri, tutti e cinque con lividure varie alle gambe e alle braccia, ma vivi ( perché poi, vivi, proprio noi cinque? ) ci siamo messi ad annaspare fra le macerie e, raggiunto il tratto di strada spianato dai bulldozer, a fuggire, finalmente a fuggire..."
Purtroppo fu una vera e propria "Tragedia", io all'epoca avevo solo 8 mesi (e 8 giorni) ...
RispondiEliminaLa Signora che aveva salvato la capretta, un po di povere cose e la sedia era la mia Nonna Materna... Era la Signora Maria Tumminello, in Colletti ... Un saluto carico di gioia per tutti i sopravvissuti che sono ancora in vita oggi, una preghiera a quelli che purtroppo non ce l'hanno fatta e un grazie a questo meraviglioso sito ...