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sabato 18 agosto 2018

LO SCIROCCO AGRIGENTINO IN UNA PAGINA DI ANTONIO RUSSELLO

La Valle dei Templi, ad Agrigento.
Fotografia di ReportageSicilia
Gli scrittori siciliani hanno spesso posto al centro della loro narrazione lo scirocco: un fenomeno atmosferico che rappresenta perfettamente certe aberrazioni dei caratteri culturali dell'Isola e della psiche dei suoi abitanti, riducendo corpo e anima di questi ultimi in uno stato di prostrazione.
Nel saggio "I soliti ignoti-Scritti sulla letteratura siciliana sommersa del Novecento" ( Dario Flaccovio Editore, 2005 ), Salvatore Ferlita ha ripercorso quello stretto rapporto tra la letteratura e questa condizione ambientale.
Partendo da "Scirocco" di Romualdo Romano ( 1949 ) - un classico della narrativa siciliana ingiustamente tralasciato da critica e pubblico - Ferlita passa in rassegna la trattazione del tema offerta da gran parte degli scrittori isolani.
Da Vitaliano Brancati a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, da Lucio Piccolo a Vincenzo Consolo, da Leonardo Sciascia a Domenico Campana, da Gesualdo Bufalino a Silvana La Spina, da Salvo Piazzese a Domenico Conoscenti, lo scirocco diventa elemento di diversa ed inevitabile variabile interpretativa della "corda pazza" siciliana.
A scoprire o a rileggere autori meno noti della letteratura regionale, vengono tuttavia fuori pagine altrettanto meritevoli di una citazione.



E' il caso, ad esempio, di Antonio Russello e del romanzo ( di ambientazione agrigentina ) "La grande sete", edito nel 1962 da Bino Rebellato Editore.
L'incipit dell'opera così descrive l'opprimente dominio dello scirocco sulla natura e sugli uomini:
    
"Il vento di scirocco durava da tre giorni.
Dapprima erano stati i carrubi sull'alto costone ad accartocciare le foglie, a spaccare la corteccia, a dare quasi tra spacco e spacco lingue di fuoco.
Ed il mare laggiù era lontano 18 chilometri.
Poi più sotto, nel declivio, erano stati i mandorli a spaccare ed aprire i frutti legnosi; infine, nella depressione, gli ulivi a deflagrare piegare e arrotondare le foglie coriacee come valve che si chiudessero e a rattrappire l'argento in un tono scuro, violaceo.
Ed il mare era lontano 18 chilometri.



Ed erano stati i fichi i pistacchi i melograni, gli alberi di più tenera e di più trasparente foglia a rattrappire; ed erano stati i lunghi muriccioli di confine, dalle pietre bianche, a prendere quasi fiamma, diventare quasi calce viva e friggere; e poi le stesse terre scure a smorire e a dare invece di nero, un colore grigio aperto di terra, sfarinandosi, schioccando; e la rena anche dei vigneti che, dalla depressione, salivano ad un alto sperone, quasi attingessero il refrigerio del cielo, crollava dentro le crepe che si facevano.
Ed il mare, come lo stesso cielo, inutile da attingere, era lontano 18 chilometri.
E con le cose, gli animali anche.
Qualche cane qua e là, qualche asino, che scioglievano la lingua secca nell'afa.
E con gli animali, gli uomini.
Qualche uomo qua e là, dentro l'ombra d'un carrubo olivo gelso: fermo e murato nell'afa, col berretto nero in testa, la faccia della stessa scorza di carrubo olivo o gelso, che tra poco vi si dovesse sentire lo schiocco tra cellula e cellula della fronte, aperta e spaccata come la figlia legnosa della pigna..."




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