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domenica 5 maggio 2019

IL GOMITO SICILIANO DI GIACOMO DI GIROLAMO


"La vera razza in estinzione, qui, nel gomito di Sicilia, sono i quarantenni, i trentenni, i ventenni.
Non li vedi più, non ci sono.
Te ne accorgi in due momenti: a Natale, e d'estate, soprattutto d'estate ( le vacanze di Natale durano troppo poco, la famiglia ti inghiotte nei suoi riti ) quando a un certo punto le nostre strade si popolano di persone strane, che non sono turisti, ma è come se lo fossero, che hanno un doppio passo, uno malfermo e uno sicuro, confidenza con alcuni posti e un certo senso di estraneità: sono loro, quelli che se ne sono andati, gli universitari, o quelli che hanno trovato al Nord un lavoro, messo su famiglia.
Tornano per l'estate, come te, sorella mia, o per le ferie, e d'improvviso come una fata Morgana, mentre li vedi affollare le spiagge, il corso, i locali, hai tutto d'un colpo una visione che ti lascia senza fiato.
Come sarebbe questa terra se fossero rimasti, quante potenzialità, quante cose avremmo potuto fare insieme.
E invece loro sono i fortunati che se ne sono andati, noi quelli che restano, e abbiamo un fardello in più da sopportare, quello del resoconto, rispondere ai che si dice, come va, cumpà, che novità ci sono a Marsala/Trapani/Mazara, come sta tizio, caio, la sorella di, il cugino di, fare una sorta di repertorio, e poi cadere nel solito vortice, cumpà, qui è bello, però, sapessi, dove sto io: gli asili aperti fino a tarda sera, il tempo pieno a scuola per i figli, una visita specialistica prenotata in una settimana, all'università hanno il tutor, cumpà, e le mostre e i concerti, minchia cumpà, cose che non possono sapere quelli che restano, baci, certo che poi rivediamo..."

Giacomo Di Girolamo
"Gomito di Sicilia"
Editori Laterza, 2019
125 pagine, 13 euro

IL VIALE DELLA LIBERTA' CHE UNISCE PALERMO E LISBONA

Fotografie
ReportageSicilia
"L'asse rettilineo di via Libertà, lo stesso programmato dal Governo Rivoluzionario del 1848 - ha scritto Antonietta Jolanda Lima in "Storia dell'urbanistica 2/3, Palermo: Via Libertà 1848/1851", Edizioni Kappa, 1982 - si concluderà, nei primi decenni del Novecento, nell'emiciclo della piazza Vittorio Veneto.
Il riferimento nel panorama europeo va alla Avenida de Libertade di Lisbona realizzata nel 1882, non solo per la analogia del suo toponimo ma essenzialmente per gli elementi che la caratterizzano; larga 90 metri, lunga 1,5 km, piantumata a platani, termina anch'essa nella monumentale Praca Marques de Pombal, 'la Rotunda', alle cui spalle si estende il Parque Eduardo VII"



mercoledì 1 maggio 2019

RENATO GUTTUSO ALLA VUCCIRIA IN UN FOTOREPORTAGE DI ANSELMO CALACIURA

Renato Guttuso alla Vucciria.
L'artista aveva da poco completato
l'omonima opera pittorica dedicata
allo storico mercato di Palermo.
Le fotografie riproposte da ReportageSicilia
furono scattate da Anselmo Calaciura, opera citata
Renato Guttuso eseguì la "Vucciria" nell'autunno del 1974 nel suo studio lombardo di Velate, dopo un lungo lavoro di documentazione sul campo.
L'artista di Bagheria, pur conoscendo molto bene gli scorci ed i personaggi del mercato, preparò la sua opera sulla base di centinaia di fotografie da lui stesso scattate nel dicembre del 1973.
Tre anni dopo, il quadro fu pronto per essere donato dall'Università degli Studi di Palermo




Nel frattempo, Guttuso ebbe modo di ritornare spesso alla Vucciria, sotto l'ala protettrice di Isidoro Canfarotta, "storico frequentatore della Vucciria - ha scritto Fabio Carapezza Guttuso - e conoscitore dei suoi più reconditi segreti e codici di comportamento".




Fu in occasione di uno di questi ritorni tra i vicoli e la piazza del mercato palermitano che Guttuso si sottopose ad un reportage fotografico per la rivista "La Gazzetta della Fotografia", edita dalla ditta Angelo Randazzo SPA.
Autore degli scatti fu Anselmo Calaciura, scrittore, giornalista ( prima al "Giornale di Sicilia" e poi, da direttore, all'"L'Ora" ) e lui stesso valente fotoreporter.




Le immagini furono pubblicate nel febbraio del 1976, quando la  "Vucciria" di Guttuso poteva dirsi completata, con un breve testo di presentazione del giornalista del "Giornale di Sicilia" Giuseppe Servello.
Riproponiamo quella cronaca e le fotografie di Calaciura, per sopperire alle difficoltà di ricerca di quella rivista palermitana. 

"A Palermo la stagione invernale è fatta di lunghe piogge, rare sono le giornate di fredda tramontana.
Se Mallarmé fosse venuto ad insegnare inglese da queste parti invece che in Provenza, avrebbe egualmente scritto quel bellissimo verso che dice:

'L'hiver, saison de l'art serein, l'hiver lucide'

Ma l'inverno palermitano molto spesso porta in dono giornate di sole pieno, ed allora è lucido e sereno come una mattina di aprile.
In un giorno di queste incoronazioni solari accadde di ritrovarci in tre per un servizio giornalistico, un modo di definizione tecnica che prevede un tema generico e non gli esiti imprevisti.
Il protagonista dell'incontro era Renato Guttuso, ad Anselmo Calaciura spettava la parte di reporter fotografico, a me quella di raccontare le ragioni di un'insolita passeggiata in uno dei quartieri più popolari di Palermo, la Vucciria.




Guttuso aveva dipinto il grande quadro che porta appunto il titolo di 'Vucciria' e camminando con noi fra i vicoli del mercato avrebbe dovuto dire le ragioni che lo avevano spinto a dipingerlo.
Per quegli esiti imprevedibili di tutti, o quasi, i servizi giornalistici avvenne che la passeggiata si trasformasse in un'operazione di regia piuttosto che in una vera e propria intervista.
Del resto era logico.
Guttuso è attore e strappa le immagini prima ancora delle parole.
Anzi, alle parole si prestava un pò pigramente e i suoi spessori di colore si traducevano con più immediatezza sul negativo della pellicola e di meno sullo schermo della memoria.
Non credo che a Calaciura sia stato difficile muoverlo in mezzo a quella confusione di voci, di suoni e di caleidoscopiche merci.
Il protagonista accettava i suggerimenti e poi recitava a braccio, come se seguisse le cadenze di un concordato copione.
La macchina fotografica lo fermava nei momenti culminanti, quando era sulla cima di una fase del discorso.
Poi lo inseguiva davanti ad una macelleria oppure a fianco dei banconi dove i pesci e le olive formavano surreali architetture.
In questa rapida corsa attraverso il mondo della 'Vucciria' non ci sono stati impacci e resistenze.




Calaciura si preoccupava che nell'economia delle composizioni qualcosa potesse sfuggirgli.
Cambiava obiettivi, macchine, modi di angolazione.
Scartocciava pellicole e manovrava tra la folla.
Qualcuno riconosceva il personaggio ma non dava fastidio; anzi, si metteva da canto e favoriva la rapida regia.
E dopo un'ora tutto era finito.
Adesso le immagini fotografiche sono qui, sotto gli occhi di tutti.
Non tutte, naturalmente.
Sono state scelte, per questa rivista, solo quelle che in sintesi potevano dare un effetto di racconto logico e conseguente; le altre si sono dovute accantonare.
Ed è un peccato, perché anche dietro le variazioni di ognuna di esse c'erano particolari da non perdere.
Ma il gusto della vita rumorosa di un crocicchio vitale di Palermo non si è perduto e, senza presunzione, rimane sulla retina a fianco della 'Vucciria' di Guttuso" 



PORTELLA DELLA GINESTRA, L'INUTILE ATTESA DELLA VERITA'

Manifestazione di Danilo Dolci per il ventennale
della strage di Portella della Ginestra dinanzi Montecitorio.
La fotografia è tratta dall'opera
"Mafia, ieri e oggi" di Enza Berardi,
edita nel 1976 da Paravia
Il 1 maggio del 1947 a Portella della Ginestra si consumò un eccidio di contadini e braccianti che viene considerato da molti storici come la prima "strage di Stato" dell'Italia repubblicana.
Ancor oggi, non è noto il contenuto di alcuni atti giudiziari che dovrebbero essere conservati negli archivi del Tribunale di Palermo: documenti relativi al ruolo nella feroce sparatoria di alcuni capimafia del palermitano e alle ultime dichiarazioni rese da Gaspare Pisciotta prima del suo avvelenamento.
Malgrado gli appelli per la verità rivolti alla stessa Presidenza della Repubblica, storici e familiari delle vittime di Portella della Ginestra non hanno mai ottenuto risposte sul reali mandanti dell'eccidio.  
La sparatoria iniziata verso le 10.30 durò poco più di dieci minuti e, come si legge in "Mafia e banditismo nella Sicilia del dopoguerra. La sentenza del processo di Viterbo per i fatti di Portella della Ginestra", a cura di Francesco Petrotta, La Zisa, Palermo, ( 2003 ):

"Finiti gli spari, a gran voce, ognuno chiamò i propri congiunti ed insieme od anche isolatamente, si avviarono per far ritorno al proprio paese, utilizzando, a tale scopo, ogni mezzo.
I feriti furono raccolti e con carri, carretti, biciclette, quadrupedi, furono accompagnati a Piana degli Albanesi o a San Giuseppe Jato, donde furono avviati verso Palermo per farli ricoverare negli ospedali della città.
Il bilancio di quella giornata, che doveva essere di festa, fu il seguente: undici i morti trovati sul terreno, ventisette i feriti più o meno gravemente"


Ricorda lo stesso Francesco Petrotta, in "La strage e i depistaggi, il castello d'ombre su Portella della Ginestra", Ediesse,  ( 2009 ) che:

"Persero la vita Margherita Clesceri, Giorgio Cusenza, Giovanni Megna, Vito Allotta, Serafino Lascari, Francesco Vicari, Vincenza La Fata, Giovanni Grifò, Giuseppe Di Maggio, Castrenze Intravaia e Filippo Di Salvo, mentre rimasero feriti da colpi di arma da fuoco Giorgio Caldarella, Giorgio Mileto, Antonino Palumbo, Salvatore Invernale, Francesco La Puma, Damiano Petta, Salvatore Caruso, Giuseppe Muscarello, Eleonora Moschetto, Salvatore Marino, Alfonso Di Corrado, Giuseppe Fratello, Pietro Schirò, Provvidenza Greco, Cristina La Rocca, Marco Italiano, Maria Vicari, Salvatore Renna, Maria Calderera, Ettore Fortuna, Vincenza Spina, Giuseppe Parrino, Gaspare Pardo, Antonina Caiola, Castrenze Ricotta, Francesca Di Lorenzo e Gaetano Di Modica.
Ai dati ufficiali, desunti dalle sentenze di Viterbo e Roma, vanno aggiunti la dodicesima vittima Vita Dorangricchia da Piana degli Albanesi, che morì nove mesi dopo il 31 gennaio 1948 in conseguenza del tragico eccidio, e tre feriti: Michelangelo Castagna, Vincenzo Cannavò e Giorgio Bovì, colpito di striscio ad una gamba da un proiettile"



domenica 28 aprile 2019

GLI ULTIMI CARBONAI DELLE MADONIE

Fotografie
ReportageSicilia
I tre fratelli portano avanti un lavoro secolare ed un tempo - sino all'immediato secondo dopoguerra - molto diffuso  nelle Madonie: quello del carbonaio, la cui opera era fondamentale per garantire alle popolazioni locali combustibile essenziale per il riscaldamento delle case e la cottura dei cibi.
Damiano, Pietro e Mario Carrubba raccolgono legna nei boschi delle Petralie, trasformandolo in carbone con la stessa sapienza e la stessa fatica che furono del nonno e del padre.




In un angolo di bosco non lontano da Petralia Sottana, accatastano in queste settimane rami e ceppi di quercia, faggio e leccio, formando cumuli - i "fussuni" - circondati da pietre e percorribili sino alla cima grazie ad una scala in legno.
Le piramidi vengono poi coperte con terra e fogliame; quindi, per 5 giorni e 5 notti, i Carrubba innescano all'interno il fuoco che trasformerà il legno in carbone.




Al termine della preparazione e lavorazione nei "fussuni" fumanti - attivati con la speranza che non arrivi inattesa pioggia - si raccolgono i ciocchi di carbone.
Il modo per controllare la loro buona qualità è affidata ad una prova sonora: battendoli l'uno sull'altro, devono risuonare con il tintinnio di una campana.
Il carbone prodotto dai fratelli Carrubba equivale a circa il 30 per cento della legna bruciata e viene venduto a ristoranti o privati che preparano la brace con un prodotto di qualità: il loro lavoro rimanda ad un sapere secolare, quando il bosco era fonte di mestieri e di ricchezza per le comunità locali.




Oggi i Carrubba si considerano gli ultimi veri carbonai delle Madonie.
I registri conservati nell'Archivio Storico Comunale di Petralia Sottana indicano che alla fine dell'Ottocento l'attività di questi lavoratori era diffusa in tutte le Madonie, soprattutto a Castelbuono, Geraci, le Petralie e Polizzi Generosa.
Decine sono i nomi e cognomi dei carbonai citati in quei documenti: Gugliuzza, Mazzola, Pappalardo, Abbate, Alfonso, AjelloFirrera e molti altri di "padroni" e lavoranti che raccoglievano e bruciavano la legna nei periodi fra aprile e giugno, e fra settembre e la fine di ottobre.
Il lavoro era portato avanti da squadre di una decina di carbonai e seguiva precise e rigorose regole imposte dai Comuni.



La scelta dei luoghi dove raccogliere la legna era affidata ai guardiaboschi, che, almeno sulla carta, avevano un ruolo di controllori. 
Era lui ad indicare quali alberi potevano essere tagliati, ed a ritirare la concessione nel caso in cui i carbonai mettessero a bruciare rami da destinare invece alla costruzione di aratri o di altri oggetti di uso lavorativo.
In un registro datato 1881, si apprende inoltre che ogni squadra di carbonai era obbligata a cedere 4 salme di carbone al Comune che aveva loro assegnato il bosco destinato a produrre il carbone.



Dai vecchi documenti consultati all'interno dell'Archivio Storico Comunale di Petralia Sottana si ricostruisce un pezzo insomma non secondario di storia economica e di cultura delle Madonie del passato.
Fra le tante informazioni, non mancano le curiosità: quella ad esempio che alla fine dell'Ottocento le attuali piste da sci di Piano Battaglia ospitavano un "giacimento" di querce e lecci ambito da decine di carbonai.
  


lunedì 8 aprile 2019

LA BOMBA MAFIOSA CONTRO LE INCHIESTE DE "L'ORA"

Il cratere formato dall'esplosione
dell'ordigno mafioso che nell'ottobre del 1958
danneggiò la tipografia del quotidiano "L'Ora".
La fotografia è tratta dal "Giornale di Sicilia"
del 20 ottobre del 1958
Poco prima delle 5 del mattino del 19 ottobre del 1958 un boato svegliò i residenti nel pieno centro di Palermo, tra la via Mariano Stabile e piazza San Francesco di Paola.
Un ordigno esplosivo confezionato all'interno di un contenitore di latta per pomodori esplose nel porticato al di sotto del quale, in via Mariano Stabile, si trovata la tipografia del quotidiano "L'Ora".
La deflagrazione infranse decine di vetrate di palazzi, ad una distanza di centro metri, e devastò i locali di un negozio di elettrodomestici. 
Sul marciapiede si creò una voragine; il crollo dei detriti danneggiò le rotative ed altri macchinari per la stampa. 
Non ci furono vittime o feriti, ma l'attentato rappresentò un chiaro attacco contro quella parte di stampa cittadina più impegnata in inchieste antimafia.
Già nel 1948, la sede del giornale palermitano fondato dai Florio - nell'adiacente palazzetto di piazza Francesco Napoli - era stata oggetto di un primo attentato, attribuito alla banda Giuliano.
Dieci anni dopo, l'episodio dinamitardo ebbe una matrice per certi versi più feroce. 
Immediatamente, si capì che il mittente dell'ordigno esplosivo non poteva che essere quel clan di cui "L'Ora" stava tracciando da mesi un chiaro identikit: quello corleonese di Luciano Liggio, che da lì a pochi decenni avrebbe utilizzato a Palermo il tritolo anche contro i magistrati.

"La bomba del 19 ottobre del 1958 - ha scritto Vincenzo Vasile in "La corsa de L'Ora" ( a cura di Franco Nicastro, Navarra Editore, 2018 ) - rappresenta e racchiude l'unicità del giornale di Vittorio Nisticò.
In altre parole, è vero - è storicamente vero, significativamente vero per chi volesse studiare la storia dell'informazione in regime di mafia, anzi la storia dell'informazione in Italia - che gli altri... no, gli altri giornali non aprirono un conto con la mafia in quegli anni, e che per molti, moltissimi anni ancora, il giornale L'Ora - il nostro Giornale - si trovò da solo su questa barricata.
Per gli altri non fu così. Gli altri, no.
La bomba del 19 ottobre del 1958 esplose puntuale, dunque, sul bersaglio annunciato.


Fotografia di Giusto Scafidi
tratta dal supplemento "Mafia"
de "L'Europeo" pubblicato nel 1962,
a cura di Renzo Trionfera
Non perché l'attentato fosse stato preceduto da minacce o avvertimenti ( non ve ne è traccia nelle cronache dell'epoca, e 'l'avvertimento', la prima intimidazione era proprio l'attentato ), ma perchè il panorama generale era segnato da silenzio e omertà.
Sono taglienti e poco diplomatiche le parole di Nisticò, che - nel ringraziare altri colleghi e testate giornalistiche per le espressioni di solidarietà - ammonisce:

'Gliene siamo grati, ma riteniamo di muoverci nel giusto se ai nostri colleghi e alle altre testate della stampa isolana esprimiamo l'auspicio che non ci si lasci soli nella lotta ingaggiata...
E' ora di finirla con certe carenze e con certi silenzi che sono in ogni caso colpevoli anche quando sono dettati dalla comprensibile preoccupazione di non alimentare le montature a carattere giallo con cui a Roma e Milano si finisce con lo screditare il prestigio della nostra gente...'

Carenze, silenzi, così li chiama eufemisticamente Nisticò: 


'e siete pregati di non andare più appresso all'accusa di screditare i siciliani, quando si parla - quando noi parliamo - di mafia'

ammoniva nella sua maniera brusca"

domenica 7 aprile 2019

L'INQUIETA DEVOZIONE DINANZI LA LAVA DELL'ETNA

Nel novembre del 1950, un gruppo di donne di Milo
invoca l'intervento di sant'Andrea per fermare la lava dell'Etna.
Le fotografie riproposte da ReportageSicilia
sono tratte da un reportage pubblicato nel dicembre del 1950
dal settimanale "L'Europeo"
"In quella primavera una fiumana infuocata scese per i fianchi del vulcano, come altre volte.
Devastò le campagne e laggiù ricordano un'altra eruzione avvenuta cinquant'anni prima; anzi, se ne ricordano tre da che la Sicilia è abitata dai greci..."

Così è ricordata l'eruzione dell'Etna del 425 avanti Cristo dallo storico ateniese Tucidide, che forse vi assistette personalmente; delle altre tre a cui fa riferimento, quella del 475 è descritta da Eschilo e da Pindaro, le altre due risalgono a quattro secoli prima.
Dai secoli più remoti nella storia delle sue eruzioni, l'Etna suscita insomma le attenzioni dei cronisti, calamitati sin alle pendici del vulcano dall'affascinante e pauroso spettacolo di uno dei più violenti fenomeni naturali, cui la tecnologia umana può ancor oggi contrapporre solo una rete di semplice vigilanza.
In tempi più recenti, le eruzioni dell'Etna ( e le devastazioni provocate al territorio ) sono diventate motivo di puntuale spettacolarizzazione mediatica.


La circostanza si verificò anche nel lontano 1950, quando - a partire dalla sera del 25 novembre e sino alla metà del gennaio del 1951 - una violenta eruzione creò serio allarme lungo il versante Nord Est del vulcano.
Per molti giorni, gli abitanti delle frazioni di Milo, Fornazzo e Rinazzo furono costretti a sfollare in 5 tendopoli.
Le pendici del vulcano diventarono così il set di numerosi reportage giornalistici, destinati a cogliere anche gli aspetti del secolare rapporto fra le popolazioni locali e la forza incontrollabile dell'Etna.


Di questo legame, nel dicembre del 1950 l'inviato de "L'Europeo" Tommaso Besozzi colse l'impaurita ed a volte risentita reazione devozionale in occasione di un evento che mise a rischio l'incolumità di abitazioni ed attività economiche:

"La storia dell'Etna, che fu per il mondo greco il vulcano per eccellenza, è disseminata fin dalla remota antichità di superstizioni; la differenza principale tra le leggende e i riti esorcistici dell'antichità greco-romana e quelli dell'era cristiana, è nel fatto che nei tempi pagani le eruzioni del vulcano hanno per protagonisti delle entità divine o semidivine la cui ira e il cui capriccio è da sedare coi riti esorcistici, mentre nei secoli cristiani il dramma delle popolazioni sub-etnee minacciate dalla collera del vulcano ha come personaggi i santi il cui intervento contro la forza diabolica o di natura si ottiene, o meno, coi riti propiziatori e col merito dei fedeli.
Ad ogni nuova eruzione, si assiste all'uscita delle statue variopinte dei santi, che o su carri o a spalla vengono portate verso il fonte della colata di lava.
Le immagini atteggiate con enfasi ingenua all'estasi o al martirio sostano circondate dai fedeli tesi nell'aspettativa, che nel prolungarsi del pericolo può mutarsi in esigenza imperiosa e poi in delusione collerica.
San Giuseppe col bastone fiorito, santa Lucia cieca che ostenta in una coppa i suoi occhi strappati, san Biagio con piviale e mitra, san Rocco col cane, sono acclamati o insolentiti.

Salvataggio di botti di vino
prima dell'arrivo della lava
Durante l'eruzione del 1928, gli abitanti di Puntalazzo e quelli di Mascali portarono in processione le statue dei rispettivi protettori, san Vito e san Leonardo.
Puntalazzo si salvò, Mascali scomparve per intero.
La statua di San Leonardo fu lasciata a bruciare dalla lava.
Vi fu un vero esodo di fedeli dal partito dell'uno al partito dell'altro santo.
In un gruppetto di profughi una donna chiamava inutilmente suo marito a pochi passi di distanza, "Nardu, Nardu!".
Il marito per un poco fece il sordo, poi si voltò incollerito:
"Chi chiamavi, a mia? Io nun mi chiamu chiù Nardu, mi chiamu Vitu. Vitu!"