Molti italiani non la considerano neppure come un luogo dove trascorrere le vacanze estive, preferendole le Eolie, le Egadi o la più lontana Lampedusa.
Ustica così rimane ancor oggi ai margini dei grandi flussi turistici, malgrado l'isola sia stata la prima riserva marina d'Italia e nonostante l'ormai datata organizzazione di rassegne cinematografiche e subacquee di rilevanza internazionale.
Distante appena 57 chilometri da Palermo, Ustica insomma sembra ribadire quella tendenza all'isolamento assegnatagli in passato dal suo utilizzo come luogo per confinati politici - fra questi, Gramsci, Parri e Romita - e di mafiosi al soggiorno obbligato.
La storia locale racconta che, nel secondo dopo guerra, i primi turisti stranieri parlarono italiano e norvegese.
Lo sbarco era di per sé un'iniziazione al carattere avventuroso e remoto del soggiorno.
Sino al 1962 si arrivava a cala Santa Maria a bordo di barconi, visto che i traghetti non avevano la possibilità di un attracco sicuro.
Sino al 1962 si arrivava a cala Santa Maria a bordo di barconi, visto che i traghetti non avevano la possibilità di un attracco sicuro.
In quello stesso periodo, si discusse a lungo la possibilità di collegare l'isola con il neonato aeroporto palermitano di punta Raisi tramite aliscafi: sterile materia di argomento per la stampa locale, visto che il progetto non ebbe alcun seguito.
Scena di vita quotidiana ad Ustica nei pressi di cala Santa Maria, l'approdo dell'isola. La fotografia è del fotografo Ezio Quiresi ed è tratta dal volume "Sicilia", edito nel 1961 dal TCI |
Monachesi, Turcato, Omiccioli ed altri pittori d'avanguardia decorarono in quegli anni remoti le mura del paese con affreschi acrilici, ma anche questo contributo artistico non è riuscito a fare di Ustica - non del tutto negativamente, c'è da aggiungere - uno dei tanti luoghi impegnati a gestire il turismo di massa o mondano.
Per molti italiani, il nome dell'isola evoca così la tragica ed impunita strage del DC9 dell'Itavia.
Impropriamente, per di più; l'abbattimento del giugno 1980 avvenne infatti ad un cinquantina di miglia a Nord di Ustica, in quella stessa area del basso Tirreno dove meno note tragedie attestano l'abituale frequentazione aerea di velivoli militari.
Soltanto le vecchie cronache giornalistiche ricordano infatti che al largo dell'isola si inabissarono nell'agosto del 1953 un C 119 "Flyng Boxcar" e nel novembre del 1969 un A7 Corsair, entrambi americani.
L'isolamento e l'estraneità di Ustica ai flussi turistici di massa vennero descritti nel 1979 da Franz Maria D'Asaro ( 1925-2003 ), giornalista e scrittore palermitano che a Roma ebbe incarichi di primo piano presso il "Secolo d'Italia" e "Il Tempo".
Nel saggio "C'era una volta la Sicilia", edito da Edizioni Thule, si dà conto di uno stato di povertà economica e di miseria di sessant'anni fa, certo oggi non più presenti ad Ustica; eppure, quel senso di luogo dalla bellezza in disparte rimane attuale ancora ai nostri giorni.
"Negli anni Cinquanta i turisti stranieri più avventurosi, quelli che 'scendono' in Sicilia in cerca di 'sensazioni forti', cominciarono a scoprirla e non c'era da stupirsi se qualche slavato giovanotto germanico o qualche legnosa professoressa inglese affermava che tra Capri ed Ustica non c'era proprio da fare paragoni: l'isoletta siciliana non era artificiosa ed artificiale come Capri, ma sincera, rude, primitiva.
Era rimasta come Dio l'aveva creata.
Torniamo, dunque, agli anni Cinquanta e rivisitiamo Ustica ai tempi in cui l'aliscafo era soltanto un progetto di fantascienza, sul quale farneticavano - appassionatissimi - i giovani ingegneri di Palermo.
Torniamo indietro di venticinque anni ed eccoci al porto alla ricerca del piroscafo per Ustica: ci indicano una vecchia carcassa che sembra galleggiare per dispetto.
Un trabiccolo anziano, traballante e catarroso che - quando il mare è liscio come una tavola - impiega oltre quattro ore per lasciarci quasi a destinazione.
Diciamo 'quasi' perché il piroscafo si ferma a circa duecento metri dalla riva, in attesa di rattoppatissime barchette a remi sulle quali - attraverso scalette in convulsione - i passeggeri scendono per essere portati a terra.
E' una ginnastica audace che diventa veramente acrobatica quando il mare è agitato.
Inutile dire che d'inverno il 'piroscafo' arriva con notevole ritardo dopo avervi sconvolto e saziato con tutti i ritmi delle più sfrenate danze antiche e moderne.
Una volta a terra, Ustica si presenta senza sotterfugi; si presenta così com'è: ferma nel tempo, immersa in un silenzio che sgomenta, rapida e bella, severa e spaventosamente povera.
I suoi abitanti - non raggiungono il migliaio - si dedicano alla pesca con attrezzature assolutamente primitive.
Sostenuti dalla disperazione della loro miseria, sono sempre sul mare, notte e giorno, sempre sperando, sempre pregando, sempre in lotta con quello che non hanno, che non possono avere, che nessuno dà loro. Miseria fatta di niente, proprio di niente, se non di un tozzo di pane e del pianto dei bimbi.
Per comprendere quale sia il valore del denaro ad Ustica, dove denaro non c'è e dove ogni lira che viene da fuori rappresenta un insperato dono della provvidenza, basti questo esempio. Con la spesa di ottocento lire potete avere tutte queste cose: una stanza spaziosa e confortevole con veduta sul mare, due pasti abbondanti e completi, quattro caffè.
La miseria è ovunque. Nelle abitazioni - che sono soltanto rifugi sconnessi - nelle strade - che sono soltanto fiumi di polvere e pietre - nel registro dei poveri, nelle barche, negli abiti, nella terra, nei ruderi delle costruzioni cadenti, nelle malattie, in ogni cosa che sia nata o che viva in questo scoglio di nessuno.
Eppure Ustica è veramente un sogno cinematografico fattosi realtà. Un caleidoscopio di sensazioni infinite, ricchissimo di panorami, di scorci, di luci.
Che dire delle grotte colorate? Quella verde, dove tutto il verde che la natura ha saputo creare è in tutte sfumature; quella azzurra - harem notturno di sirene tirreniche - quella d'oro, che vi abbaglia con le sue pareti di zolfo allucinante, sono visioni che vi trasportano nel dantesco e nel mitologico.
Cerchiamo una ragione, un pretesto, un motivo qualsiasi per spiegarci il controsenso di un'isola così idealmente turistica e l'ostinata politica antituristica nei suoi confronti.
Cerchiamoci di convincere che i turisti non vengono ad Ustica perché è sede di confino. Ma non è vero. Non vengono perché nessuno si è preoccupato di farla conoscere, di inserirla negli itinerari siciliani, di organizzare un minimo di attrezzature ospitali e decenti. Ustica è abbandonata, rassegnata.
I confinati rappresentano la sola risorsa economica dell'isola, abitano qualche stanza in casa di pescatori, si fanno preparare da mangiare, comprano sempre qualcosa. Si può dire che siano dei benemeriti e gli isolani fanno di tutto per rendere loro meno disagiata la residenza coatta.
Se c'è qualche malato grave, i casi sono due: o muore o arriva in tempo qualche corvetta della Marina che trasporta l'infermo a Palermo o addirittura a Messina, come è già accaduto.
Quello che stupisce fra tanta miseria è la pulizia: da fare invidia a San Marino.
L'isola potrebbe fiorire a nuova vita solo che gli uomini responsabili si accorgessero della sua esistenza.
Basterebbe poco, molto poco, ed Ustica - resa più accogliente e soprattutto più accessibile con un piroscafo che fosse veramente tale - non tarderebbe a diventare un centro di attrazione turistica.
Quei pochi stranieri che l'hanno visitata hanno voluto fare paragoni, ma bisognerebbe aggiungere che, se Capri non si dimentica per quello che è, Ustica non si dimentica per quello che potrebbe essere.
Così era Ustica negli anni Cinquanta. E adesso?
Certo c'è l'aliscafo, il turismo ha fatto progressi, la pesca e l'agricoltura hanno conosciuto la teoria - soltanto la teoria - dell'ammodernamento, ma i problemi vitali, quelli che affondano nell'anima degli usticesi e nella storia dell'isola, non solo sono rimasti, ma si sono sensibilmente aggravati.
A che valgono venticinque anni di progresso se ancora nel settembre del 1976 un convegno si problemi di Ustica si è concluso con un documento nel quale si afferma che 'bisogna puntare su una corretta utilizzazione delle leggi regionali per risollevare l'economia di Ustica'?
Che senso ha aver predisposto tante belle leggi per poi non applicarle?
A che cosa sono serviti questi venticinque anni, se si è ancora nella condizione di dover 'risollevare l'economia'"?
Impropriamente, per di più; l'abbattimento del giugno 1980 avvenne infatti ad un cinquantina di miglia a Nord di Ustica, in quella stessa area del basso Tirreno dove meno note tragedie attestano l'abituale frequentazione aerea di velivoli militari.
Soltanto le vecchie cronache giornalistiche ricordano infatti che al largo dell'isola si inabissarono nell'agosto del 1953 un C 119 "Flyng Boxcar" e nel novembre del 1969 un A7 Corsair, entrambi americani.
L'isolamento e l'estraneità di Ustica ai flussi turistici di massa vennero descritti nel 1979 da Franz Maria D'Asaro ( 1925-2003 ), giornalista e scrittore palermitano che a Roma ebbe incarichi di primo piano presso il "Secolo d'Italia" e "Il Tempo".
Nel saggio "C'era una volta la Sicilia", edito da Edizioni Thule, si dà conto di uno stato di povertà economica e di miseria di sessant'anni fa, certo oggi non più presenti ad Ustica; eppure, quel senso di luogo dalla bellezza in disparte rimane attuale ancora ai nostri giorni.
"Negli anni Cinquanta i turisti stranieri più avventurosi, quelli che 'scendono' in Sicilia in cerca di 'sensazioni forti', cominciarono a scoprirla e non c'era da stupirsi se qualche slavato giovanotto germanico o qualche legnosa professoressa inglese affermava che tra Capri ed Ustica non c'era proprio da fare paragoni: l'isoletta siciliana non era artificiosa ed artificiale come Capri, ma sincera, rude, primitiva.
Era rimasta come Dio l'aveva creata.
Torniamo, dunque, agli anni Cinquanta e rivisitiamo Ustica ai tempi in cui l'aliscafo era soltanto un progetto di fantascienza, sul quale farneticavano - appassionatissimi - i giovani ingegneri di Palermo.
Torniamo indietro di venticinque anni ed eccoci al porto alla ricerca del piroscafo per Ustica: ci indicano una vecchia carcassa che sembra galleggiare per dispetto.
Un trabiccolo anziano, traballante e catarroso che - quando il mare è liscio come una tavola - impiega oltre quattro ore per lasciarci quasi a destinazione.
Diciamo 'quasi' perché il piroscafo si ferma a circa duecento metri dalla riva, in attesa di rattoppatissime barchette a remi sulle quali - attraverso scalette in convulsione - i passeggeri scendono per essere portati a terra.
E' una ginnastica audace che diventa veramente acrobatica quando il mare è agitato.
Inutile dire che d'inverno il 'piroscafo' arriva con notevole ritardo dopo avervi sconvolto e saziato con tutti i ritmi delle più sfrenate danze antiche e moderne.
Una volta a terra, Ustica si presenta senza sotterfugi; si presenta così com'è: ferma nel tempo, immersa in un silenzio che sgomenta, rapida e bella, severa e spaventosamente povera.
I suoi abitanti - non raggiungono il migliaio - si dedicano alla pesca con attrezzature assolutamente primitive.
Sostenuti dalla disperazione della loro miseria, sono sempre sul mare, notte e giorno, sempre sperando, sempre pregando, sempre in lotta con quello che non hanno, che non possono avere, che nessuno dà loro. Miseria fatta di niente, proprio di niente, se non di un tozzo di pane e del pianto dei bimbi.
Per comprendere quale sia il valore del denaro ad Ustica, dove denaro non c'è e dove ogni lira che viene da fuori rappresenta un insperato dono della provvidenza, basti questo esempio. Con la spesa di ottocento lire potete avere tutte queste cose: una stanza spaziosa e confortevole con veduta sul mare, due pasti abbondanti e completi, quattro caffè.
La miseria è ovunque. Nelle abitazioni - che sono soltanto rifugi sconnessi - nelle strade - che sono soltanto fiumi di polvere e pietre - nel registro dei poveri, nelle barche, negli abiti, nella terra, nei ruderi delle costruzioni cadenti, nelle malattie, in ogni cosa che sia nata o che viva in questo scoglio di nessuno.
Eppure Ustica è veramente un sogno cinematografico fattosi realtà. Un caleidoscopio di sensazioni infinite, ricchissimo di panorami, di scorci, di luci.
Che dire delle grotte colorate? Quella verde, dove tutto il verde che la natura ha saputo creare è in tutte sfumature; quella azzurra - harem notturno di sirene tirreniche - quella d'oro, che vi abbaglia con le sue pareti di zolfo allucinante, sono visioni che vi trasportano nel dantesco e nel mitologico.
Cerchiamo una ragione, un pretesto, un motivo qualsiasi per spiegarci il controsenso di un'isola così idealmente turistica e l'ostinata politica antituristica nei suoi confronti.
Cerchiamoci di convincere che i turisti non vengono ad Ustica perché è sede di confino. Ma non è vero. Non vengono perché nessuno si è preoccupato di farla conoscere, di inserirla negli itinerari siciliani, di organizzare un minimo di attrezzature ospitali e decenti. Ustica è abbandonata, rassegnata.
I confinati rappresentano la sola risorsa economica dell'isola, abitano qualche stanza in casa di pescatori, si fanno preparare da mangiare, comprano sempre qualcosa. Si può dire che siano dei benemeriti e gli isolani fanno di tutto per rendere loro meno disagiata la residenza coatta.
Se c'è qualche malato grave, i casi sono due: o muore o arriva in tempo qualche corvetta della Marina che trasporta l'infermo a Palermo o addirittura a Messina, come è già accaduto.
Quello che stupisce fra tanta miseria è la pulizia: da fare invidia a San Marino.
L'isola potrebbe fiorire a nuova vita solo che gli uomini responsabili si accorgessero della sua esistenza.
Basterebbe poco, molto poco, ed Ustica - resa più accogliente e soprattutto più accessibile con un piroscafo che fosse veramente tale - non tarderebbe a diventare un centro di attrazione turistica.
Quei pochi stranieri che l'hanno visitata hanno voluto fare paragoni, ma bisognerebbe aggiungere che, se Capri non si dimentica per quello che è, Ustica non si dimentica per quello che potrebbe essere.
Così era Ustica negli anni Cinquanta. E adesso?
Certo c'è l'aliscafo, il turismo ha fatto progressi, la pesca e l'agricoltura hanno conosciuto la teoria - soltanto la teoria - dell'ammodernamento, ma i problemi vitali, quelli che affondano nell'anima degli usticesi e nella storia dell'isola, non solo sono rimasti, ma si sono sensibilmente aggravati.
A che valgono venticinque anni di progresso se ancora nel settembre del 1976 un convegno si problemi di Ustica si è concluso con un documento nel quale si afferma che 'bisogna puntare su una corretta utilizzazione delle leggi regionali per risollevare l'economia di Ustica'?
Che senso ha aver predisposto tante belle leggi per poi non applicarle?
A che cosa sono serviti questi venticinque anni, se si è ancora nella condizione di dover 'risollevare l'economia'"?
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