Dai ricordi autobiografici del saggista di "La Sicilia è un'isola" un ritratto della società cittadina dopo il terremoto del 1908
"Io nacqui nel deposito tramviario, dentro una vettura del tram a vapore Messina-Barcellona Pozzo di Gotto, rimasta inutilizzata per la scomparsa dei binari. Vi si installò tutta la mia famiglia. Tutto intorno sorgevano baracche e si po' dire che i miei primi vagiti li emisi in una baracca.
Me ne è rimasta una forma quasi allergica di ripugnanza per l'odore del legno fresco e della colla e l'amore per i saltimbanchi e per il provvisorio".
Questi ricordi autobiografici riguardano il giornalista e scrittore messinese Giuseppe Longo, cui ReportageSicilia ha dedicato di recente un primo post.
Figlio d'arte, il direttore del "Resto del Carlino" e del "Gazzettino di Venezia" nacque 17 mesi dopo il devastante terremoto che rase al suolo Messina nel 1908.
Alle 5 e 20 del 28 dicembre, ventotto secondi di scosse distrussero oltre il 90 per cento della città; le vittime stimate furono oltre 60.000, ed i sopravvissuti in buona parte emigrarono fra Milano, Torino e Roma.
In questa e nella foto che segue, volti ed espressioni di messinesi durante la processione della Vara dell'Assunta, evento che si svolge il 15 agosto. Le immagini sono di Alfredo Camisa, opera citata |
Alle 5 e 20 del 28 dicembre, ventotto secondi di scosse distrussero oltre il 90 per cento della città; le vittime stimate furono oltre 60.000, ed i sopravvissuti in buona parte emigrarono fra Milano, Torino e Roma.
Nell'opera "La Sicilia è un'isola" ( Aldo Martello Editore, 1961 ), Giuseppe Longo avrebbe rievocato il difficile periodo della sua infanzia nei primissimi anni della ricostruzione.
Più e meglio di un qualsiasi saggio di geografia umana, le pagine di quel libro offrono una illuminante chiave di lettura sui criteri di ricostruzione di Messina e sulle dinamiche demografiche che consentirono il ripopolamento della città.
All'emigrazione dei nativi - famiglie che, persi gli averi ed il lavoro, furono costrette a cercare nuova fortuna lontano dalla Sicilia - corrispose un'immigrazione di provenienza rurale, o di operai e piccoli imprenditori "continentali", pronti a sfruttare le opportunità offerte dalla ricostruzione della città.
All'emigrazione dei nativi - famiglie che, persi gli averi ed il lavoro, furono costrette a cercare nuova fortuna lontano dalla Sicilia - corrispose un'immigrazione di provenienza rurale, o di operai e piccoli imprenditori "continentali", pronti a sfruttare le opportunità offerte dalla ricostruzione della città.
Il terremoto del 1908, insomma, a distanza di pochi decenni ha contribuito a rendere Messina la meno siciliana fra le città dell'isola, nell'aspetto della sua architettura e nel carattere dei suoi abitanti.
Ancor oggi, le attività commerciali e gli interessi dei messinesi sono rivolti più verso Reggio Calabria che verso Palermo o Catania.
"La sorte volle che io nascessi, dopo il terremoto di Messina, in una città nuova, tutta odorosa di legno di picpine.
Nei primi mesi del 1909, quando era presidente degli Stati Uniti Teodoro Roosevelt, ci arrivarono i primi aiuti americani sotto specie di immense quantità di assi piallate di picpine, uno dei legni più duri che si conoscano, destinate a fabbricare baracche per i sopravvissuti del terremoto del 28 dicembre 1908.
Una veduta di Messina dal ferry-boat. L'immagine è di Patrice Molinard ed è tratta dal volume "La Sicile", edito a Parigi da Del Duca nel 1957 |
Tutte le navi che giungevano nel porto sconvolto erano cariche di legname proveniente da tutte le parti del mondo.
Si trattava, nientemeno, di costruire abitazioni per cinquantamila persone...
Di quel tempo non ho nessuna memoria.
Ho, invece, sempre davanti agli occhi le sterminate distese di baracche del quartiere americano, le strade dritte e intersecantisi che lo percorrevano, chiamate quali col nome di personaggi americani, della politica e dell'esercito, talvolta oscuri sottufficiali, e quali con numeri romani: via Bicknel o Traversa XIV che i messinesi pronunciavano quattordici.
La ricostruzione della città, che avvenne dopo, e forse oggimai finita , fu fatta seguendo i tracciati di queste strade e sostituendo alle baracche piccole casematte di cemento, armato formidabilmente di ferro, ad un solo piano, tal che le bombe dell'ultima guerra le sfondarono, le sbrindellarono, ma non riuscirono a farle saltare o demolire.
In una città siffatta l'essenza della sicilianità non poteva non risultare sbiadita, onde sarebbe vano farvi ricerche per ricavarne elementi validi in assoluto a circostanziare i caratteri psicologici dell'isola.
A parte il fatto che dei cento e più mila abitanti che s'addormentarono la sera del 27 dicembre 1908 non più di trentamila si svegliarono vivi la mattina dopo, bisogna considerare che ben presto vi si aggiunsero decine di migliaia di forestieri calati dal settentrione, chi per recare soccorso, chi per predare, chi per speculare sulla ricostruzione.
E codesto afflusso produsse, nel giro di pochi anni, una grande confusione di lingue che ancora dura.
Si formarono nuove famiglie miste e le giovani generazioni, arrivate a vent'anni, si trovarono a vivere in una città semicoloniale che aveva perduto i caratteri peculiari della sicilianità..."
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