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domenica 22 novembre 2015

LA DISPERANTE TARA DELLA CRISI IDRICA A LICATA

Nel 1966 un reportage di Giuseppe Fava e Mario Torrisi descrisse la penuria di acqua nella cittadina agrigentina, ancor oggi rifornita con un calendario di turnazione 


Un carro-botte per il trasporto e la vendita di acqua a Licata.
A questi mezzi arcaici è stata affidata per decenni
la sorte del rifornimento idrico nella cittadina agrigentina.
Le fotografie del post sono tratte dal saggio "Processo alla Sicilia"
del cronista siracusano Giuseppe Fava, edito nel 1967 da Editrice ITES.
Le immagini vennero scattate da Mario Torrisi


La sera dell'undici luglio del 1969 molti italiani scoprirono  la gravissima crisi idrica che da decenni affliggeva il comune agrigentino di Licata.
L'argomento fu infatti oggetto di un reportage televisivo intitolato "La grande sete". 
A trasmetterlo, quella straordinaria trasmissione d'inchiesta della RAI che fu TV7.
Le denunce sulla penuria d'acqua e sulle disastrose condizioni di vita di Licata avevano già trovato spazio nei dati dell'ISTAT diffusi nel 1951: l'indicazione illuminante sullo stato delle cose fu quella secondo cui il 42 per cento delle abitazioni licatesi era privo di allacciamento idrico e di servizi igienici. 
Due anni dopo - nel 1953 - l'analisi della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla miseria in Italia del ministro Vigorelli completò la descrizione di quella antica disperazione:

"A Licata - si legge nel documento - la situazione delle abitazioni è veramente penosa.
Circa 3.000 famiglie per un totale di 14.000 persone vivono in abitazioni di un solo vano, prive di servizi igienici.
Nella zona collinosa circa un migliaio di persone vivono nelle grotte, coabitando con gli animali. 
I braccianti agricoli, circa 3.000, hanno una paga di 600 lire al giorno, lavorano circa 5 mesi l'anno, ma in certe annate arrivano solo a 100 giorni.
Nei periodi in cui manca il lavoro in parecchie famiglie non si riesce a cucinare ogni giorno e si mangia il pane con cipolle, olive o sarde salate..."


Vita quotidiana di strada a Licata

La crisi idrica di Licata venne in seguito raccontata da Danilo Dolci; la sua denuncia - e quelle di alcuni inviati di giornali nazionali - non riuscirono a cambiare un'emergenza che ancora nel 1967 costringeva i licatesi a disporre di acqua corrente ogni 20 giorni.
All'epoca, il 40 per cento della popolazione soffriva di febbre tifoidea o di altre patologie favorite dalla scarsa igiene personale: epatite, tifo, salmonellosi, scabbia e tbc.
La "legge Mancini" finanziò allora con tre miliardi e mezzo di lire il rifacimento della rete idrica cittadina; la ditta agrigentina che completò l'opera tuttavia riuscì a far infiltrare le acque nere nelle nuove condutture, con il risultato di aggravare la condizionie dei 40.000 abitanti.
Con il passare dei decenni, la penuria idrica non cessò.
Nel 1974, Licata poteva disporre di 10 o 12 litri al secondo.
Quattro anni dopo, i carri-botte vendevano ancora l'acqua estratta dai pozzi privati al costo di 50 lire al litro.


Immagine di degrado urbano
nella cittadina agrigentina

Mentre nella case degli altri italiani lavatrici e lavastoviglie facevano da tempo parte della normale dotazione domestica, per molti licatesi la doccia con il sapone era allora un lusso da concedersi poche volte al mese.
Ancora oggi, la distribuzione di acqua a Licata è affidata alla turnazione giornaliera per zone urbane e periferiche. 
Il perenne razionamento è entrato ormai nelle abitudini di migliaia di cittadini; ma è certo che questa gestione emergenziale della risorsa idrica rappresenta per Licata ( e per molti altri comuni agrigentini e di altre province della Sicilia ) la cicatrice incancellabile di una secolare e disperante  condizione di depressione sociale. 
La storia attuale dell'isola è ancora condizionata da vecchie tare mai cancellate del tutto, alimentate dall'indifferenza e dall'interesse privato che da sempre specula a spese del bene collettivo.  
La vicenda dell'acqua negata a Licata - e di altre privazioni di servizi e strutture locali, come un porto pienamente agibilevenne raccontata con forza nel 1966 da un reportage di Giuseppe Fava pubblicato dal quotidiano catanese "La Sicilia" .

Un rimorchiatore
nel vecchio porto interrato di Licata

Quel resoconto - poi confluito nel saggio-inchiesta "Processo alla Sicilia", edito nel 1967 da Editrice ITES ed illustrato dalle fotografie di Mario Torrisi - - sarebbe stato imperniato sulle parole di un anonimo "intellettuale, un uomo alto, magro, tragico, con gli occhiali, la pelle scura e lucida", dotato di un "sarcasmo di indicibile tristezza" e di una collera covata per tanti anni dentro ed "aggrumata come una pietra":

"In una settimana l'acqua arriva soltanto un'ora.
L'acqua si vende per le stradi con le botti. Passa il carro con l'asino, e la botte sopra. trenta o cinquanta lire a brocca, secondo la capienza.
Il Comune ha fatto un contratto con l'Ente Acquedotti siciliani, una istituzione della Regione, perché provveda alla costruzione di due grandi serbatoi di acqua ed all'allacciamento della rete idrica in tutti i quartieri.
Ogni tanto fanno qualche lavoro di scavo e lasciano la strada sventrata.
Dovrebbero provvedere a rifornire la popolazione con le autobotti nei mesi di maggiore carenza, ma non lo hanno mai fatto.
La cosa buffa è che alle spalle di Licata tutte le montagne grondano acqua come fontane, ma manca l'acquedotto per portarla in città, non c'è nemmeno il progetto.
Qui non c'è niente...."



  

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