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lunedì 8 ottobre 2018

I CENTO MESTIERI DEI PESCATORI SICILIANI

Pescatori palermitani di Trabia.
La fotografia è tratta dall'opera
"Italia Nostra", volume IV,
Federico Motta Editore, 1965
Negli ultimi decenni lo sfruttamento delle risorse ittiche ha cambiato radicalmente le tecniche di pesca, lasciando meno spazio a quel patrimonio di conoscenze che ogni comunità marinara ha custodito da una generazione all'altra.
La tecnologia, se da un lato ha fornito ad armatori e pescatori maggiori possibilità di guadagno ( esasperando anche le forme di concorrenza ), dall'altro ha ridotto l'importanza di certe forme di conoscenze tradizionali della cultura marinara: l'andare per vela o la capacità di "leggere" i fondali e di individuarvi la presenza delle prede.


Oggi in Sicilia l'attività della pesca comincia così ad allontanarsi dalla prospettiva raccontata nel 2008 da Giuseppe Aiello ( "Ippocampo - Tecniche, strutture e ritualità della cultura del mare", Regione Siciliana, Dipartimento dei Beni Culturali ed Ambientali ):

"'Vaicca una e mistieri cientu'

era il detto che includeva le aspirazioni di ogni pescatore, un 'mistieri' per ogni periodo dell'anno, per essere pronti ad ogni stagione  a indirizzare le strategie verso le specie ittiche che con la loro abbondante comparsa ne rendessero remunerativa l'azione di pesca.



Il ruolo ed il prestigio che la comunità marinara assegnava all'individuo dipendeva dalle attrezzature ( 'arrobba ri mari' ), di cui spesso traboccavano i loro piccoli e angusti magazzini.
Attrezzi proporzionati e compatibili con l'imbarcazione posseduta e in ogni caso capaci di garantire l'esercizio della propria attività, stagione dopo stagione.
L'opera di un pescatore non conosceva mai sosta; il fermo cui le avverse condizioni meteorologiche sembravano obbligarlo, era sfruttato ora per le riparazioni ora per approntare nuovi strumenti.
La mano non conosceva sosta, sempre all'opera; anche nei rari momenti d'ozio è normale che un pescatore tiri fuori dalla tasca un'assicella di canna o di faggio e mentre chiacchiera con i compagni intagli un ago da rete con il coltello o lo rifinisca con una scheggia di vetro.
Fondamentale è sempre stata la disponibilità di una imbarcazione per ampliare i propri confini del campo d'azione e sviluppare e affinare sempre più proficue strategie di cattura.
Disponibilità che è sempre stata difficile per la cronica mancanza di capitali.
Furono le rimesse degli emigranti o i risparmi di lunghi anni di imbarco sui mercantili a consentire lo sviluppo delle piccole flotte pescherecce delle nostre marinerie.
A queste risorse spesso si sommavano i capitali di una piccola borghesia armatoriale investiti in barche e reti.
Affidato il comando a quelli che la comunità riconosceva come più abili, gli armatori riponevano in questi le loro speranze di guadagno.



Se per alcuni mestieri bastava una piccola imbarcazione, ben altri erano i mezzi che concorrevano all'azione di prelievo di pesce azzurro ( 'saiddi', 'anciovi' e 'alacci' ) con le menaidi ( 'tratti' ), o alla pesca con il tartarone ( 'taittaruni' ) e a quella a strascico con la paranza.
Questi sistemi richiedevano imbarcazioni di una certa dimensione, capaci di ospitare un equipaggio di almeno sei persone oltre le reti e le attrezzature.
La loro dimensione di norma oscillava tra i 26 e i 32 palmi anche se non erano affatto rare quelle che arrivavano a 44; queste ultime erano particolarmente impiegate in coppia per rimorchiare le paranze o per la pesca d'altura alle alalunghe..."






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