Dopo che il 15 gennaio del 1968 il terremoto squassò il Belìce, Gibellina perse completamente il suo volto di paese rurale diviso in sei quartieri ( Santa Caterina, Acqua Nuova, Pizzo di Corte, San Nicolò, Sant'Antonino e Zubbìa ) con due presenze architettoniche di riferimento storico: i ruderi del castello di età chiaramontana e la chiesa madre.
Al disastroso evento sismico, Gibellina ha risposto dando vita ad un nuovo agglomerato urbano, diventato laboratorio e museo a cielo aperto di arte contemporanea: un esempio di sperimentazione e creatività in verità rimasto isolato, mezzo secolo dopo, nel panorama dei ritardi e dei dissesti che segnano presente e futuro del territorio belicino.
Prima del terremoto, anche Gibellina univa in un rapporto strettissimo gli abitanti e le strade urbane.
"La strada - ha scritto Antonino Cusumano nel suggestivo saggio "La Strada Maestra, memoria di Gibellina", edito nel 2003 dal Comune di Gibellina e dalla Provincia Regionale di Trapani - non era che il prolungamento della casa, uno spazio frastagliato da scale esterne e soglie prospicienti, un'appendice pubblica dell'abitazione privata, uno slargo in cui si risiedeva, si lavorava, si intesseva la fitta rete delle relazioni..."
Il saggio di Cusumano è illustrato da decine di fotografie della Gibellina pre-terremoto.
Si tratta di immagini che testimoniano la fitta trama di relazioni interpersonali del paese negli anni Cinquanta e Sessanta: ritratti di persone e di oggetti capaci di rievocare voci, suoni e umori di un'intera comunità ignara dell'incombente disastro.
Tra le fotografie che illustrano una realtà per sempre perduta, quelle delle botteghe dei barbieri rivelano la funzione sociale di luoghi di incontro e discussione, rigorosamente maschili:
"Nella via Umberto erano concentrati i quattro bar del paese, la tabaccheria della signorina Lombardo, la prima per volume di affari e movimento di avventori, e soprattutto la gran parte dei saloni dei barbieri.
Era all'interno delle loro botteghe, pervase dai profumi di borotalco e di colonia, che davvero 'si faceva politica', si costituivano e si scioglievano le alleanze, si determinavano le sorti del governo comunale e dei candidati alle elezioni.
Luogo maschile per eccellenza, il salone era punto di aggregazione e di ritrovo di quanti volevano vendere o compare terre, animali, vi si svolgevano le intermediazioni o 'sensalie', si concludevano gli affari.
Stimato maestro di rasoio era, tra gli altri, Nicolò Bonura.
Da lui imparò il mestiere Giuseppe D'Aloisio, barbiere dall'età di dodici anni, tra i più popolari del paese tanto da potere vantare 480 clienti fissi.
La sua bottega era anche una rivendita di quotidiani e rotocalchi"
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