Il casolare nelle campagne di Cinisi luogo dell'omicidio di Peppino Impastato. Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia |
Per raggiungere il casolare abbandonato in contrada Feudo, arrivando da Cinisi, basta costeggiare la recinzione dell'aeroporto "Falcone e Borsellino", lungo la via che porta il nome di Paolo Borsellino: intitolazioni che evocano nomi di magistrati vittime del tritolo di Cosa Nostra, nella spaventosa estate palermitana del 1992.
La traversa giusta da imboccare spunta quasi improvvisa, tra la cortina di villette protette da alti muri e cani ululanti.
La targa toponomastica indica una data che non lascia spazio al dubbio, "via 9 maggio 1978": percorrendo fino in fondo lo stretto corridoio di asfalto - un tempo strada sterrata, piena di buche e pietre - dopo un cancello in ferro divelto, ecco il casolare.
L'edificio - un magazzino agricolo in conci di tufo, il tetto di vecchi coppi semisfondato - è ancor oggi circondato dalla vegetazione di tanti paesaggi siciliani: agavi, fichidindia, ulivi e qualche carrubo.
Accedendo da un'apertura, ci si imbatte nei malandati resti di un pavimento acciottolato e di una capiente mangiatoia per mucche.
Tutto potrebbe far pensare ad un luogo che testimonia semplicemente la vita quotidiana dei contadini e degli allevatori siciliani di qualche decennio fa.
All'interno di questo casolare - il cui ultimo proprietario noto è stato un farmacista di Cinisi - si è invece consumato uno dei più orribili atti di violenza della mafia in Sicilia.
Nella notte fra l'8 ed il 9 maggio del 1978, tre killer assoldati dal boss Gaetano Badalamenti vi massacrarono con inconsueta ferocia Peppino Impastato.
Dopo averlo costretto a seguirli, lo picchiarono forse a morte, lasciando traccia del loro crimine in numerose tracce di sangue, in seguito scoperte su alcune pietre dagli amici di Peppino.
Poi il corpo del militante di Democrazia Proletaria - da anni protagonista di un'opera di continua denuncia degli affari della mafia a Cinisi - venne collocato qualche decina di metri più lontano, al km 30+180 della linea ferrata Palermo-Trapani.
Gli vennero sistemati addosso ai vestiti almeno 5 chilogrammi di esplosivo ad elevato potere dirompente, comunemente utilizzato nelle cave di pietra della zona.
I resti di Peppino Impastato - che i carnefici di Badalamenti e i primi accertamenti dei Carabinieri vollero far passare per un terrorista-bombarolo - furono ritrovati in un'area di circa 2800 mq, alcuni dei quali sospesi sui fili dei pali della luce.
All'arrivo dei Carabinieri, l'orribile descrizione di quello scempio richiese la compilazione di 6 pagine di verbale: vennero refertati pezzi di pelle di torace, tre dita di una mano, i nervi di un braccio, parte della calotta cranica ed altri indefinibili brandelli di carne.
Ancora il 12 maggio - concluse le frettolose ricerche degli investigatori - gli amici di Impastato riuscirono a raccogliere in un sacchetto altri resti.
Anni più tardi, il pretore Giancarlo Trizzino avrebbe così descritto ai componenti della Commissione Parlamentare Antimafia l'orrore del delitto di Peppino Impastato:
"...Ricordo l'estrema complessità e difficoltà del sopralluogo, proprio perché - si legge in "9maggio1978-le verità negate" ( casa memoria impastato edizioni, 2015 ) - non vi era un cadavere da identificare, da sottoporre a ricognizione, ma solo brandelli sparsi - una scena veramente raccapricciante - oserei dire a centinaia di metri; sulle prime non si riuscì a reperire una parte consistente del corpo.
Ricordo ancora un altro particolare.
Mentre stavo ultimando il sopralluogo, proprio perché non c'era più nulla da fare, mi posi il seguente interrogativo: può il corpo di una persona ridursi in quel modo, senza la possibilità di trovare una parte più consistente?"
Ancora oggi le inchieste ed i processi sul massacro di Peppino Impastato non hanno individuato le responsabilità delle palesi omissioni nelle prime indagini compiute dai Carabinieri, sfociate in un depistaggio che ebbe lo scopo di proteggere il boss Gaetano Badalamenti, in seguito risultato essere un confidente dell'Arma.
Nella descrizione del rapporto fra Stato e mafia, sono frequenti locuzioni come "coperture eccellenti", "patto scellerato", "verità inconfessabili" o "menti raffinatissime": espressioni che rimandano in primo luogo alla storia degli omicidi e degli attentati costati la vita a molti uomini dello Stato.
Mai come nel caso di Peppino Impastato, il depistaggio delle indagini, oltre ad allontanare la piena verità sul delitto, ha tentato di recare ulteriore sfregio alla vittima: sconcertante strategia di chi, dopo averne consentito la devastazione fisica, ha cercato di stravolgere anche il significato della sua morte.
Una pagina del periodico "Cronaca Vera". Fonte: Casa Memoria Peppino e Felicia Impastato |
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