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lunedì 28 luglio 2025

LA BREVE EPOPEA DEL CORALLO AL LARGO DI SCIACCA

Barca di Sciacca.
Fotografia tratta da opera citata nel post


"Fra il 1875 ed il 1880 - si legge nell'opera "La Sicilia. Quindici anni di autonomia regionale", edita a Roma nel luglio del 1960 furono pescate 6.219 tonnellate di corallo per un valore complessivo di 44 milioni di lire. Parteciparono alla pesca 4.669 barche tra quelle di Sciacca e di altri compartimenti e 46.000 pescatori..."

Così V. Porrello Cassar descrisse la corsa al corallo che per cinque anni, sul finire dell'Ottocento, fra i mesi di febbraio ed ottobre, alimentò le attività economiche degli armatori di Sciacca e di altre flotte pescherecce siciliane e d'oltre Stretto ( Porto Empedocle, Trapani, Mazara del Vallo, Licata, Termini Imerese, Torre del Greco ed Alghero ).

Sembra che la scoperta casuale del primo e più esteso banco corallifero di Sciacca - nel maggio del 1875, 12 miglia al largo di Capo San Marco, su un fondale profondo fra i 148 ed i 200 metri - sia stata opera di tale Alberto Maniscalco.  In seguito, ricerche mirate portarono alla individuazione di altri due giacimenti - nell'agosto del 1878 e nel gennaio del 1880 - rispettivamente a 27 e 45 miglia da Sciacca

Si trattava di una varietà di corallo nero rimasto in profondità per lungo tempo, durante il quale il "Corallium rubrum"  assorbe maggiori quantità di sostanze organiche, la cui rimozione necessità di lavaggi con sostanze ossidanti.

"Parve a molti - ha scritto Salvatore Costanza in "Coralli talismani sacri e profani", Catalogo della mostra "L'arte del corallo in Sicilia" svoltasi a Trapani al Museo Regionale "Pepoli" nel 1986 ( Novecento, Palermo, 1986 ) - di potere impiegare nuovi capitali in un'impresa che prometteva immensi lucri; e di spingersi fino ad organizzare alcune compagnie armatoriali... Ora il pescatore non lavorava più per proprio conto, ma alle dipendenze degli armatori, che lo ingaggiavano per la campagna di pesca a salario fisso ( da 127 a 150 lire per l'intera campagna, e, se a giornata, con una lira e 70 centesimi, senza altro compenso in natura )..."

La questione dei compensi sfociò presto nel malcontento di molti pescatori trapanesi assoldati per la racconta del corallo. Nel 1880 minacciarono lo sciopero; ma ben altre circostanze incombevano sulle aspettative di trarre ingenti guadagni dall'estrazione degli arboscelli al largo della costa di Sciacca



"Ben presto - ha scritto ancora Costanza - si constatò la scarsa qualità del corallo pescato in quei banchi, che non era neppure compensato dalla sua eccezionale copiosità. Anzi, fu proprio l'abbondanza del grezzo immesso sul mercato a farne precipitare il prezzo, tanto che l'armamento delle barche coralline riuscì alla fine per gli armatori antieconomico..."

Nel 1887, i pescatori e gli armatori di corallo di Livorno sollecitarono provvedimenti per limitare la pesca del corallo a Sciacca; e nel 1891, quelli di Torre del Greco, forse spinti da alcuni speculatori finanziari di Genova, convinsero il ministero dell'Agricoltura e del Commercio a vietare del tutto l'attività di estrazione dai tre banchi siciliani. Il provvedimento venne revocato nel gennaio del 1892, quando la grande corsa al corallo di Sciacca - esauritasi  in meno di due decenni - poteva di fatto considerarsi conclusa.

sabato 19 luglio 2025

UN LEGAME STORICO E GENETICO FRA GLI ULIVI SICILIANI E QUELLI LIBANESI

Ulivi a Castelluzzo, nel trapanese.
Fotografie
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


La Sicilia è al centro di quel Mediterraneo che, come ha ricordato Giuseppe Barbera in "Sicilia. Alberi e paesaggi" ( Libri della Natura, 2024, Milano ), "secondo gli studiosi, è il mare degli uliveti".

Nell'Isola, scrive ancora Barbera, "la pianta è presto coltivata ( quella selvatica era da sempre presente tra i cespugli della macchia ) come testimoniano non tanto le pagine degli scrittori, i disegni sulle anfore, i resti archeologici, i documenti di archivio, ma loro, proprio loro, gli alberi..."



L'origine di una delle varietà di olive diffuse nella Sicilia della provincia di Trapani - la Nocellara del Belìce - testimonia la comune storia di questa coltura, la cui diffusione si deve alle migrazioni ed ai commerci che i diversi popoli, per millenni, hanno portato avanti nel Mediterraneo.



Studi genetici hanno infatti stabilito un legame fra la cultivar Nocellara del Belice e la Baladi, originaria del Libano ed ancor oggi molto diffusa nel Paese da cui i Fenici partirono fra il IX e l'VIII secolo avanti Cristo per colonizzare le coste della Sicilia occidentale.  

lunedì 14 luglio 2025

LA SICILIA DESERTICA DI LUIGI GIANOLI, IL GIORNALISTA CON LA VENA DI SCRITTORE

Il latifondo siciliano.
La fotografia è tratta dall'opera
di Ferdinando Milone
"Sicilia. La natura e l'uomo",
edita nel 1960 a Firenze da Bollati-Boringhieri


Esistono giornalisti capaci di esprimere un sicuro talento letterario, oltre le imprecisioni, i vizi di forma ed i limiti di documentazione che accompagnano il mestiere quotidiano di molti cronisti. Uno di questi giornalisti di talento del Novecento italiano è stato il brianzolo Luigi Gianoli, che nel secondo dopo guerra fu un'apprezzata firma della "Gazzetta dello Sport": "l'unico là dentro - ha scritto nel 2024 Franco Bonera in "Pezzi di colore", Ultra Editore, Roma - a potersi fregiare a buon diritto del titolo di scrittore". 

Ai colleghi più giovani, spiegava che "divertirsi mentre si scrive è il vero segreto per scrivere bene". Fu proprio l'applicazione di questo insegnamento che negli anni Ottanta gli valse il riconoscimento di un "Premio Sain Vincent" e di "Una penna per lo sport".

Gianoli - che fra i suoi estimatori ebbe Gianni Brera, Dino Buzzati, Mario Soldati e Gianni Mura - scrisse soprattutto di cavalli e di ippica: una vocazione giornalistica e saggistica legata alla qualifica di ufficiale del Reggimento di Cavalleria Savoia rivestita durante la campagna di Russia. Per la "Gazzetta dello Sport" pubblicò a suo nome anche articoli dedicati alla Targa Florio. Fu probabilmente in quelle occasioni che Gianoli ebbe modo di scoprire la Sicilia: Messina, Ganzirri, Aci Trezza, l'Etna, Agrigento, Cefalù Palermo, così come è testimoniato da un reportage pubblicato nel settembre del 1965 dalla rivista "Sicilia", edita dall'assessorato regionale al Turismo.



In quelle pagine, il giornalista monzese così descrisse l'Isola delle province più interne, riarsa dal sole e con un paesaggio che gli richiamò l'aspetto dei deserti:  

"E il paesaggio dell'interno? Onde d'un mare rappreso, quasi del colore della sabbia, senza un albero, sovente senza una casa, dove s'ergono improvvisi picchi montani, come immense conchiglie abbandonate dal diluvio. E si continua a camminare, ad andare, forse perché presentiamo che, una volta fermi in un luogo, non avremmo più la forza di ripartire..." 

 

venerdì 4 luglio 2025

LA COSTA PALERMITANA D'ORIENTE DI IGNAZIO CAMILLERI






 

GIOVANNI ARTIERI E L'IMPRESSIONE DEL TERMINE DI TRAPANI

Paesaggio di Trapani.
Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Giornalista e saggista napoletano, autore di migliaia di articoli e reportage per vari periodici ( "Il Mattino", "La Gazzetta del Mezzogiorno", "Il Tempo", "La Stampa" ), nel dicembre del 1961 Giovanni Artieri riferì sulla rivista "Sicilia" edita dall'assessorato regionale al Turismo le sue impressioni sul paesaggio di Trapani, "città nitidissima e con una nobile gelosia dell'antico":

"Appiattita su una lingua di terra, Trapani si scopre improvvisa. Saline, prati, alberate, riquadri di orti; il giro dei mulini a vento pone nell'immobilità stupita il palpito delle vele. Di fronte, la meraviglia delle Egadi, attruppate e impazienti di entrare in porto...



A Trapani s'avverte, infatti, il senso del termine. Orizzonti bassi e vaporanti, arie bianche e remote, pianure a riva di mare: segno della terra disposta ad estenuarsi e scomparire..."



QUANDO USTICA IMMAGINO' L'"UNIVERSITA' DEL COLORE"

Fotografie Publifoto,
opera citata nel post


Dal 19 al 24 settembre del 1972 Ustica accolse la quarta edizione del Concorso di pittura murale "Premio Città di Ustica".  L'evento coinvolse una settantina di artisti,  fra i quali Giovanni De Simone, Salvatore Fiume, Fausto Maria Liberatore, Goffredo Godi, Santo Marino, Alfredo Avitabile, Andrea Volo, Fleur Beverly, Renzo Biasion, Giorgio Celiberti, Pippo Gambino e Gaetano Lo MantoIl Concorso, seguendo la consuetudine delle precedenti edizioni, non proclamò alcun vincitore, confermandosi un momento di incontro semi vacanziero promosso dalla Pro Loco con un contorno di eventi gastronomici e di spettacolo.  

"L'organizzazione - scrisse Ugo Alvaro Bazan sulla rivista "Sicilia" pubblicata nel gennaio del 1973 dall'assessorato regionale al Turismo ( le fotografie che corredarono il reportage sono attribuite a Publifoto ) - ha voluto che questa manifestazione si svolgesse in piena armonia ed ha raggiunto il suo scopo. Tutti, al termine del Concorso, hanno avuto un piccolo omaggio e tutti sono stati apprezzati ed applauditi, in piazza, nel corso di una cerimonia conclusiva.



In nome della "non concorrenza" i cinque giorni del Concorso hanno, in quel periodo, trasformato l'isola. Artisti giovani ed anziani hanno letteralmente fatto da padroni sull'isola. Hanno rubato ad Ustica l'intreccio dei colori del suo mare, della sua natura, dei riflessi del sole o della luna sulle onde e mai furto ha avuto il sapore di tanta innocenza, di tanto amore, anche perché quanto rapito è stato subito restituito all'isola, con precisi tocchi di pennello e con un di più: uno spicchio di spirito, di cuore, indispensabile per cantare in chiave pittorica gli stati d'animo che Ustica riesce a profondere.

Lo hanno restituito realizzando affreschi sulle mura esterne delle casette usticensi che per la quarta volta si sono arricchite di un patrimonio artistico d'indiscusso valore..."



Il reportage di Ugo Alvaro Bazan riferisce che alcuni partecipanti all'evento aderenti al Sindacato Artisti ed Artigiani Artisti Italiani proposero allora di realizzare ad Ustica una "Università del Colore", che avrebbe dovuto avere sede all'interno della Torre di Santa Maria:

"Maestri del colore, artisti di fama internazionale, ogni anno, dall'estate all'autunno, a turno, terranno seminari a giovani pittori, scultori e ceramisti invitati in tutto il mondo..."

L'ambizioso progetto non vide la luce, ma ancor oggi Ustica continua a conservare tracce di quei lontani giorni di settembre in cui le case dell'isola divennero le tavolozze di decine di pittori.



giovedì 3 luglio 2025

ANTHONY BLUNT, L'EX SPIA DI MOSCA CHE SCOPRI' IL BAROCCO SICILIANO



"Se il progetto era audace, può sembrare addirittura impertinente che lo abbia condotto a termine uno che non è italiano, non diciamo poi siciliano. La mia scusante per averlo fatto è duplice. Prima di tutto, nessun siciliano se n'è presa la briga; in secondo luogo, per un volume del genere, il fatto di essere scritto da chi, per così dire, ne è fuori e può vedere l'architettura barocca siciliana nel quadro più vasto dell'architettura dei Sei e Settecento in Europa, può costituire un vantaggio. La mia speranza è che, in tal modo, il vero carattere e l'autentica originalità di quanto è stato prodotto nell'Isola appaiano più chiari..."  

Così lo storico dell'arte inglese Anthony Blunt spiegò nella premessa del saggio "Barocco siciliano" edito nel 1968 a Londra da Weidenfeld & Nicolson la decisione di occuparsi di quella stagione architettonica in una regione posta nel cuore del Mediterraneo. Partendo da Messina, Blunt - accompagnato dal fotografo Tim Benton, autore di pregevoli scatti - esaminò le diverse espressioni del barocco siciliano, includendo nel suo tour Catania, Siracusa, Noto, Ragusa, Modica e Palermo

Nella stessa premessa al saggio, il professore inglese spiegò di avere visitato la Sicilia già nel 1965, partecipando da docente ad una "Summer School" organizzata dai "coniugi Robertson"; e ringraziò per l'aiuto "gli amici dell'Università di Palermo" - indicati nei professori Vincenzo Ziino e Benedetto Colajanni - e lo storico Denis Mack-Smith, anche lui inglese, "che mi ha cortesemente concesso di leggere in manoscritto due capitoli della sua storia della Sicilia di prossima pubblicazione"

Anthony Blunt


Infine, Anthony Blunt, consulente della casa reale inglese per le opere d'arte dal 1952 al 1972 ed autore di altri studi dedicati all'Italia - dai disegni romani e veneziani al barocco ed al rococò napoletani - rivelò di avere scritto buona parte di "Barocco siciliano" sui tavolini di piazza Duomo, a Cefalù, e di altri bar di città dell'Isola.

Proprio la matrice straniera del saggio dedicato ad uno dei più rappresentativi stili architettonici siciliani alimentò diffidenze e commenti generalmente poco positivi da parte della critica italiana. Cesare Brandi - storico dell'arte molto legato alla Sicilia - sollevò riserve su alcune valutazioni espresse da Blunt riguardo le influenze subite dagli architetti operanti fra Noto e Palermo da altri architetti europei ed italiani. Lo stesso Brandi tuttavia auspicò che la pubblicazione inglese - edita in Italia da Il Polifilo Milano - "potesse rendere più attivo il restauro e più accorta la conservazione del patrimonio barocco siciliano". Merito di Blunt fu certamente quello di raccontare la storia di quella feconda e assai varia produzione architettonica, sino ad allora poco esplorata da altri studiosi e critici d'arte.   

Nel 1979, il professore inglese che anni prima aveva scritto un saggio sul barocco siciliano sorseggiando latte di mandorla, caffè e tè sui tavolini della piazza di Cefalù assunse un ruolo inaspettato e da romanzo giallo. Fu in quell'anno che la premier inglese Margaret Thatcher svelò alla Camera dei Comuni che Anthony Blunt sino al 1963 era stato un informatore al soldo del KGB sovietico: il "quarto uomo" di un gruppo di spie britanniche in contatto con Mosca sino al 1951 e composto anche da Guy Burgess, Donald MacLean e Kim Philby



A partire dagli anni Trenta, i quattro avevano fatto parte degli "Apostoli", una società segreta nata all'interno della Università di Cambridge con simpatie comuniste. Ancora la Thatcher rese noto che nel 1964, alla vigilia del suo primo viaggio in Sicilia, il professore Blunt aveva goduto dell'immunità dopo avere confessato l'attività spionistica a favore dell'Unione Sovietica. Quel "perdono" gli permise di non perdere la qualifica di professore universitario, con la rinuncia però a buon parte dei titoli ricevuti dalla casa reale inglese.

L'autore di "Barocco siciliano" morì in solitudine, nel marzo del 1983. Aveva 75 anni. Il fratello Wilfred ne scoprì il corpo su un pavimento nel suo appartamento di Londra. Sembra che il professore stesse consultando un elenco telefonico prima di fare colazione. Un medico attribuì quella morte improvvisa ad un infarto: una ricostruzione senza apparenti ombre, se non per l'opaco passato di Anthony Blunt, ex spia di Mosca che visitò la Sicilia per descriverne i virtuosismi del suo barocco. O forse l'intento non fu solo quello?  

La fotografia di Anthony Blunt è tratta dal Corriere della Sera del 27 marzo 1983.

La fotografia del prospetto della chiesa di S.Antonio a Buscemi è di Tim Benton, opera citata nel post


mercoledì 2 luglio 2025

LO SGUARDO DI COMISSO SU CALASCIBETTA

Il paese di Calascibetta, nell'ennese.
Fotografia attribuita a Pedone
tratta dal II volume dell'opera "Sicilia"
edita nel 1961 da Sansoni e dall'Istituto Geografico de Agostini


Nel corso dei suoi numerosi viaggi estivi in Sicilia - stagione in cui "nell'ora meridiana... è come respirare il fiato uscente dalle fauci di un leone" - Giovanni Comisso si addentrò sino ad Enna, il cuore dell'Isola

Lo scrittore e saggista veneto vi arrivò con ancora il sapore in bocca di un latte di mandorla bevuto a Piazza Armerina, capace di "rinfrescare e togliere ogni stanchezza".

All'alba, svegliato dal chiarore già energico del giorno, dalla balaustra di una piazza ennese, scoprì Calascibetta, con le sue case distese ad anfiteatro ai piedi del monte Xibet. Nell'apprendere il nome di quel paese, Comisso - cultore del mondo greco - ne spiegò erroneamente l'origine, riconducendola al greco "kalos" ed all'arabo "gebel", invece che al termine "qal'ah" ( "rocca, cittadella, fortezza costruita su un'altura" ) e al nome del monte Xibet

"Nella notte fitta di stelle le luci dei paesi elevati sulla cima dei monti - si legge in "Sicilia", edito nel 1953 a Ginevra da Pierre Cailler - emergevano come fosforescenti meduse sulle acque di un mare notturno. Il grande silenzio era rotto solo dal latrare dei cani a guardia dei casolari sparsi nella valle...

Già il primo albore definiva a oriente la piramide dell'Etna e per duri sentieri della valle incominciò lo scalpiccio degli zoccoli ferrati dei muli coi contadini in groppa assonnati. Uno scalpiccio che discendeva dai casolari invisibili verso il fondo della valle per andare oltre; nella stessa ora, altri contadini in groppa di altri muli discendevano dai villaggi o dai casolari sparsi, in tutta l'isola...



Alla prima brezza dell'alba le tortore presero a tubare sommesse e subito dopo gli usignoli martellarono l'aria e già rosseggiava l'aurora, sparite le ultime stelle...

Non mi era più possibile ritornare a dormire dopo che questo sole mi aveva del tutto risvegliato nello sguardo. Uscii sulla piazza deserta e ancora mi attrasse la balaustra che la limitava verso la valle. Oramai il canto degli usignoli aveva sommerso quello delle tortore e i colori ritornavano alla terra battuti dal sole nel suo ripreso vigore.

Anche un uomo della città si era risvegliato ed era venuto ad appoggiarsi alla balaustra, vicino a me. Osservano il paese al di là della valle stretto sulla cima del piccolo monte erto e roccioso, le case grigie nelle loro pietre sembravano cristallizzazioni del monte e senza riguardare l'uomo che mi stava vicino gli chiesi quale era il nome di quel paese che gli additai.



Intesi una voce fievole rispondermi cadenzando ogni sillaba:

"Calascibetta"

Indubbiamente quel nome risultava dalla fusione di due parole, una greca: "Calos", e l'altra araba: "Gebel", per significare: "bel monte". Queste due invasioni di popoli, tra le altre, più feconde, venute attraverso il Mediterraneo a questo fiore sospeso tra il mare e il cielo avevano frammisto il loro polline in quel nome che permaneva ancora..."