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lunedì 12 maggio 2014

L'EPOPEA POTASSICA DI SAN CATALDO

Un reportage del TCI firmato da Giuseppe Tarozzi e Carlo Anfosso illustrò nel 1962 le speranze poi sfiorite dello sviluppo dell'attività mineraria nel nisseno

Operai al lavoro nella miniera
di kainite di San Cataldo,
sfruttata dalla Montecatini a partire dal 1953.
Dalla lavorazione del minerale si ottenevano
fertilizzanti potassici per uso agricolo.
Le fotografie riproposte da ReportageSicilia
illustrarono un reportage pubblicato nel luglio del 1962
dalla rivista del TCI "Le Vie d'Italia"

Fu negli anni Cinquanta dello scorso secolo che un Piano Quinquennale del governo regionale consentì l'ingresso di grandi imprese nazionali nel settore dell'industria, a beneficio principalmente dell'ENI.
In un clima di pressioni politiche incrociate, nell'isola sbarcarono allora altri importanti gruppi italiani come Montecatini, Edison ed Italcementi; a loro favore, l'Istituto Regionale per il Finanziamento alle Imprese in Sicilia ( IRFIS ) concesse un totale di 21 miliardi e 910 milioni di lire, quasi la metà delle erogazioni stabilite a tutto il 31 dicembre del 1957.
In questo contesto alcune aree della Sicilia furono protagoniste di una "rivoluzione industriale" mirata in primo luogo a sfruttarne le risorse petrolifere e minerarie: un'attività a medio-lungo termine che nel giro di pochi decenni si sarebbe esaurita senza concedere duraturi benefici alle economie locali.
Fra gli esempi di questa politica di sviluppo vi fu la creazione di stabilimenti per l'estrazione della kainite e la produzione di fertilizzanti potassici fra San Cataldo e Campofranco, in provincia di Caltanissetta.


Sopra e sotto,
due aspetti degli impianti minerari di San Cataldo.
Nel 1962, la produzione di sali potassici
raggiunse il 73 per cento di quella complessiva in Italia



L'attività venne avviata dal Gruppo Montecatini dopo la scoperta dei giacimenti di kainite a San Cataldo nel 1953,  con un investimento di oltre 15 miliardi di lire.
Negli anni seguenti, gli impianti nisseni diventarono la principale fonte di produzione di sali potassici in Italia, con un picco di 785.000 tonnellate nel 1962, pari al 73 per cento dell'intero ricavato nazionale. 
Per questo motivo - oltre che per evidenti ragioni promozionali del Gruppo Montecatini - San Cataldo e Campofranco meritarono in quegli anni attenzioni giornalistiche e documentarie come quelle riproposte nel post da ReportageSicilia.
L'articolo in questione venne pubblicato dal mensile del TCI "Le Vie d'Italia" nel luglio del 1962, con il titolo "La Sicilia ha il potassio".

Sopra e sotto,
gli impianti di Campofranco,
utilizzati per la trasformazione della kainite in sali potassici.
Una teleferica poggiata su 150 piloni e lunga 18 chilometri
la collegava alla miniera di San Cataldo



Il giornalista milanese Giuseppe Tarozzi ed il fotografo Carlo Anfosso non elencarono soltanto i numeri e aspetti tecnici della frenetica attività di estrazione e lavorazione della kainite.
Il loro racconto fu ricco infatti di notazioni sociologiche e di costume su una zona della Sicilia che cinquant'anni fa, allora più di oggi, era ai margini delle attenzioni del Paese.
L'attacco di Tarozzi - cronista proveniente da una realtà milanese in piena ascesa da boom economico - - chiarisce subito l'approccio all'isola di quel periodo, ostile e disperante:
"Un'altra volta in Sicilia, un'altra volta questa terra che da subito, fin dal primo contatto, dà di sé una rappresentazione tragica, dura, violenta. Non foss'altro per i colori così accesi, netti, senza sfumature. Oppure per l'aspetto della gente del popolo, sempre chiuso e taciturno. O per i vestiti dei contadini, di panno nero, la coppola calata sulla fronte, l'aria distratta, svagata dietro ai propri pensieri. Un'altra volta la Sicilia, dunque. Alla ricerca dei cambiamenti, del progresso, del risveglio economico e industriale. E un'altra volta a contatto con la miseria più totale che ci sia in questa nostra dolente parte d'Italia...".


Un operaio in miniera,
ad una profondità di 500 metri.
All'epoca del reportage del TCI,
gli impianti davano lavoro ad oltre 600 persone

Il viaggio di Tarozzi verso le arse campagne nissene ricorda ancora le allora recenti pagine del paesaggio isolano del "Gattopardo":
"Fa caldo, la campagna è addormentata sotto il sole, il verde dei prati e degli alberi inclina a tinte smorzate. 'Ancora poche settimane di verde' dice chi ci accompagna, 'e poi tutto diventerà giallo, bruciato dal sole. Sarà come un'ossessione'. 
La macchina corre per una strada tutte curve e buche. Una strada stretta e smangiata agli orli, dove l'asfalto sparisce e lascia riaffiorare il vecchio fondo da 'trazzera', da strada borbonica. E così il traffico viene rallentato, l'economia dei vari centri ne soffre, i paesi rimangono troppo isolati fra di loro. E, tanto per fare un esempio diretto, tra Palermo e Caltanissetta, due città che distano appena centocinquanta chilometri, ci si deve impiegare più di tre ore.


Un gruppo di operai a San Cataldo.
Nella didascalia del reportage di Tarozzi e Anfosso si legge:
"Sono uomini soddisfatti, tranquilli, uomini con un futuro.
E forse è questo il significato più vero
e più profondo della miniera..."


E Caltanissetta continua a essere, anche per questo, un dimenticato, povero, squallido centro della provincia italiana.
Di fronte a noi il paesaggio si apre e si chiude come un ventaglio. A volte è una sfilata di dossi brulli, aspri scoscesi, tagliati a colpi secchi e lunghi; a volte un susseguirsi di teneri e ondulati prati che si muovono sotto il vento; a volte la strada si infila, come un lungo serpente, fra alte pareti di grigia pietra. 
In giro non si vede anima viva, i campi sono come abbandonati. Poi, ogni quindici o venti chilometri, si incontrano dei contadini, a gruppi di tre o quattro, generalmente su dei magrissimi muli, ma anche a piedi.
Oppure branchi di pecore, con un pastore e qualche bambino, o delle capre. Il traffico è assai ridotto, e così c'è un gran silenzio, solo questa campagna deserta, e poi ancora campagna. Anche i paesi sono distanti fra di loro. 
Non esiste, come al nord, la classica sequela di piccoli centri che, ogni cinque o dieci chilometri, costellano la campagna di case e tetti e campanili. Qui le distanze si fanno più grandi, e fra un paese e l'altro corrono almeno trenta o quaranta chilometri, e i centri sono grossi ( dai cinque ai ventimila abitanti ) e tutti miseri, con case fatte di tufo, o di pietra grigia, senza colori, coi tetti simili ai muri, con le persiane grige anch'esse e, quasi sempre, chiuse. E fiori sui davanzali non se ne vedono, e la piazza del paese non ha la classica fontana e non c'è il monumento ai caduti. Solo qualche grande palazzo barocco, ormai cadente, dove una volta ci venivano i ricchi, da Palermo, per la caccia, oppure a passarci quei trenta giorni di settembre...".


Due immagini di Campofranco.
"La scoperta della kainite, l'apertura dello stabilimento
per la lavorazione del minerale e per il ricavo del potassio -
si legge ancora nel reportage del TCI - hanno acceso la speranza
di queste popolazioni, hanno svegliato la fantasia,
hanno dato una spinta alla volontà"



In quell'immobile paesaggio siciliano, nella secolare arretratezza dei suoi costumi e della sua gente, Giuseppe Tarozzi individuò negli impianti della Montecatini il segno di una nascente modernizzazione.
"Vediamo come. Basta che un contadino, uno dei tanti contadini, alzi gli occhi al cielo e guardi la teleferica San Cataldo-Campofranco che trasporta la kainite dalla miniera allo stabilimento di produzione.
Questo è un simbolo, e molto chiaro, di quello che sta succedendo da queste parti. Tra San Cataldo e Campofranco ci sono trenta chilometri di strada, ma con la teleferica la distanza è di diciotto chilometri.
La teleferica che poggia su 150 piloni trasporta 2.800 tonnellate di kainite al giorno. Il carrello trasportatore fa tre metri al secondo. Un carrello porta 1.200 chili, e ognuno di questi carrelli parte distanziato di 28 secondi dall'altro.
Perciò a Campofranco arrivano ogni 28 secondi 1.200 chili di kainite, che vengono immessi immediatamente in lavorazione. Per compiere i suoi diciotto chilometri un carrello impiega un'ora e 40 minuti.
Questo vuol dire la teleferica; ecco cosa vuol dire la miniera di San Cataldo, dalla quale si estraggono dalle 3.300 alle 3.500 tonnellate di kainite al giorno.
Già 630 operai vi lavorano, e ogni operaio in media guadagna sulle 80 mila lire al mese, una cifra abbastanza buona per un posto dove la vita non è certamente molto cara, e dove la mensile del reddito si aggira - e non sembrerebbe neppure vero - sulle 15 mila lire pro capite.
L'amministrazione della miniera, così, immette ogni mese dai 60 ai 65 milioni fra paghe e stipendi agli operai e agli impiegati. E sessanta milioni sono tanti, tantissimi, per un mercato dei consumi che era fra i più bassi non solo d'Italia, ma della Sicilia...". 

Il reddito della miniera di San Cataldo - sottolinea ancora Tarozzi nel suo reportage - fece aumentare da uno a tre le banche e da una a sei le macellerie. 
Nelle aule delle due scuole elementari e di una media unificata però, "mancano i vetri alle finestre, il materiale didattico è assolutamente insufficiente, non c'è riscaldamento interno, tanto che è possibile vedere i piccoli alunni, d'inverno, recarsi a lezione con il loro scaldino di rame o di ferro e tutti infagottati nelle coperte e negli scialli; i servizi igienici sono in condizioni primordiali e assai poco 'igienici' per la frequente carenza d'acqua".
L'estrazione della kainite insomma di per sé non riusciva a garantire lo sviluppo di San Cataldo, dove le abitazioni non offrivano una vivibilità migliore rispetto a quella delle scuole e dove le attività agricole producevano scarse quantità di grano e fave.       
"Finito il nostro giro nella miniera - considerò infine Giuseppe Tarozzi -  siamo tornati a San Cataldo. Era come fare un tuffo nel passato. Quelle case, quelle strade del paese tutte rotte, sconnesse, quell'aria di depressione e di abbandono, stridevano a confronto di quanto avevamo appena visto.
La Montecatini, l'ENI, e tutte le altre industrie che sono venute qua a portare lavoro e fabbriche e concetti nuovi, non bastano.
Bisogna anche la Regione e lo Stato intervengano decisamente. Che si creino le infrastrutture, che si elimino gli sprechi, che si aiuti l'azione dei grandi complessi sveltendo le pratiche burocratiche, costruendo strade, alberghi, scuole, acquedotti. Che si inquadri il tutto in un'azione unitaria, organizzata, guidata.
L'iniziativa privata e quella pubblica non possono battere in Sicilia strade diverse...".
La visione lungimirante e pragmatica di Giuseppe Tarozzi sul futuro di quest'angolo di Sicilia, per vari motivi, non avrebbe trovato un compimento.
Dopo la fusione tra la Montecatini e la Edison - nel 1966 - le attività estrattive a San Cataldo furono oggetto di accordi con la Sali Potassici Trinacria e con l'Ente Minerario Siciliano.
Nel 1978, la Montedison abbandonò gli impianti e la loro proprietà passo di mano ancora sino al luglio del 1988 alla Ispea, l'Industria di Sali Potassici ed Affini di Palermo.
Da allora, le miniere e le gigantesche attrezzature per il loro sfruttamento vivono in stato di totale abbandono e degrado.
L'unica appendice ancora viva di quell'epopea industriale è rappresentata da un'inchiesta della magistratura nissena sulla presenza degli scarti di lavorazione nei pressi della miniera di Bosco Palo.
Entrato in servizio nel giugno del 1964, di questo giacimento rimangono quattro milioni di metri cubi di sali di potassio che al contatto con la luce solare e con i fulmini sono diventati radioattivi. 
Le operazioni di bonifica non sono mai state avviate.
Di una delle più grandi attività minerarie d'Europa, insomma, non sono rimasti che gli impianti corrosi dalla ruggine ed i danni ambientali provocati dalla pessima gestione degli scarti di lavorazione: la radicata incapacità siciliana di promuovere il proprio sviluppo, riproposta e ben visibile oggi nelle campagne tra San Cataldo, Serradifalco e Campofranco.


    

      
  
   

sabato 10 maggio 2014

FRANCESCO SCLAFANI, IL PUPARO GIROVAGO

Cinque fotografie di Alfredo Camisa testimoniano l'attività di uno dei più originali pupari palermitani ancora attivi sessant'anni fa

Francesco Sclafani durante uno spettacolo
della sua Compagnia dell'Opera dei Pupi Siciliani
a Panarea, nelle isole Eolie.
Le fotografie riproposte da ReportageSicilia
sono tratte dall'opera "Lo Stretto di Messina e le Eolie"
edita nel 1961 dall'Automobile Club d'Italia

Nel 1937 il nome di Francesco Sclafani venne inserito dall'etnologo messinese Giuseppe Cocchiara in una lista degli ultimi 12 "pupari" operanti a Palermo.
Il ricordo di Sclafani e della sua Compagnia dell'Opera di Pupi Siciliani viene restituito da cinque eccezionali fotografie scattate una ventina di anni dopo a Panarea, durante una delle tappe allora più remote degli spettacoli girovaghi della Compagnia.
Autore delle immagini riproposte da ReportageSicilia fu Alfredo Camisa, protagonista di un reportage di scatti siciliani che avrebbe trovato pubblicazione nel 1961 nel volume "Lo Stretto di Messina e le Eolie", edito dall'Automobile Club d'Italia.



La singolare storia del "puparo" Francesco Sclafani veniva così raccontata in quegli anni da Ettore Li Gotti nel saggio "Il Teatro dei Pupi", pubblicato da Sansoni nel 1957 ed in seguito ristampato da S.F.Flaccovio nel 1978:

"Francesco Sclafani, nato nel 1911, faceva da ragazzo come il padre, il merciaio ambulante; a sedici seguì i figli di Achille Greco in piazza S.Cosmo e dal 1928 aprì un teatrino per conto suo nel rione del Capo.
I suoi pupi sono per lo più costruiti dal migliore fra i costruttori di marionette armate di cinquant'anni fa, Nicolò Pirrotta.
Ma Sclafani non durò a lungo nel mestiere di "oprante" per il popolino e, ingegnoso com'è, dopo l'ultima guerra si diede, come egli dice con pittoresca espressione, "al turismo".
Dal 1947 ad oggi ha girato con i suoi pupi per quasi tutte le fiere e le mostre campionarie d'Italia, e nel 1952 a Firenze rappresentò anche nel Maggio Musicale la favola medievale "Aucassin et Nicolette" ( naturalmente limitandosi a muovere i pupi e a lasciare ad altri il compito di farli parlare in lingua francese ), traendone il vantaggio di averli rivestiti, i pupi, a nuovo con gusto modernissimo dalla ditta fiorentina Cerratelli.



Si fa aiutare da alcuni commessi, come i fratelli Villarà suoi nipoti, ma soprattutto da Nino Cacioppo, figlio di Giuseppe Cacioppo ( morto nel 1943 ) e fratello di Santo Cacioppo pupari.
Nino Cacioppo, quando non fa il puparo, dipinge pupi di cera per la ditta Amato nel vicolo degli Orfani al Capo.
Con tutto questo Francesco Sclafani non può dirsi sicuro di continuare l'"opra"; i suoi guadagni non gli bastano sufficientemente per vivere e tenere l'attrezzatura del suo teatro: bisogna trovare espedienti, e la fantasia dello Sclafani è molto fertile in proposito...".




Le didascalie che accompagnano le fotografie di Alfredo Camisa nell'opera "Lo Stretto di Messina e le Eolie" portano la firma del poeta barcellonese Bartolo Cattafi.
Nella loro stringatezza, i testi di Cattafi restituiscono l'atmosfera di partecipazione e di pathos trasmessa durante gli spettacoli dalla voce narrante di Sclafani ai pescatori ed ai contadini di Panarea:

"La Storia dei Paladini di Francia con i suoi eroi Rinaldo, Orlando, Gano di Maganza, Oggeri, Agolaccio, Bradamante, Astolfo, Oliviero, Carlo Magno, Balario e Malagigi ( negromante, discepolo del mago Merlino ), dalle rutilanti armature e facili ai duelli, costituisce una tradizione popolare siciliana che rinnova, a ogni spettacolo, in un pubblico quant'altri mai partecipe, entusiasmo, sdegno e commozione...".



"La storia dei Paladini si racconta a puntate, una al giorno, e culmina con la rotta di Roncisvalle, l'acme epico e tragico, più clamoroso, atteso e temuto, perchè tutti gli eroi vi muoiono.
Oltre al ciclo dei Paladini si rappresentano le storie di Guerin detto il Meschino, di Guelfo e di Alfeo re di Negroponte, di Ardente Spada, di Elena di Troia e del brigante Musolino".  



  
  

     

SICILIANDO














"Chi scelse di battezzare 'Caronte' uno dei traghetti che fanno la spola fra la sponda calabra e la sicula, avrà agito senza malizia, per uno sfoggio di memoria classica o, addirittura, per scaramanzia.
Certo è che, senza volere, ha finito col ricordare al turista che, non solo sta varcando le soglie di un Paradiso, ma anche di un luogo d'ombra e di pena. 
E' qui, al cimento di questa contraddizione, che la Sicilia vi aspetta"
Gesualdo Bufalino

mercoledì 7 maggio 2014

L'ESOTISMO ENCICLOPEDICO DI PALERMO

La descrizione della città ancora ricca di echi ottocenteschi dell'enciclopedia Pomba edita nel 1925 da UTET 

Una fotografia aerea di Palermo
nell'area del vecchio porto della Cala.
Le immagini del post riproposte da ReportageSicilia
sono tratte dalla voce "Palermo"
dell'enciclopedia Pomba pubblicata nel 1925
dall'Unione Tipografico-Editrice Torinese

"Città della Sicilia, capitale naturale dell'isola, capoluogo di provincia e di circondario, con 400.464 abitanti, superficie kmq. 4992,31 la provincia; kmq. 1406,46 il comune. L'importanza del golfo, sul quale si adagia, la sicurezza del porto, le valsero nell'antichità il nome ch'essa porta ( Pan=tutto, universale, Ormos=porto ); e Conca d'oro si chiama il litorale che tutta la cinge di magnifica corona d'aranci, banani, palme...".

Una classica veduta dell'attuale zona
del Foro Italico e del porto

Così nel 1925 il II volume dell'enciclopedia Pomba edita da UTET definiva una Palermo all'epoca ancora ammantata da un velo di esotismo ottocentesco.
Nella voce di questa enciclopedia destinata "alle famiglie", la città è illustrata sommariamente con un riepilogo dei suoi maggiori monumenti principali. 
"Capolavoro dell'arte siculo-normanna" è definita la Cattedrale ristrutturata alla fine del Settecento "con l'interno deturpato da pilastri e colonne moderne"; un "complesso stupendo di arte sicula" è definito la Cappella Palatina, mentre "tra gli edifici moderni emergono il teatro Massimo, opera colossale dell'architetto Basile, costata oltre 12 milioni di lire, il politeama Garibaldi, la chiesa di San Domenico, il Pantheon siciliano".

Altro monumento simbolo di Palermo:
la chiesa e le cupole di San Giovanni degli Eremiti.
Ancora agli inizi del secolo XX, gli edifici
di età normanna beneficiarono
delle attenzioni di studiosi e viaggiatori
grazie ad una intensa attività di restauri

L'enciclopedia Pomba dedica infine a Palermo parecchie righe al porto ed al suo traffico di merci. 
Il bacino portuale è "ampio e profondo, ben riparato: è, dopo Catania, il massimo centro di attività commerciale dell'isola con un movimento che prima della guerra si aggirava sulle 900 tonnellate di merci; viene però dopo Genova, Venezia, Napoli, Savona, Livorno, Ancona. Esporta agrumi, conserve alimentari, oli d'oliva, pesci salati, vino, zolfo e importa cereali, farina, crusca, buoi, carbon fossile, crine, sale, zucchero, coloniali e droghe, petrolio, spirito, ferro piombo, porcellana, marmi, calce e cemento, legame...".

Sopra e sotto,
lo scorcio di un fornice
lungo una strada dominata da una lunga palma
e una veduta di ispirazione ottecentesca
di Palermo dalle colline di Santa Maria di Gesù 



A corredo della voce dedicata al capoluogo isolano, gli autori dell'enciclopedia pubblicarono alcune fotografie senza attribuzione, alcune delle quali sono riproposte nel post da ReportageSicilia.
Interessanti sono l'immagine aerea che illustra l'area del vecchio porto della Cala e quella di una strada affiancata da una lunga palma che conduce verso un fornice. 
Di maniera appaiono invece le classiche vedute del lungomare dell'attuale Foro italico, delle cupole di San Giovanni degli Eremiti e della Conca d'oro da Santa Maria di Gesù.
La Palermo descritta con echi ottocenteschi dall'enciclopedia Pomba nel 1925 è ancora una città capace di svelare un'identità urbanistica e paesaggistica ingentilita dagli ultimi sussulti del "liberty".
Qualche decennio dopo - nel 1980 - Cesare De Seta avrebbe scritto nell'opera "Palermo", edita da Editori Laterza:
"Non è senza significato che la devastazione della città e del territorio di Palermo - oggi giunta ai massimi livelli - abbia avuto inizio proprio con l'eliminazione di quanto di buono la borghesia della Belle époque avesse prodotto.
Quanto è successo nella trasformazione urbanistica e architettonica di Palermo nell'ultimo mezzo secolo si misura a scadenza ravvicinata sul filo di alcuni avvenimenti che sarebbe errato considerare eccezionali, dal 'piccone risanatore' del fascismo, ai terribili bombardamenti del 1943, alle esplosioni intimidatorie con cui la mafia ha scandito i tempi del ricambio edilizio lungo la via Notarbartolo; ma soprattutto all'assoluta assenza di una politica di gestione quotidiana del patrimonio urbano ed edilizio.
L'assenza non casuale delle pubbliche autorità, gli intrecci di interessi tra speculazione edilizia e fenomeno mafioso sono tra le pagine più drammatiche e sanguinose della nostra storia recente...".
    



  

lunedì 5 maggio 2014

DISEGNI DI SICILIA



ISOLE LIPARI, da Enciclopedia Pomba, UTET, 1925


domenica 4 maggio 2014

PALERMO E CATANIA, IL PARADIGMA DI FAVA

Nel 1980 il giornalista siracusano teorizzò ne "I Siciliani" i contrapposti vizi delle due città, entrambe legate da un diverso destino di malcostume ed illegalità 

Un gruppo di suonatori di chitarra
ed un cantante a Catania:
una teatrale rappresentazione del carattere
popolare ed istrionico della città,
in contrapposizione a quello
riservato e malinconico di Palermo.
La fotografia è tratta
dal saggio di Giuseppe Fava "I Siciliani",
edito da Cappelli Editore nel 1980

"Catania è febbrile sfottente e allegra, e Palermo invece appagata, ironica e malinconica.
Catania è furiosamente laboriosa in tutte le sue attività esistenziali, quindi anche nel ladrocinio, nel furto, nella truffa, nel crimine, cioè produce denaro, e invece Palermo questo denaro tende a conglobarlo dagli altri anche nel delitto.
Catania è colei che corrompe, Palermo è che colei che si fa corrompere.
Catania corre per andare a vedere le cose, Palermo sta quieta in attesa che le cose passino dinnanzi. Catania è nera, Palermo è bianca. Catania è popolare, Palermo nobile.


Palermitani nello storico mercato della Vucciria.
La fotografia è di Enzo Sellerio
e venne pubblicata nel volume
"Libro di Palermo",
edito nel 1977 da S.F. Flaccovio

Infine, l'essenziale: Catania rifiuta il potere perché lo ritiene una sopraffazione e quindi ogni suo cittadino tende a trasformare, anzi ad accomodare la legge al suo interesse personale, mentre Palermo crede nel potere anzi nel suo diritto al potere.
Ecco perché i più grandi e geniali delinquenti catanesi sono stati soprattutto i falsari, ed a Palermo invece mafiosi. 
Il paradigma è evidente".
Il lucido teorema sulle differenza fra le due città siciliane in eterna contrapposizione di potere e di prestigio venne così descritto dal giornalista Giuseppe Fava nel saggio inchiesta "I Siciliani", edito da Cappelli Editore nel 1980.


Sopra e sotto,
immagini di Catania e Palermo
in due fotografie
di Josip Ciganovic.
Entrambi gli scatti furono pubblicati nel 1962
nell'opera "Sicilia", edita da Sansoni e
dall'Istituto Geografico De Agostini

Fava - siracusano di Palazzolo Acreide -  affrontò il dualismo fra Palermo e Catania sul piano a lui ben noto delle diverse anime politiche, affaristiche e criminali delle due città.
L'analisi - trent'anni dopo il suo omicidio ordinato dal clan Santapaola - mantiene ancora oggi un'amara attualità, a conferma della persistenza delle vecchissime tare che bloccano la crescita civile delle due più importanti realtà urbane e sociali dell'isola. 



"Resta da capire - scriverà ancora Giuseppe Fava ne "I Siciliani", senza fornire una risposta dietro cui si cela la voragine di una verità irraccontabile   - se è stata Palermo a fare lentamente una Sicilia a sua somiglianza, disposta cioè a lasciarsi governare con l'intrigo, il clientelismo, lo sperpero, l'arricchimento e la potenza dei pochi contrapposti alla sofferenza dei più, leggi a favore delle tribù e dei feudi, disprezzo per gli immensi problemi collettivi, oppure è stata la Sicilia con le sue infinite miserie anche mentali, il brulicare dei suoi individualismi, rancori, sordide avidità paesane, a costruirsi una capitale a sua immagine e necessità, capace perciò di tutte le corruzioni, violenze, congiure, complicità, assoluzioni". 




venerdì 2 maggio 2014

IL REMOTO RICHIAMO DI CAMARINA

L'ardua ricerca delle solitarie rovine dell'area archeologica ragusana dello scrittore francese Roger Peyrefitte

La solitaria costa ragusana di Camarina,
area archeologica che conserva poche testimonianze
della colonia siracusana del VI secolo.
Le fotografie riproposte nel post da ReportageSicilia
portano la firma di Leonard Von Matt e sono tratte dall'opera
"La Sicilia antica" di Luigi Pareti e Pietro Griffo,
edita nel 1959 da Stringa Editore Genova  

Fu un ricordo scolastico a spingere agli inizi degli anni Cinquanta dello scorso secolo lo scrittore francese Roger Peyrefitte sino alle remote rovine di Camarina.
L'autore di "Dal Vesuvio all'Etna" non aveva infatti dimenticato la rima del poeta André Chénier pronunciata spesso dal suo professore di francese: 
"Sì, è vissuta, o Mirto, la giovane tarantina! La portava una nave alle rive di Camarina".
Così, Peyrefitte si avventurò in Sicilia nella ricerca di ciò che rimane della colonia greca fondata da Siracusa nel VI secolo, perdendosi nel reticolo di strade rurali di quest'angolo di costa ragusana in seguito descritta da Gesualdo Bufalino ( "Gridano girasoli come zolfi dai celesti crepacci ove s'inclina il golfo sul tramonto e in una molle zattera salpa l'isola a un eliso d'oro e di rosse nuvole... Ma tu come ti fai colore dell'uliva al palpito di pioggia che ti sfoglia e t'apre, fiore di zagara ardente, come odori, mio bruno garofano, sotto i ciechi calcagni del vento", da "L'amaro miele", Einaudi, 1996 ).

In questa fotografia e nelle due che seguono,
alcuni degli esemplari di tetradrammi di Camarina.
Raffigurano Eracle con la testa coperta da scalpi leonini

"L'autista che avevo fissato a Gela - si legge nell'opera di Peyrefitte edita in Italia nel 1954 da "Leonardo da Vinci" Editrice - credeva di poterci arrivare senza sbagliare strada sebbene non ci fosse stato, ma invece andammo errando a lungo per vallate solitarie.
Un provvidenziale pastore ci mise sulla strada per la 'contrada di Cammarana', ma arrivati in cima a una collina, un incrocio di vie ci lasciò perplessi.
La solitudine era di nuovo completa e alcuni filari di alberi ci impedivano la vista. La macchina seguì a casaccio una strada difficile a percorrersi anche da un carretto, e quando, arrivati a una casa colonica, sapemmo che eravamo a 'Cammarana', ringraziammo il nostro fiuto.


La mia visita fu presto fatta. Nel cortile della casa colonica un mozzicone di colonna greca e un altare romano rappresentavano molto modestamente il 'puro santuario di Minerva', il quale dominava la spiaggia di Camarina, che è una continuazione di quella di Gela.
Non ci sono che ruderi sparsi qua e là a ricordare, all'intorno, l''alta foresta dei solidi edifici'...".


Qualche decennio dopo la visita di Peyrefitte - nel 1985 - la giornalista Maria Rosa Calderoni avrebbe così descritto l'isolamento della località e la bellezza delle sue testimonianze numismatiche:
"A Camarina, dove arrivi tra strade pressocchè solitarie, attraverso paesini immoti e dimenticati - vecchi in piazza, oscuri caffè, imprevedibili cattedrali, su un lato la barberia dell'insegna floreale e sull'altro una rosso-sbiadita 'Lega di Miglioramento' - una freccia gialla indica il Club Mediterranée, colosso delle vacanze da 2.000 posti; ma appena al di là dell'ultimo bungalow, le rovine di una intera città greca balzano all'improvviso, degradanti direttamente verso il mare.
E' l'antica Camarina, cara ad Eracle: qui le monete portavano incisa la figura possente del dio in pelle di leone, infaticabile domatore di draghi e giganti, montagne e fiumi...".
Le immagini di queste magnifiche monete - al pari di quella della solitaria costa su cui venne costruita e più volte distrutta l'antica colonia siracusana - sono di Leonard Von Matt e sono tratte dall'opera "La Sicilia antica" di Luigi Pareti e Pietro Griffo, edita nel 1959 da Stringa Editore Genova.