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martedì 16 settembre 2014

DISEGNI DI SICILIA


ANTONINO GRAMIGNANI, incisione di Palermo, 
primo trentennio secolo XVIII

lunedì 15 settembre 2014

ALTRI RICORDI DI SALAPARUTA


Ancora personaggi e scorci del paese del Belìce cancellati dal terremoto del 1968 negli scatti di Angelo Oliva e del volume "Salaparuta ieri e oggi"
 
Raccolta di acqua a Salaparuta, nel 1930.
La fotografia, al pari di altre riproposte nel post da ReportageSicilia,
sono tratte dal volume di Baldassare Graffagnino "Salaparuta ieri e oggi",
edito a Palermo nel 1969.
Il libro raccoglie notizie ed immagini del paese
distrutto dal terremoto del Belice, nel gennaio del 1968

"La popolazione di Salaparuta - ha scritto Baldassare Graffagnino nel 1968 - ha in prevalenza i seguenti caratteri fisici: statura media, colorito bruno, capelli ed occhi neri o castani.
Quelli psichici sono: intelligenza sveglia, tendenze conservatrici, e rigido ed affettuoso governo della famiglia per la conservazione ed il miglioramento della quale si compiono volentieri grandi sacrifici; la cultura è media, comune la disposizione e l'indurimento alla fatica, il salitano è incline al risparmio ed alla sobrietà, talvolta è sospettoso per ignoranza o diffidente per malizia, è educato e religioso, può essere superstizioso per atavismo, sempre scaltro.

Ancora dal libro di Graffagnino,
una fotografia-ricordo di un matrimonio
scattata sulla scalinata della Matrice

Il salitano è di carattere schietto, alieno da obliquità maligne e malversate tendenze. L'educazione è religiosa e patriottica.
Da molto tempo si sconosce il delitto sevizioso, la grassazione, l'abigeato e la rapina.
I reati più comuni e sempre più rari sono le ingiurie, il pascolo abusivo, il furto campestre.
Come manca l'animo perverso, così pure manca l'inclinazione a delinquere.

Salitani a passeggio in corso Di Giovanni,
e, sullo sfondo, il profilo di monte Porcello

Ne è riprova la natura dei reati e la tenera età dei rei.
Eccezionali i casi di vagabondaggio e di accattonaggio o le irregolarità matrimoniali.
Il senso dell'onestà è unito al rispetto per l'Autoritò e all'ossequio alle leggi.
Fa contrasto a quanto precede la poca sofferenza delle tasse, conseguenza, forse, dell'antico e generale disagio economico..."

Foto-cartolina di un gruppo di ricamatrici.
Da Graffagnino, opera citata


La raccolta delle olive, una delle colture locali.
Da Graffagnino, opera citata



Già in un precedente post, ReportageSicilia aveva riproposto alcune fotografie di Salaparuta scattate prima che il terremoto del gennaio del 1968 distruggesse completamente gli edifici del paese http://reportagesicilia.blogspot.it/2011/07/ricordo-stento-quel-terremoto-era-la.html.
Ecco ora una nuova raccolta di immagini, tratte ancora una volta dall'archivio privato di Angelo Oliva e dal volume di Graffagnino "Salaparuta ieri ed oggi", edito a Palermo nel 1968.
Sino a quella rovinosa domenica del 14 gennaio di quarantasei anni fa, Salaparuta  aveva conservato il volto di una tranquilla cittadina agricola del Belìce.

Alunni di classi elementari, all'interno del castello del paese.
Da Graffagnino, opera citata


Strada del paese, in una fotografia di Angelo Oliva


L'impianto urbano era dominato dalla rocca di un castello feudale che a partire dal 1956 sarebbe stato utilizzato come sede della scuola elementare. 
Altro monumento storico del paese era la scenografica e barocca chiesa madre, la cui gradinata, a partire dal 1931, fece da quinta alle fotografie ricordo dei matrimoni.
I 3.000 salitani vivevano in gran parte raccolti fra i piedi del castello e a Nord dello stradale Gibellina-Poggioreale, in cinque quartieri ben tagliati e divisi: Rabateddi, Atareddu, Lignuduci, Carrubba e Cappuccini.

L'arco del cortile Sacco.
Da Graffagnino, opera citata


Il mercato del pesce, proveniente
 dai porti di Sciacca e Mazara del Vallo.
Fotografia di Angelo Oliva



Nel periodo precedente alla distruzione, l'economia ed il paesaggio agricolo erano dominati dalle coltivazioni dell'ulivo e della vite, seguite da quelle del mandorlo e dei cereali.
L'allevamento del bestiame stava invece attraversando un periodo di crisi, ad eccezione di quello degli ovini.
Le scosse di terremoto - la più forte delle quali, del nono grado della scala Mercalli, si verificò alle 03.10'36" del 15 gennaio - rasero al suolo l'85 per cento del patrimonio edilizio del paese.
Il sisma ebbe effetti devastanti anche perché molte costruzioni erano state realizzate utilizzando pietre intagliate o rotte e con malta di calce o sabbia; pochissime erano le case costruite con l'utilizzo di cemento armato.  
Dopo la distruzione, studi geologici accertarono che il centro abitato giaceva su un terreno ricco di falde friabili: le sorti del paese, insomma, da un punto di vista sismico furono segnate dalle tipologie edilizie e dalla morfologia dei luoghi.
 

Uno scorcio del paese,
con scritta "W il comunismo".
Fotografia è di Angelo Oliva


Altra fotografia di corso Di Giovanni.
Da Graffagnino, opera citata


Ciò che rimase malamente in piedi - ad esempio, il cinema Aurora - venne infine distrutto dalla dinamite fatta esplodere dai genieri dell'Esercito. 
L'operazione fu decisa per evitare che improvvisi crolli potessero aggravare il bilancio di 19 vittime provocate dalle scosse, ma ebbe l'effetto di cancellare ogni residua traccia del vecchio paese.
Oggi l'attraversamento dei ruderi della vecchia Salaparuta - cancellata dalla storia e dalla geografia - lascia un'impressione di sgomento e di incredulità.
Sotto le macerie rimangono sepolti frammenti di oggetti di vita quotidiana mai recuperati: arredi, suppellettili, strumenti di uso domestico che testimoniano le vite spezzate dei morti e delle loro famiglie. 
Gli altri salitani sopravvissuti alle scosse, hanno invece ricominciato una seconda vita nelle case della "nuova Salaparuta", o lontano dal Belìce, ad ingrossare le fila degli emigranti siciliani. 
    


Veduta del paese, con la mole del castello e della Matrice.
Fotografia di Angelo Oliva


Una vista delle campagne di Salaparuta
dalle terrazze del castello.
Fotografia di Angelo Oliva

Le fotografie raccolte nel volume di Baldassare Graffagnino, parroco di Salaparuta nei devastanti giorni del terremoto e quelle "private" di Angelo Oliva, sono oggi testimonianza preziosa di un paese scomparso per sempre e delle persone che gli davano vita.

"Certamente Salaparuta sarà costruita altrove; forse lì nella baraccopoli, forse più lontano assai.
Ma occorrerà - scrisse Graffagninoche la generazione nata dopo il terremoto sia diventata adulta, perché la gente di Salaparuta dia ragione ai tecnici ed ai pianificatori, e riesca a guardare con distacco queste rovine ancora troppo vive, che ancora hanno un nome...".  


Il cortile del Collegio di Maria,
fondato nel 1752 ed utilizzato come scuola elementare sino al 1953.
La fotografia è di Angelo Oliva







Una panoramica del paese, datata 1935.
La fotografia è di Angelo Oliva





mercoledì 10 settembre 2014

COLORI DELLA PRIMAVERA A SANT'ELIA


Prima che il clima ed il lessico meteorologico venissero stravolti da termini apocalittici come "bomba d'acqua" o "bolla di calore", la primavera siciliana era semplicemente una stagione satura di colori e di profumi terrestri e marini. 
Il ricordo di quegli anni non troppo lontani è presente nella fotografia della borgata palermitana di Sant'Elia riproposta da ReportageSicilia.
L'immagine, attribuita a Pedone, venne pubblicata nel volume di Alfredo Panicucci "Le coste del Mediterraneo", edito nel 1976 da Arnoldo Mondadori Editore.
Con una scrittura che forse indulge nella caratterizzazione, scriveva allora Panicucci:

"Chi visita l'isola non può sottrarsi all'impressione che le potenze generatrici vi siano state insieme generose e crudeli.
Chilometri e chilometri di coste ora alte ora sabbiose, nelle quali le viti ed i fichidindia crescono tra le dune create dal vento africano, brevi pianure occupate da campi perennemente verdi dove fioriscono i limoni, e già in febbraio, i mandorli annunciano la primavera con il bianco profuso dei loro fiori; tutt'attorno, il mare azzurro intenso, ammaliante e limpido..."  

lunedì 8 settembre 2014

"LUPARA BIANCA" PER IL CONFIDENTE DEL CAPITANO

La scomparsa dimenticata di Vincenzo Guercio, gestore del Bar del Massimo nella Palermo del 1971, segnata da "delitti eccellenti" di mafia


Vincenzo Guercio, scomparso a Palermo
il 10 luglio del 1971 e vittima mafiosa della "lupara bianca".
L'uomo, gestore di un bar, venne ucciso
perché confidente del capitano dei Carabinieri Giuseppe Russo.
Questa e parte delle altre fotografie riproposte
nel post da ReportageSicilia
sono tratte dalla "Domenica del Corriere" del 27 luglio 1971

Nella tragica rappresentazione delle trame mafiose, la figura del confidente riassume l'ambiguità dei ruoli che ha spesso accompagnato la storia della lotta alla mafia da parte dello Stato.
Uomini la cui vita - per interessi professionali, per frequentazioni criminali o per vincoli indiretti di parentela o amicizia - si svolge ai margini dei clan, i confidenti costituiscono l'incrinatura nella corazza dell'omertà che protegge i retroscena di delitti o delle lunghe latitanze dei boss. 
La vicenda del confidente più famosa in Sicilia è senz'altro quella letteraria di Calogero Dibella detto 'Parrineddu', creata da Leonardo Sciascia nel romanzo "Il giorno della civetta" ( Einaudi 1961 ):

"Non fosse stato per la paura, il confidente si sarebbe ritenuto felice e, nell'anima e negli averi, galantuomo.
La paura gli stava dentro come un cane arrabbiato: guaiva, ansava, sbavava, improvvisamente urlava nel suo sonno; e mordeva, dentro mordeva, nel fegato nel cuore...
"Il confidente di S. rischiava la vita: una cosca o l'altra, con un colpo doppio a lupara o con una falciata di mitra ( anche nell'uso delle armi le due cosche facevano differenza ), un giorno lo avrebbe liquidato.
Ma tra mafia e carabinieri, le due parti su cui muoveva il suo azzardo, la morte poteva venirgli da una sola parte"

Nel romanzo sciasciano, "Parrineddu" non sarebbe appunto sfuggito alla vendetta mafiosa, puntualmente eseguita dopo un incontro fra il confidente ed il capitano Bellodi.  
Dieci anni dopo la pubblicazione de "Il giorno della civetta", la vicenda di Calogero Dibella avrebbe trovato una trasposizione nella realtà: a Palermo, le cosche fecero infatti scomparire ogni traccia di Vincenzo Guercio, informatore del capitano dei carabinieri Giuseppe Russo.


Giuseppe Russo, qui con i gradi tenente.
Profondo conoscitore della mafia palermitana e trapanese,
Russo venne ucciso a Ficuzza, nel corleonese,
la sera del 20 agosto del 1977.
L'immagine è tratta dal saggio "I siciliani"
di Giuseppe Fava, edito da Cappelli nel 1980

Guercio gestiva insieme al suocero un bar nel centro della città, il "Bar del Massimo", di fronte allo storico Teatro.
Il locale, aperto fino a tarda sera, non aveva fama di buone frequentazioni e sembra che l'attività non rendesse secondo le speranze del gestore. 
La mattina del 10 luglio del 1971Vincenzo Guercio - sposato e padre di tre figli - lasciò l'abitazione in corso Calatafimi e di lui non si seppe più nulla.
I Carabinieri trovarono la "Giulia" dell'uomo poco distante da casa, con i finestrini aperti e le chiavi inserite nel blocchetto di accensione: la circostanza fece subito intendere che il gestore del bar era stato rapito, forse sottoposto ad interrogatorio e poi ucciso con il sistema della "lupara bianca".
Corso Calatafimi era ed è ancor oggi una strada inserita nel territorio controllato dalla potente cosca di Porta Nuova; nessuno dei residenti fu in grado di fornire indicazioni su un rapimento avvenuto in pieno giorno, e certamente sotto gli occhi di qualche testimone.


Un omicidio di mafia nella Palermo degli anni Settanta.
La fotografia è tratta da "I siciliani", opera citata

Poche ore dopo la scomparsa di Guercio, fu la stessa moglie dell'uomo a svelare involontariamente il movente del delitto.
Parlando con alcuni cronisti ( e senza considerare l'importanza delle sue indicazioni ) la donna riferì loro che il marito era in buoni rapporti con il capitano Russo dei Carabinieri.
Le frequentazioni erano ricorrenti - aggiunse la donna - al punto che lo stesso Vincenzo Guercio forniva di dolci e rosticceria i rinfreschi organizzati all'interno del Comando dei Carabinieri presso cui Russo prestava servizio.


Mauro de Mauro, la cui scomparsa, nel settembre del 1970,
venne messa in relazione
con le confidenze che Vincenzo Guercio
avrebbe reso al capitano Russo
sul rapimento del giornalista

A queste informazioni, si aggiunse l'indiscrezione secondo cui il commerciante, poco tempo prima della sparizione, avesse fatto un viaggio a Milano; alcuni quotidiani misero in relazione la circostanza con la presenza in quella città del boss Gerlando Alberti e di altri mafiosi palermitani.
Forse Guercio si era recato in Lombardia per tentare di incontrare qualcuno di loro, magari per ricevere notizie da passare poi a Russo.
In ogni caso, queste notizie spiegavano il motivo dei controlli di documenti  che gli stessi Carabinieri  erano stati  soliti compiere all'esterno del "Bar del Massimo", prima del rapimento del gestore: un espediente per proteggere il principale confidente di un capitano impegnato in delicatissime inchieste antimafia.


Il procuratore capo a Palermo, Pietro Scaglione,
e l'allora colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa.
Scaglione venne ucciso a Palermo due mesi prima della scomparsa di Guercio.
Undici anni dopo, la mafia avrebbe eliminato anche dalla Chiesa,
tornato in città con la funzione di Prefetto.
La fotografia è ancora una volta tratta dal libro di Fava

Nell'estate del 1971, Palermo viveva una stagione di inarrestabile violenza mafiosa, fra delitti interni alle cosche e omicidi "eccellenti".
Il 5 maggio un gruppo di killer aveva ucciso in via dei Cipressi il procuratore Pietro Scaglione ed il suo autista Antonio Lorusso.
Ad aggiungere fibrillazione fra gli investigatori - 33 giorni prima della sparizione di Vincenzo Guercio - era stato il rapimento in strada di Giuseppe Vassallo, figlio di Francesco, "ras" dell'edilizia mafiosa a Palermo. 
Da dieci mesi Polizia e Carabinieri erano poi alle prese con il caso della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, destinato a diventare uno dei tanti "misteri d'Italia".  
La vicenda di Vincenzo Guercio, dopo le rivelazioni del suo ruolo di confidente dei Carabinieri, poteva essere messa in relazione con questi eventi?
La domanda alimentò a Palermo l'attività di numerosi cronisti locali e dei corrispondenti e degli inviati dei più importanti giornali.
Uno di questi fu Vittorio Lojacono, che sulle pagine della "Domenica del Corriere" del 27 luglio del 1971 scrisse:

"Vincenzo Guercio, adesso lo si può dire, era un 'cadavere che cammina'.
Al bancone del suo bar aveva visto molte cose, udito molte mezze frasi sulla Palermo mafiosa che la sera andava a prendersi lì una granita di caffè.
Qualcuno racconta oggi che a Vincenzo Guercio i Carabinieri non avevano dato molte scelte: o collaborare o su certe irregolarità non si sarebbero più chiusi gli occhi.
Il Guercio collaborò, questo è certo.
Su quale 'capitolo' dell'allucinante serie nera della criminalità palermitana non si sa ancora.
Rapimento De Mauro? Assassinio del procuratore Scaglione? Rapimento Vassallo? Su quale di queste vicende Vincenzo Guercio raccontò quanto sapeva?
I Carabinieri non lo dicono e forse non lo diranno mai, ma può essere che la 'collaborazione' si riferisse a quel rapporto sul caso De Mauro che i Carabinieri avevano consegnato al dottor Scaglione e che questi aveva in qualche modo bloccato prima di essere assassinato.
Il Guercio comunque 'collaborava': il che in certi ambienti significa che la sua vita era appesa ad un filo.
Qualcosa ha rotto questo filo e il Guercio è stato individuato come spia..."

La scomparsa del confidente spinse la Procura di Palermo a mettere a frutto le indicazioni da lui fornite prima di essere vittima della vendetta dei clan.


La retata milanese dei mafiosi palermitani
messa in atto dai Carabinieri 48 ore dopo la scomparsa
di Vincenzo Guercio.
Le tre fotografie che chiudono questo post
sono tratte dalla "Domenica del Corriere" già citata in apertura  



Il trasferimento in treno da Milano a Palermo
dei nove mafiosi arrestati nel capoluogo lombardo


Quarantott'ore dopo la sparizione di Guercio occorreva bruciare i tempi; prima di essere ucciso, i mafiosi lo avevano sicuramente costretto a rivelare le notizie fornite al capitano Russo.
Occorreva insomma evitare che la scoperta di quelle confidenze vanificasse mesi di investigazioni sugli affari mafiosi in Lombardia.
Così, la notte del 12 luglio fu avviata una retata di 32 fra boss e fiancheggiatori della mafia tra Milano, Napoli, Palermo e Roma.
Scrisse Lojacono:


"La mattina del 13 luglio, un aereo speciale con cinquanta carabinieri della legione di Palermo è così partito alla volta di Milano.
L'apparecchio, sceso a Linate, è stato parcheggiato sul lato opposto alla stazione passeggeri. Cinquanta uomini sono scesi, hanno preso il posto in varie Alfa.
Al volante di ognuna era un autista che conosceva Milano e dintorni.
Al fianco dell'autista hanno preso posto i brigadieri della legione di Palermo: ognuno aveva un indirizzo e conosceva l'uomo che doveva arrestare.
Nove persone sono state trovate. Esse sono: Carlo Fidanzati, Giovanni Scaglione, Francesco Magrì, Gioacchino Seidita e il figlio Andrea, Gerlando Alberti, Domenico Santoro, Salvatore Battaglia: tutti 'gregari', nessun nome grosso, ma tutto il gruppo si era da tempo, prudentemente, allontanato da Palermo, anche se Palermo rimaneva la sua zona di attività.

Un primo piano di uno dei boss arrestati a Milano


Nella stessa giornata altri tre arresti sono avvenuti a Roma. Su due dei catturati, Giuseppe Corso e suo figlio, non si sa molto.
L'unica cosa che si può dire è che abitano a Tor San Lorenzo, nei pressi di Anzio, proprio dove Frank Coppola, mafioso di fama internazionale, ha una fattoria modello.
Qualcosa di più si sa, invece, sul terzo 'elemento', Natale Rimi. Costui è figlio di Vincenzo e fratello di Filippo Rimi...
Alla fine della contemporanea azione a Milano, Napoli, Palermo, Roma e altrove, 32 sono i fermati dei carabinieri.
Che però non precisano quale sia la pagina di cronaca nera palermitana cui l'operazione potrà apporre la parola fine, anche se i nomi di Scaglione e De Mauro sono ricorrenti...".


Ancora oggi, gli omicidi del procuratore di Palermo e del giornalista de "l'Ora" rimangono senza una chiara individuazione dei moventi e dei responsabili.
Allo stesso modo, la scomparsa del confidente Vincenzo Guercio non ha colpevoli né l'indicazione certa sui motivi che la determinarono.
Molti anni dopo quel luglio del 1971, il "pentito" Gaspare Mutolo si sarebbe limitato a ricordare che "il gestore di un bar vicino al teatro Massimo venne ucciso perché era un confidente di Russo e gli aveva parlato del delitto De Mauro".
I conti con il capitano dei Carabinieri la mafia li avrebbe invece chiusi 6 anni dopo, quando Giuseppe Russo, diventato colonnello, si apprestava a lasciare l'Arma.
Su mandato di Salvatore Riina, quattro killer del clan corleonese lo uccisero a Ficuzza la sera del 20 agosto 1977 insieme all'amico professore Filippo Costa. 
Il suo confidente, Vincenzo Guercio, rimane così una delle tante vittime meno note uccise sul fronte palermitano della guerra fra Cosa Nostra e Stato: uno scontro dove la delazione è una delle possibili variabili fra le tante ambiguità - le connivenze politiche, quelle massoniche ed imprenditoriali, quelle dei "servizi" - da sempre presenti sulla scena siciliana.     







      


SICILIANDO















"Ora non si parla della Sicilia senza parlare di mafia; e mafia e Sicilia sono una stessa cosa.
La mafia è una piantagione indigena della Sicilia e del fiore funesto di essa porta decorato il petto ogni siciliano.
Come mai si è potuto creare attorno a questa povera isola una leggenda così sinistramente malevola?
Come mai sul capo di ogni onesto isolano si è potuta posare questa odiosa corona, le cui foglie sono delle spine e le spine pungono come aculei?
Fino a quarant'anni fa chi sognò mai che della Sicilia e dei siciliani si sarebbe potuto dir tanto?"
Giuseppe Pitrè, 1904

martedì 2 settembre 2014

LE "MERAVIGLIOSE ALGHE" DI TORRETTA GRANITOLA

Il mare ed il paesaggio africani della borgata trapanese in una pagina di Giovanni Comisso e in due fotografie di Rudolf Pestalozzi, tratte da "Sicilia" dell'editore Pierre Cailler

La borgata trapanese di Torretta Granitola
nelle immagini pubblicate
nel saggio "Sicilia" di Giovanni Comisso e Rudolf Pestalozzi,
edito nel 1953 a Ginevra da Pierre Cailler



Fu probabilmente subito  prima o subito dopo la visita alle rovine di Selinunte che lo scrittore Giovanni Comisso ed il fotografo Rudolf Pestalozzi si fermarono nella borgata marinara di Torretta Granitola, affacciata sul tratto di mare del canale di Sicilia più vicino a capo Bon.
Il post di ReportageSicilia testimonia quel passaggio, la cui traccia è documentata dalle due immagini pubblicate nel volume "Sicilia", edito nel 1953 a Ginevra da Pierre Cailler http://reportagesicilia.blogspot.it/2014/08/i-villaggi-siciliani-di-giovanni-comisso.html.
Torretta Granitola - località che deve il suo sviluppo all'impianto di una tonnara un tempo attivissima - è uno dei molti luoghi isolani non ancora del tutto espugnati dal turismo di massa; specie a settembre, offre la scoperta di un paesaggio siciliano che nei colori ricorda l'altra costa del Mediterraneo
  



"Il mare - scriveva Comisso mi attrae di più con le sue alghe meravigliose nutrite dal torpore perenne di quelle acque che all'altra sponda bagnavano la terra d'Africa.
Mi immersi subito tra quelle alghe che il muoversi placido delle acque dava loro la cadenza di foglio tremule ai rèfoli meridiani sulle campagne estive.
Protèsi le mani verso alcune verdi gelatinose, splendissime, altre della forma di conchiglie o di funghi d'albero, rosate e fiorenti in ciocche, altre ancora nere simile a liane, a code di cavallo, a capigliature sommerse, che si discioglievano lente.
Non osavo toccarle e strapparle dalle rocce a cui stavano avvinte sicuro che fuori dalle acque, dovesse svanire ogni splendore".





lunedì 1 settembre 2014

LE VIRTUOSISTICHE INFERRIATE DELLE CRINOLINE

Ornavano i balconi dei palazzi nobiliari, opera di abili artigiani dell'isola: le immagini delle inferriate a "petto d'oca" di palazzo Rudinì, a Palermo
  
I giochi di curve e riccioli delle inferriate
di palazzo Rudinì, esempio dell'arte dei mastri ferrai isolani del passato.
Le immagini del post sono tratte dall'opera
"Abitare a Palermo, due palazzi e la loro storia fra Cinquecento ed Ottocento",
edita nel 1983 da INA Assicurazioni e da Enciclopedia Italiana Treccani


L'arte del ferro battuto ha prodotto in Sicilia virtuosistici esempi di arte minore, spesso funzionali alla costruzione di edifici progettati lungo un arco temporale che è iniziato con l'età barocca e che ha avuto il suo epilogo in quella del liberty.
Un'espressione curiosa dell'estro creativo dei mastri ferrai isolani è quella delle ringhiere dette a "petto d'oca" che  - da Palermo a Catania, da Acireale a Noto - ornarono i balconi dei palazzi nobiliari fra XVIII e XIX secolo.
Le immagini di questi manufatti riproposte da ReportageSicilia sono tratte dal saggio fuori commercio "Abitare a Palermo, due palazzi e la loro storia fra Cinquecento ed Ottocento", edito nel 1983 da INA Assicurazioni e dall'Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani.


Le fotografie mostrano le ringhiere dei palazzi Rudinì, costruito sulla quinta scenografica del cantone di Santa Ninfa nel corso del secolo XVI e più volte ristrutturato, anche in periodi recenti. 
"Il motivo delle ringhiere che si ripete su tutti i balconi - scrive con funambolica chiarezza Marina Righetti Tosti-Croce - è costituito in profilo da un unico ferro a sezione piatta che, dal basso verso l'alto, dopo un ricciolo esterno, si ripiega per poi espandersi in un'ampia curva fortemente emergente, ripiegandosi nuovamente su se stessa e avviando infine il ricciolo terminale che si avvolge sul corrimano.


Il disegno di notevole eleganza è tipico dell'architettura palermitana ed è comunemente definito 'a petto d'oca'; il suo disegno, secondo Salvatore Caronia Roberti, sarebbe dovuto ad esigenze funzionali 'per consentire il comodo affacciarsi alle dame infagottate nelle ingombranti crinoline'.
Non sappiamo se questa sia stata veramente la ragione che suggerì questo profilo ai ferri battuti di molti palazzi palermitani, dal palazzo Valguarnera Gangi in piazza Croce dei Vespri a palazzo Mirto in via Lungarini, a palazzo Aragona e palazzo Naselli Flores, entrambi in via Garibaldi; ma il disegno è chiaro esito di una cultura barocca, caratterizzata da ricche e sontuose decorazioni, privilegianti lo snodarsi dialettico di forme curvilinee".


Questi esempi di arte del ferro sono sopravvissuti anche al saccheggio ed all'incendio dell'edificio nel settembre 1866, quando una rivolta popolare - fomentata da contadini ed ex appartenenti alle disciolte confraternite religiose - ebbe fra i suoi bersagli Antonio Starrabba, marchese di Rudinì e sindaco di Palermo.
In quei giorni tumultuosi, le donne del palazzo prudentemente non esibivano sui balconi le loro "ingombranti crinoline" ed oggi stentiamo anche ad immaginarne lo scomodo sporgersi dalle sinuose inferriate.