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giovedì 6 aprile 2017

IL VIAGGIO NEL TEMPO DELLE CAMPAGNE CORLEONESI

Il ricordo di una descrizione d'inizio Novecento nel paesaggio segnato dalla presenza di un casolare abbandonato nel feudo Tagliavia
Casolare nelle campagne corleonesi del feudo Tagliavia.
Le fotografie sono di ReportageSicilia
"E' la regione tipica del latifondo e del grano, la cui coltura alternata con le fave, la sulla ed il pascolo, copre immense estensioni di monti, valli e colline.
L'occhio spazia per chilometri e chilometri sull'ampia distesa dei campi e pascoli, privi d'alberi, che, una volta estirpati, difficilmente riattaccano per lo spaccarsi del terreno argilloso.
Rari sono i paesi e di un triste color grigio come l'argilla del suolo.
A grandi distanze nella campagna si incontrano i casamenti dei feudi come oasi in un deserto.
Silenzio profondo e solenne rotto soltanto dal trillo di qualche raro uccello o dal raglio lamentoso dell'asino e dalle grida dei lavoratori che incitano sé e le bestie al lavoro.
Passano lunghe file di muli recanti al mercato il grano trebbiato e la paglia; e li scortano i mulattieri o bordonari, e i campieri a cavallo col fucile traverso la sella"


Così Giovanni Lorenzoni, delegato per la Sicilia della Giunta parlamentare d'inchiesta nominata nel 1907 per studiare la condizione contadina del Sud d'Italia, descrisse la campagna siciliana della provincia di Palermo.
Oggi, i muli che trasportavano il grano sono da tempo scomparsi e pure i campieri a cavallo armati di fucile ( sostituiti da qualche pastore che vi osserverà con curiosa indifferenza).
Nella sostanza, però, il paesaggio rurale palermitano non è cambiato da come lo descrisse più di un secolo fa il Lorenzoni, protagonista di un viaggio a cavallo per pianure e colline lungo un percorso di 1400 chilometri.

Le suggestioni di quel tempo le forniscono ancor oggi masserie e casolari abbandonati, soprattutto nelle campagne di Corleone; l'edificio ritratto dalle fotografie domina il paesaggio del feudo Tagliavia, già frequentato da contadini e pastori in età islamica.
Pure gravato dalla triste fama imposta dalle cronache della vecchia mafia di Liggio, Provenzano e Riina, il paesaggio corleonese è fra i più suggestivi dell'Isola.


Così, per dirla ancora come l'economista trentino, "tutto questo gran contrasto a chi lo esamini percorrendo l'Isola bella e contemplandola dall'alto in una giornata di sole che tutta la ravvolge fra i tre mari, si fonde in un'armonia superiore: nell'armonia della terra siciliana ricca di storia e di gente..."
  



martedì 4 aprile 2017

DISEGNI DI SICILIA


NINO GARAJO, Stradina di Bagheria, 1949-1950

LA "MOSTRUOSA VICENDA" DEL DELITTO DI PASQUALE ALMERICO

Cronaca poco ricordata dell'omicidio politico e mafioso dell'ex sindaco di Camporeale, nel marzo di sessant'anni fa: un delitto ancor oggi senza colpevoli e senza memoria
Una fotografia di Pasquale Almerico,
l'ex sindaco di Camporale ucciso dalla mafia
il 25 marzo del 1957.
Le immagini del post
sono tratte dall'archivio di ReportageSicilia
Era il marzo del 1963 quando il giornalista Pietro Zullino ( autore anni dopo di una documentatissima "Guida ai misteri e piaceri di Palermo", edita da Sugarco ) definì il delitto di Pasquale Almerico come una "mostruosa vicenda, della quale le cronache si occuparono brevemente perché l'episodio sembrava simile a tanti altri".
Zullino colse allora la gravità di un omicidio oggi colpevolmente dimenticato e che può considerarsi come un delitto "politico-mafioso", ben prima di quelli palermitani costati in seguito la vita a Michele Reina, Piersanti Mattarella e Pio La Torre.
Pasquale Almerico, già maestro elementare e sindaco democristiano dimissionario di Camporeale ( in precedenza fu un attivista cattolico seguace di Giuseppe Dossetti ) fu ucciso il 25 marzo del 1957 da cinque sicari.
L'agguato, costato la vita ad un giovane passante, Antonio Pollari, dimostrò un feroce accanimento contro Almerico, raggiunto da 114 colpi di mitra e pistola all'addome.
Per la storiografia - e solo per quella, non per la giustizia - mandante dell'omicidio di Pasquale Almerico fu Vanni Sacco, all'epoca capomafia di Camporeale, "grande elettore" del partito liberale e già coinvolto nelle retate del prefetto Mori dopo il 1925.
"L'urto decisivo tra la mafia e il sindaco - scrisse Zullino il 31 marzo del 1963 sul settimanale "Epoca" - fu causato da motivi che esorbitavano dalla modestia cerchia degli interessi di Camporeale.
Si era creato, nel 1956, un fronte unico delle mafie agrarie dei paesi situati nel comprensorio dell'alto e medio fiume Belice, l'unico fiume della zona che d'estate non si asciughi del tutto.
Lo scopo di questo fronte, esteso da Castelvetrano fino ai sobborghi di Palermo, era semplice: controllare il consorzio agricolo del comprensorio e manovrarlo in modo da boicottare una serie di opere pubbliche da tempo in programma.
Quella specie di confederazione delle mafie agrarie era però intollerabilmente debole in un punto: Camporeale, dove Almerico conduceva la sua battaglia.
I gruppi mafiosi delle altre zone premevano sulla cosca di Camporeale perché l'incomodo sindaco fosse tolto di mezzo.
Si premeva da Corleone, poiché da quelle parti già la mafia lottava contro una diga che avrebbe portato l'acqua da tutt'altra parte.
Pasquale Almerico, invece, sosteneva che la diga andava fatta, perché trentamila contadini aspettavano di trovare sul posto il loro pane, invece di essere costretti all'emigrazione.
Si premeva persino da Palermo e dalla fascia costiera, cioè dal regno di un'altra mafia potentissima, quella dell'agrume, timorosa che da un piano di irrigazione venissero fuori, in concorrenza, ricchi agrumeti nell'entroterra"

Schieratosi contro interessi più forti del suo impegno politico, Pasquale Almerico subì allora l'offensiva sempre più pesante del clan di Vanni Sacco, interessato ad allearsi con la DC.

Vanni Sacco, indicato come il mandante del delitto di Almerico

Il boss - già elettore liberale di Vittorio Emanuele Orlando - dapprima cercò di atteggiarsi a paladino del cattolicesimo.
La scusa fu quantomeno sospetta: dopo una sparatoria notturna contro la canonica della parrocchia del paese, Sacco decise di donare alla chiesa una nuova campana.
L'iniziativa diede modo al capomafia di accreditarsi agli occhi dell'elettorato e dei notabili palermitani della Democrazia Cristiana, scalzando a suon di lupara il ruolo locale di Pasquale Almerico.
Poco prima, Almerico si era permesso di negarli l'iscrizione alla sezione locale della DC; Sacco era noto per il suo impegno politico liberale e per la sua fama di "campiere" assurto ai ranghi della "onorata società".
Nel 1952, in occasione delle elezioni amministrative, i liberali riuscirono comunque ad allearsi allo scudo crociato; Almerico fu eletto sindaco, ma dovette accettare l'ingresso in giunta di tre assessori liberali scelti da Sacco.
Dopo avere rifiutato le lusinghe e le minacce degli uomini al servizio del capomafia, venne deciso di mandare in crisi il potere del sindaco.
Il 26 novembre del 1954 fu dato voto contrario allo storno di una spesa di 100.000 lire sostenuta da Pasquale Almerico per partecipare, tre mesi prima, ai funerali romani di Alcide De Gasperi.
L'iniziativa era scorretta ed aveva scopi di natura affatto politica.
Il giorno dopo quell'attacco, Almerico si recò a Palermo per denunciare i fatti al comitato provinciale della DC, ma senza risultati.
Nel gennaio successivo, il sindaco di Camporeale compì un altro passo che gli sarebbe stato fatale: il rifiuto dell'alleanza con i liberali in occasione dell'elezione del Consiglio della Cassa Mutua Coltivatori Diretti, seguito dalla sconfitta di molti suoi candidati.
Ormai screditato a livello politico, Pasquale Almerico ritornò a Palermo, indicando ai maggiorenti della DC nel 9 marzo la data delle sue dimissioni.
In assenza di risposte, abbandonò l'incarico di sindaco, senza neppure avere una risposta dai suoi superiori.


Il travaglio personale di Almerico ed  il cinico  disinteresse mostrato dai vertici provinciali della DC furono documentati in un memoriale scritto dal maestro elementare nell'aprile del 1956, parte del quale riferito ad alcuni scambi verbali ed epistolari avuti col leader palermitano del partito, l'avvocato Giovanni Gioia.
Nel documento - ricorderà nel 1973 il giornalista Giorgio Frasca PolaraAlmerico ricostruì la scalata dei liberali di Vanni Sacco al comune di Camporeale, culminata in una crisi politica della sua giunta "fomentata da forze occulte però ben note in questa nostra terra".
Si chiedeva Almerico:

"Chi erano quelli che venivano ad imporre condizioni?
Il partito ne usciva avvantaggiato?
Avrebbe guadagnato nella considerazione e nei voti?
Si sarebbe l'elettorato mantenuto compatto?"

Alle preoccupazioni dell'insegnante elementare, Gioia avrebbe così replicato:

"Il Dottor Gioia mi rispose che questi problemi non dovevano interessarmi.
Ogni ammonimento era vano e l'intenzione era quella di dare la DC a forze che ne avrebbero sviato e trasformato gli scopi, con uno sconcertante tradimento degli interessi del partito e delle sue finalità". 
Dopo un lungo discorso sulla opportunità di taluni metodi politici in determinate contingenze, Gioia ebbe a dirmi chiaramente che desiderava che io lasciassi la sezione di Camporeale ed anche il paese, offrendomi l'incarico di segretario di zona.
Infine il dottore Gioia, a soluzione di tutta la bassa e meschina faccenda che sa del più lurido compromesso e della più cieca e ottusa visione delle cose" offrì ad Almerico l'assunzione alla Cassa di Risparmio.

Intenzionato a non cedere agli ultimatum ricevuti a Palermo, l'ex sindaco di Camporeale non esitò a presentare un ricorso contro il provvedimento impostogli da Giovanni Gioia, accusato di "abuso ed arbitrio, volontario tradimento e leso prestigio del partito".
La questione finì sul tavolo del collegio centrale dei probiviri della DC, a Roma.
Il 9 agosto del 1956, Almerico venne definitivamente politicamente e moralmente pugnalato: la competenza a valutare la sua denuncia venne assegnata alla segreteria provinciale di Palermo. Cioè, a Gioia.
Gli ultimi mesi di vita di Pasquale Almerico a Camporeale furono segnati dall'isolamento e, forse, dalla consapevolezza di essere destinato alla morte.
Questo timore lo portò a confidare ad un maresciallo dei Carabinieri i nomi dei suoi possibili assassini: Vanni Sacco, suo figlio, Benedetto e Calogero Misuraca.


Nel frattempo, come ha scritto ancora Pietro Zullino, nel dicembre del 1956,

"la mafia ordinò che in paese nessuno più rivolgesse la parola a Pasquale Almerico. Neanche un saluto, neppure un'occhiata.
Almerico si vide a poco a poco scansato da tutti.
Dissero: Almerico è contro le persone onorate perché è pazzo; è pazzo perché porta nel sangue, dalla nascita, qualcosa che fa diventare pazzi; l'hanno sentito bestemmiare, l'hanno visto smaniare e dare nel muro del municipio con la testa.
Ha una malattia vergognosa...
La mafia, allora, capì che stava vincendo la partita, che Almerico era ormai praticamente eliminato non soltanto dalla vita politica, ma addirittura dal consorzio degli uomini.
E volle divertirsi un po' con quell'uomo finito, con quel giocattolo umano.
Per quattro mesi, Pasquale Almerico visse in un pozzo di solitudine.
Nessuno gli rivolgeva più la parola: non aveva più niente da fare a Camporeale, non serviva più.
Vagava per le strade del paese con le mani in tasca o se ne stava in casa a leggere, in un'atmosfera d'incubo, in un silenzio di morte"

Poi, la sera del 25 marzo del 1957, la "mostruosa vicenda" di Pasquale Almerico ebbe il suo epilogo.
Anni dopo il feroce delitto, Vanni Sacco e altri furono accusato dell'omicidio.
Il processo si concluse con l'assoluzione di tutti gli imputati; ed ancora dopo sessant'anni, l'omicidio del maestro elementare che osò sbattere la porta in faccia ad un boss è rimasto senza colpevoli e quasi dimenticato nelle commemorazioni per le vittime di mafia. 
Sacco visse sino al 4 aprile del 1960, morendo nel suo letto con i conforti religiosi; i figli sarebbero stati in seguito uccisi da altri clan di Cosa Nostra.
Adesso, a tardiva memoria di questa storia, il Comune di Palermo ha annunciato l'intenzione di intestare una strada alla memoria dell'ex sindaco che si oppose alla mafia.




  

martedì 21 marzo 2017

ERICE "SEVERA E GLACIALE" DI FRANCINE PROSE

La ricchezza del mito e il severo aspetto della cittadina trapanese secondo la scrittrice americana in una pagina di "Odissea Siciliana"


Un solitario ed austero scorcio di Erice.
Le fotografie del post sono di ReportageSicilia


"Severa e glaciale", così ha definito Erice la scrittrice e saggista americana Francine Prose in "Sicilian Odyssey", edito nel 2003 dal National Geographic e tradotto l'anno successivo da Feltrinelli col titolo "Odissea Siciliana".
Il libro fu il risultato di un viaggio intrapreso dalla Prose e dal compagno Howie pochi mesi dopo il traumatico attacco alle Twin Towers di New York; e in Sicilia, la coppia americana arrivò con l'intenzione di seguire le mitologiche tracce di Dedalo, l'ideatore del labirinto atterrato nell'isola dopo avere assistito al tragico incidente che costò la vita al figlio Icaro
La Prose visitò Erice in un freddo sabato di febbraio, con un cielo insolitamente libero dalla nebbia e dalla foschia.



Nel fissare le sue impressioni sulla cittadina incastonata su monte San Giuliano, la scrittrice di Brooklyn non sfuggì ai richiami del mito che hanno accompagnato la storia di Erice, via via segnata dai culti di AstarteAfrodite e Venere
Ciò che colpisce la Rose è la contrapposizione fra le barocche trame mitologiche locali e la scabro aspetto dei luoghi, paragonati ad un "corpo perfettamente imbalsamato":
 
"La bellezza di Erice - e il fatto che conosciamo così poco della sua storia e delle sue origini - ha creato una sorta di vuoto che, per millenni, la gente ha riempito di miti e leggende, a mo' di offerte propiziatorie.
Qualcosa di così perfetto - di così ignoto e misterioso - deve certamente avere un'origine divina.



Scopriamo così che il tempio di Venere fu fondato da Enea, che approdò su questi lidi per celebrare il funerale del padre, da lui salvato dall'assalto alla città di Troia.
A causa di un incendio che aveva distrutto parte della sua flotta, egli fu costretto a lasciare a terra molti uomini, che divennero i primi abitanti della città.
Si dice che anche Dedalo abbia partecipato alla progettazione del tempio di Venere, ed è qui che disegnò, in onore della dea, un favo completamente d'oro.
Sempre secondo la leggenda, la dea stessa venne a vivere qui con il suo amante, l'argonauta Buto, che ella aveva salvato dai flutti dopo che le sirene, con il loro canto ammaliatore, lo avevano incitato a gettarsi in mare.
Anche Ercole passò da queste parti mentre riportava i buoi di Gerione, e durante il suo soggiorno uccise il re degli elimi che cercò di rubarglieli.
Queste storie, tuttavia, sembrano troppo piene di vita, d'ingenuità e di sensualità per avere a che fare con Erice.



Perché la cosa più strana di questo luogo incantevole è l'atmosfera d'immobilità e d'immutabilità che vi si respira, il modo in cui si è conservata, come un corpo magnificamente imbalsamato, per mezzo di una formula magica di altitudine, vento, nebbia e pioggia.
All'improvviso mi viene in mente cosa mi ricorda Erice: Les Baux-de-Provence, lo stupendo paesino medievale che si erge su una collina del Sud della Francia e che domina il paese moderno giù a valle.
C'è la stessa sensazione di osservare qualcosa che non muterà mai, che non sarà toccato dalle forze che plasmano e trasformano tutto ciò che è vivo, cioè dalla vita stessa.
Dopo aver vagato per le stradine di Erice, tornando a Trapani ci si sente un po' come Persefone, come se ci fosse stato consentito d'entrare nel regno dei morti per poi uscirne e ritornare al frastuono, alla confusione e al vigore del mondo dei vivi"




martedì 14 marzo 2017

LA RAGAZZA IN BARCA E L'ESTATE MONDELLIANA DEL 1957



Le due fotografie riproposte da ReportageSicilia ritraggono una giovane donna in posa a bordo di gozzo nel mare di Mondello e di capo Gallo.
Le immagini furono utilizzate nel giugno 1957 dall'Ente Provinciale per il Turismo per pubblicizzare le "Manifestazioni dell'Estate Mondelliana a Mondello Lido", organizzate a beneficio di palermitani e turisti.
L'elenco comprendeva, oltre alle ordinarie regate veliche ed alle gare di canottaggio, l'immancabile Torneo di Canasta ( all'epoca non ancora soppiantato da più altezzoso burraco ) quello  Internazionale di Pallavolo ( non erano ancora i tempi del beach-volley ) e le Gare di caccia subacquea ( oggi bandite dalle leggi e soprattutto dalla penuria di pesce ).
A diletto dei vacanzieri mondelliani si aggiungevano nel programma un oggi enigmatico "Raduno Energol", un Concorso regionale per cantanti "La Capannina d'Oro" ( quasi un plagio  del nome dello storico locale di Forte dei Marmi ) e una Rassegna nazionale per complessi di musica da ballo; a chiudere la stagione 1957, un Gala di presentazione della moda italiana autunno-inverno.




Cinquant'anni dopo quegli eventi, Mondello sembra avere perso la voglia di offrire un'alternativa alla semplice offerta di un bagno; mentre rimane immutabile il paesaggio estivo delle "capanne" in spiaggia - le stesse, da decenni, ed ogni anno con uno strato in più di vernice - a ricordare una certa immutabilità dello spirito d'iniziativa a Palermo.      




     

venerdì 10 marzo 2017

MEMORIE ISLAMICHE DELL'AGHADIR DI PIZZO MONACO

Storia ed immagini del granaio fortificato trapanese di età araba scoperto nel 1982 e oggetto di recenti campagne archeologiche


Resti di una cella del granaio collettivo di epoca araba
sulle pendici trapanesi di pizzo Monaco.
Le fotografie sono di ReportageSicilia

La base di partenza è Balata di Baida, frazione di Castellammare del Golfo.
Da qui, una strada stretta e sinuosa conduce sino al borgo di Visicàri: una doppia fila di case rurali in pietra abitate un tempo da gruppi di "hippies" ed ancor oggi con vista superba sul mare trapanese.
Alle spalle, incombe la pietrosa collina di pizzo Monaco.
E' qui che, nel 1982, per la prima volta furono notati alcuni filari di pietre nascosti dalla vegetazione spinosa.
La notizia rimase ristretta fra un gruppo di ricercatori locali; colpì allora il fatto che nessun pastore o contadino - spesso custodi di preziose informazioni per gli archeologi - fosse a conoscenza dell'esistenza di quegli antichi resti.
Quelle testimonianze di edilizia rurale sarebbero state così nuovamente dimenticate sino al 2012, quando fu avviata la prima di quattro campagne di studio e di scavo.



La ricerca archeologica e gli studi chimici e biochimici - coordinati dalla Sovraintendenza di Trapani e realizzati dalle Università di Granada, Cordoba, Sheffield, Palermo e Padova - hanno portato alla conclusione che quelle pietre sono i resti di un "aghadir": un granaio collettivo fortificato costruito in Sicilia nei decenni dell'occupazione islamica ( X-XI secolo ).
Un millennio fa, quindi, quest'opera edilizia venne costruita come deposito di derrate alimentari, semi ed altri oggetti di uso domestico ed agricolo; la scoperta di una simile struttura - che ha svelato la presenza di una cinquantina di celle rettangolari e quadrate e abbondanti resti di tegole - presuppone la coeva esistenza di uno o più vicini casali fortificati di età islamica.



I rilievi condotti su questo straordinario pezzo di architettura rurale araba in Sicilia hanno permesso di ricostruire frammenti di storia relativi all'"aghadir" di pizzo Monaco.
Il più importante, è quello di un incendio che devastò il deposito, le cui tracce sono ancora evidenti su alcune pietre delle celle.
L'assenza di altri reperti carbonizzati fa ipotizzare che al momento del rogo gli ambienti fossero stati svuotati, e che le fiamme siano state appiccate per mettere fuori uso una struttura di tipo militare non più funzionale alle esigenze dell'epoca.




Ancor oggi, una passeggiata fra i filari di pietre dell'"aghadir" trapanese riserva la scoperta di cocci di ceramiche e delle tegole che lo coprivano.
Camminando fra le rocce, si scoprono altri indizi sull'architettura di questi edifici: il basamento di una piccola torre, una strada di accesso al deposito, gli ambienti di quella che forse fu la stanza occupata da uno o più guardiani.
Da questi resti, lo sguardo spazia verso la costa di Scopello e di Castellammare del Golfo ed in direzione di buona parte della provincia più occidentale di Trapani.
E' allora inevitabile guardare questo paesaggio immaginando il rapporto fra l'"aghadir" e la vita quotidiana delle comunità islamiche che se ne servirono; ed è quindi naturale riflettere sul fatto che in quest'angolo della provincia di Trapani possano esistere altri resti archeologici di età araba.



Alcuni sono stati individuati in passato in una zona collinare di Segesta: tracce di una cittadella fortificata abitata almeno fino ai primi anni dell'epoca sveva.
Più recenti sono invece gli studi su un complesso sistema di irrigazione agricola nel territorio di Calatafimi: i risultati di queste ricerche confermano sin d'ora il dato di una radicata attività agricola portata avanti dalle comunità islamiche trapanesi fra l'XI ed il XIII secolo.

  
  

lunedì 6 marzo 2017

LA FINZIONE E L'ISPIRAZIONE SICILIANA DI "MISTER VOLARE"

Memoria del rapporto artistico e dell'impegno politico di Domenico Modugno nell'Isola 



Nel gennaio del 1960 Domenico Modugno si esibì al Festival di Sanremo in coppia con Teddy Reno.
Già vincitore per due volte in Liguria, Modugno sembrava destinato a ripetere il successo; la sua canzone "Libero" fu però costretta a cedere la vittoria a Tony Dallara e Renato Rascel, in gara con "Romantica".
Pochi giorni dopo, la delusione per la sconfitta non impedì a Modugno di abbandonare nuovamente Roma per una serie di concerti in varie città della penisola.
Così, "Mister Volare" si ritrovò a Palermo, posando per una fotografia pubblicata  dalla rivista "Siciliamondo" nel secondo numero del 1960.
L'immagine - commentata dalla sarcastica didascalia "Modugno, in piazza Municipio, esegue la sua serenata al cane" - ritrae l'artista pugliese mentre imbraccia la chitarra all'interno della fontana di piazza Pretoria, dinanzi la statua di Trittolemo con il suo lupo: la censura dell'epoca provvide a coprirne le nudità mitologiche con una foglia di fico.

Prima e dopo quella fotografia, Domenico Modugno ebbe con la Sicilia un rapporto sostanziale, legato al suo ruolo di artista e di politico, il primo non meno impegnativo del secondo; ed in un'isola siciliana - Lampedusa - l'artista pugliese trascorse buona parte degli ultimi 16 anni di vita.
Qui morì nel 1994 nella sua casa con vista sulla spiaggia vicina all'isolotto dei Conigli, dopo un'assurda lite verbale con un ragazzo seguita alla liberazione in mare di una tartaruga. 
Per quarant'anni, Modugno ebbe una frequentazione così stretta con la Sicilia da essere scambiato da molti italiani per un siciliano.




Nell'Isola imparò i racconti degli ultimi cantastorie e pupari e ad ascoltare le storie e le leggende dei pescatori: un mondo ricco di epica e di tragedia, presto diventato parte del suo bagaglio artistico. 
Lo stesso Modugno spiegava che il fraintendimento sulle origini era insieme frutto del caso e di una precisa volontà, nata nel 1954 con la scrittura del testo della canzone "U pisci spada": la pietosa storia del suicidio di un pesce spada maschio dopo la cattura della sua compagna femmina da parte di pescatori messinesi.
"Il dialetto salentino - ammetteva - ha qualche somiglianza con il siciliano, e all'inizio della mia carriera in tanti mi dicevano che fingermi siciliano mi avrebbe reso più interessante al pubblico.
Così, mi sono impratichito nel dialetto e negli atteggiamenti, salutando il pubblico con la frase 'baciamo le mani'".
Coltivando la simulazione - la stessa adottata nel 1958 dal sardo Tiberio Murgia, il "Ferribotte" siciliano de "I soliti ignoti" - Modugno finì con l'interpretare ruoli da protagonista in numerosi sceneggiati e spettacoli teatrali ambientati in Sicilia: "Il marchese di Roccaverdina", "Don Giovanni in Sicilia", "Liolà", "Western di cose nostre" ( tratto da un racconto di Sciascia e sceneggiato nel 1983 da un certo Andrea Camilleri ) e "Rinaldo in Campo".
In quest'ultima commedia musicale firmata nel 1961 da Garinei e Giovannini, Domenico Modugno volle assegnare la parte di due briganti a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.



Nell'ultima parte della sua vita, non meno intensa fu la partecipazione di Modugno alla vita politica di Agrigento Catania, nella veste di consigliere comunale.
Dell'artista pugliese che si finse siciliano rimane il ricordo, oltre che delle canzoni e dei ruoli da attore, anche la battaglia per porre fine alle sofferenze di 300 degenti dell'ospedale psichiatrico di Agrigento, sottoposti a trattamenti disumani.
"Una delle mie più grandi soddisfazioni - raccontava Modugno a chi lo incontrava nella sua casa di Lampedusa - è stata quella di aver tirato fuori quelle persone dal loro inferno e di averle portate per un paio di ore in un teatro, facendole cantare e ballare".