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venerdì 6 febbraio 2015

LA PRIMA TARGA FLORIO E IL TAGLIO DEL GRANO DI BONFORNELLO

Un racconto di Beppe Fazio pubblicato su "Civiltà delle Macchine" nel maggio del 1956 ricorda nomi ed aneddoti della prima edizione della gara, vecchia allora di cinquant'anni


Cambio di una ruota di un partecipante
ad una delle prime edizioni della Targa Florio.
L'opera venne realizzata dall'artista romano Duilio Cambellotti.
Le immagini e le fotografie riproposte da ReportageSicilia
furono pubblicate dal bimestrale "Civiltà delle Macchine" nel 1956,
in occasione del cinquantenario dell'evento sportivo siciliano.
ReportageSicilia ripropone anche un ampio stralcio del racconto di Fazio
dedicato alla prima edizione della Targa, nel maggio del 1906


Il 1956 coincise con il cinquantenario della Targa Florio.
L'anniversario venne celebrato dalla rivista "Civiltà delle Macchine" - edita a Roma da Finmeccanica - nel numero pubblicato per il bimestre maggio-giugno grazie ad un reportage del giornalista Beppe Fazio.
La narrazione di Fazio citò allora parecchi stralci dell'anonimo racconto della prima edizione della Targa Florio pubblicato all'epoca sul primo numero della rivista "Rapiditas", organo ufficiale di informazione della corsa madonìta dal 1906 sino al 1930.
La prima edizione della Targa prese il via all'alba della domenica del 6 maggio di 109 anni fa sul "Grande Circuito delle Madonie", con appena dieci vetture alla partenza: uno sciopero improvviso dei lavoratori marittimi rese impossibile lo sbarco in Sicilia di molti altri equipaggi. 
Base logistica della manifestazione fu il Grand Hotel delle Terme di Termini Imerese e, come è noto, il settore delle Tribune fu posto fra Campofelice e Bonfornello, a due passi dalle allora semisconosciute rovine del sito archeologico di Himera.
L'adesione del pubblico fu massiccia, in linea con quanto sarebbe accaduto nei decenni in cui la Targa Florio fu prova valida per il Campionato mondiale Marche: i primi due treni con 30 vagoni partirono da Palermo alle 3 ed alle 3.30 della notte, e fecero la spola a pieno carico dalla Stazione Centrale sino a Bonfornello per almeno tre ore.
Il racconto di Beppe Fazio - che "Civiltà delle Macchine" corredò con alcune fotografie delle vetture in gara e le note illustrazioni di Marcello Dudovich, Duilio Cambellotti e Aleardo Terzi - ricostruisce l'atmosfera di quella prima pioneristica Targa Florio, a metà strada fra evento sportivo ed appuntamento mondano.


Mondanità sulle Tribune poste fra
Campofelice e Bonfornello.
Quest'opera e quella che segue portano la firma
del disegnatore triestino Marcello Dudovich

Il dato agonistico della corsa passa in secondo piano rispetto al rilievo mostrato dall'accurata organizzazione della manifestazione da parte di un giovanissimo Vincenzo Florio.
L'inventore della Targa nel 1906 aveva appena 25 anni, ma dimostrava già quelle doti di intraprendenza e di organizzazione delle quali si è persa traccia da parecchi decenni in Sicilia.
Non è un caso che ancora ai nostri giorni l'unico evento siciliano conosciuto ancora fra molti appassionati sparsi nel mondo sia ancora, sempre ( e soltanto, purtroppo ) la Targa Florio.

"All'appello di Vincenzo Florio - scrisse Beppe Fazio - ben ventidue 'barriti crepitanti' risposero; anche se poi furono soltanto dieci le macchine che arrivarono in porto a Palermo, ospiti delle navi della flotta Florio, messe gratuitamente a disposizione ( un inopinato sciopero di portuali ne fermava dodici a Genova ).
Dieci macchine delle migliori case italiane e straniere, montate dai migliori assi del volante, ognuno col suo meccanico e, particolare gentile, accanto a un asso francese, una dama, Madame Le Blon, anche essa in veste di meccanico, anche le protegge il viso un femmineo bianco foulard di seta, che fa contrasto con la quadrata barba nera del marito.



Una nota gentile, che darà il 'la' alle targhe future, le quali saranno, non passerà un anno, le manifestazioni mondane preferite dalle signore; e si vedrà allora un comitato femminile d'onore composto dai più bei nomi dell'aristocrazia europea: la contessa d'Orsay, la principessa di Paternò, la Pignatelli, la principessa di Trabia, la Morosini, la marchesa di Soragna e infine, bella tra le belle, donna Franca Florio ( ai vecchi palermitani si incrina ancora la voce quando la nominano ).
Ma quest'anno ancora le signore sono un po' restie ad emergere, come divinità scese in terra dall'Olimpo, dalle nubi dorate, sollevate dalle macchine in corsa.
La Le Blon è un'altra cosa, è un esempio di dedizione coniugale, più che di spirito sportivo, e in corsa, seduta sulla poltroncina della sua Hotchkiss, avvolto ormai strettamente il viso nel foulard, come in un sudario, fa pensare, più che a un meccanico, alla moglie indiana che segue lo sposo oltre la vita.
Ma quel primo anno la corsa è un'avventura di audaci, è un salto nel buio e, pur se 'ciascun uomo moderno vive dieci vite', come scriveva l'entusiasta cronista del 1906, bisogna cercare di portarle a termine in certo qual modo tutte e dieci, e chi ci garantisce che quei 'titani sconosciuti' non saltino le stecconate?
Ma Vincenzo Florio, questo giovane gentleman di venticinque anni 'animato dalla più generosa e ardente passione per lo sport' ha pensato a tutto: con la sua capacità di divinazione ha capito che il circuito delle Madonie, diverrà col tempo una corsa ben più importante di quel primo tentativo di dieci vetture.


La morte di un cavallo ed il trionfo
dei cavalli vapore sul tracciato della Targa Florio.
Anche quest'opera porta la firma del romano Duilio Cambellotti

L'automobilismo sta diventando un fenomeno di massa, in quei primi anni del Novecento e il mondo industriale, in quel momento, guarda quel che succede nella lontana Sicilia; e anche quella 'lieta festa del progresso' non del tutto riuscita, è un nuovo passo verso l'ingresso definitivo dell'automobile nella vita sociale.
Bisogna stare molto attenti per evitare critiche e incidenti.
La eco delle 'frasi mordaci' contro le gare automobilistiche non era ancora spenta, circolavano ancora 'macchiette eccitanti all'odio che tendevano a far passare gli appassionati della nuova macchina divoratrice dello spazio come maniaci macabri'.
A queste bisognavano contrapporre una organizzazione di ferro.
Si pensi alla forza pubblica che si riuscì a concentrare sul posto.
Contro i dieci 'bolidi scatenati' si schieravano in pieno assetto di guerra 'duecento carabinieri, un gran numero di agebnti di polizia, tremila uomini di fanteria di linea schierati lungo il percorso, una compagnia di bersaglieri ciclisti incaricata del servizio di staffetta'.
L'ironia è facile, ma allora, grazie a quei brevi militari, 'il servizio d'ordine funzionò a meraviglia' e non si verificarono danni agli spettatori.


L'arrivo di Victor Rigal su una Itala.
Nel suo reportage, Beppe Fazio
racconta che l'allestimento
delle tribune fra Campofelice e Bonfornello
fu realizzato grazie al taglio di alcuni campi di grano

Del resto il pericolo di una guerra era ben lontano e i bersaglieri di Lamarmora nell'attesa, potevano tranquillamente divertirsi a battere in volata le potenti Bayard-Clémant di Monsieur Fournier e di Monsieur Tellier, rappresentanti di quella sorella latina così arrogante ( ma quel giorno non bisognava parlarne ) nei confronti del nostro Paese.
Per ogni evenienza c'erano poi i dodici posti di soccorso della Croce Rossa, ma medici e crocerossine, in quell'assolata domenica di maggio, non si prodigarono 'che per offrire dei bicchieri di acqua gelata con alchermes alle signore e dei sorsi di cognac ai commissari' non bastando il 'ristorante appositamente attrezzato' a coprire il fabbisogno di 'rinfreschi e bibite di ogni natura'.
Per il pubblico c'erano poi da costruire le installazioni in legno, preferibilmente in stile moresco come è di uso in quei tempi, i chilometri di barriere, i duecento metri di tribune 'inghirlandate di foglie e frutti di limoni e di aranci' e i cavalcavia nei posti di passaggio più affollati, ornati con gran pavese.
Per i corridori c'erano i premi da preparare, fra cui fa spicco la bella Targa di bronzo dorato con Monte Pellegrino che si specchia, ad opera degli abili colpi di bulino dello scultore René Lalique, nel golfo di Palermo.
Per la storia, bisogna preparare le pubblicazioni sportive affidate a grafici di sommo valore ed artisti come Cambellotti e Dudovich.
Tutto in uno stile elegante e festoso come si conviene a un tempo su cui incombe 'il compito eletto di nobilitare col battesimo della bellezza tutte le sue conquiste'.


Vincenzo Lancia alla partenza al volante di una Fiat

Padrini di questo battesimo sono gli audaci del bel mondo, i pionieri della Targa Florio, gli spettatori in panama bianco, per l'occasione con il cronometro all'occhiello, in luogo della consueta gardenia e le affascinanti spettatrici col candido parasole e le piume di struzzo sul cappello.
Un'eleganza degna del 'Derby' di Londra.
E mi si perdoni il raffronto, con una famosa manifestazione ippica, per una gara in cui il vinto dev'essere proprio il cavallo.
Ma il fatto è che questo nobile animale al tramonto, all'inizio del ventesimo secolo è ancora così pieno di vitalità che è impossibile ignorarlo o sopprimerlo.
Intanto quel Cambellotti che ce lo aveva mostrato morto sulla copertina di 'Rapiditas' nel 1906, in quella dell'anno dopo ne effigia tutto un branco, annitrente di rabbia verso una macchina che passa.
E i cavalli circondano, come ombre del passato, e quasi sommergono l'aurea vetturetta sulla Targa del 1908 ( la targa consegnata in premio al vincitore ).
Ma le stesse macchine si misurano ancora a cavalli; quella privata di don Vincenzo ne ha settanta, mentre il signor Ducrot nella sua industria di Palermo ne utilizza duecentocinquanta per le sue cento macchine e i bersaglieri chiamati in aiuto sul luogo della corsa, giungono sui loro 'cavalli d'acciaio'.
Spuntano fuori da tutte le parti questi cavalli.
Li cacci via e ti si avventano addosso, sotto forma di cavalli vapore, ti entrano in cinquanta, in settanta dentro i cilindri della tua macchina e ne escono trasformati in potenza come da quello di un prestigiatore.


Un passaggio del vincitore della Targa Florio del 1906,
il piemontese Alessandro Cagno alla guida di una Itala 

Certo era già una bella vittoria, l'aver rinunciato definitivamente alle quattro gambe artificiali dell'automobile che David Gordon proponeva qualche decennio prima. Ma rimanevano quelle carrozzerie da passeggio a cui manca soltanto la doppia coppia di quadrupedi dinanzi per farne un sontuoso tiro a quattro, e i corridori che si presentano al 'pesage' ( le macchine si pesano prima della corsa ) con un abbigliamento incerto tra la divisa del fantino e la tuta del meccanico, balzano sul sedile con abilità da maneggio.
Tu li vedi, sui documenti fotografici dell'epoca, quasi caracollanti su uno strano destriero.
Vedi Graziani che sembra frustare la groppa metallica della sua 'Itala' e il meccanico di Cagno che al traguardo fa il gesto del cavaliere che tira le briglie.
E' un residuo ancestrale che opera tuttora nel fondo degli uomini moderni?
Ma ritorniamo al nostro circuito.
Il cavaliere Vincenzo Florio vi si trova già da qualche ora, quando l'alba comincia a indorare le bandiere di tre nazioni che garriscono sui pennoni delle tribune.
Il duca Airoldi e il conte di Mazzarino arrivano sulle loro 'settanta cavalli' mentre i contadini dei paesi vicini sopraggiungono più lentamente sui carretti variopinti, tirati dalle loro giumente, appena in tempo prima che la strada sia 'consegnata' e alla stazione provvisoria 'stabilita per l'occasione al punto di partenza della corsa' impiegati, commercianti, professionisti e operai della città sono incessantemente vomitati dai treni speciali.
Circa ventimila se ne riunirono sul posto tra nobili, borghesi e plebei.



Al sorgere del sole la campagna di Bonfornello 'offriva un magnifico colpo d'occhio' tanto che il raccolto del grano andò perduto per diversi ettari attorno alle tribune.
Alle 5.30 le dieci vetture sono in linea.
Alle 6.00 lo starter G. M. Marley, cronometrizzatore dell'ACI, dà il via con il consueto stile al primo partente, Lancia su Fiat.
'Essendo stato il circuito sottoposto alla vigilia ad un processo di
vestrumitaggio con Fix la partenza dei corridori non solleva troppa polvere'.
Ma sia detto francamente, il vestrumitaggio con Fix non ci persuade molto. Sulle fotografie un po' sbiadite biancheggia, dietro ogni macchina, una densa scia di polvere e nonostante i dieci muniti d'intervallo, siamo sicuri che la barba nera di Monsieur Le Blon, secondo alla partenza, dovette ben presto ingrigire, non certo per la paura in un uomo di quella tempra.
Nella nube dei coniugi Le Blon s'immergeva Cagno, poi seguito da Achille Fournier. Bablot è il quinto a partire e il sesto Pope.
L'inglese 'parte secondo la tradizione con un grosso sigaro tra le labbra'.



Pure, ai rifornimenti, è proibito fumare, sarà partito col sigaro spento? Forse la Storia non chiarirà mai questo particolare, ma la Fortuna punì il suo esibizionismo. Pope 'ebbe un tubo spezzato perciò rimase in panne'.
Intanto incominciano ad arrivare i primi dispacci.
Nel circuito vi sono otto stazioni telegrafiche allacciate con un ufficio telegrafico provvisorio fornito di quattro macchine Morse.
Una bella rete per gli aficionados del totalizzatore e per i cronometristi.
Il sole comincia a scottare e un ansioso calore s'impadronisce della folla presente.
Non sono ancora passate tre ore, quando a un tratto 'un colpo di cannone da Campofelice annuncia l'entrata' del primo nel rettifilo del traguardo. Era tempo che all'opera della fanteria e dei bersaglieri si unisse quella dell'artiglieria.
'Subito dopo una tromba squilla' e Lancia passa come un razzo, poi Cagno 'che ha guadagnato sette metri'. De Caters 'passa a capo scoperto avendo perduto il suo berretto'.
Ma 'quando il cannone tonò novamente' fu Cagno a passare per primo fra le altissime acclamazioni 'avendo oltrepassato Lancia, che si credeva sempre in testa, facendo mostra di superbo sforzo' e non si avvide del sorpasso, forse a causa della densa nebbia che ormai avvolgeva, nonostante il vestrumitaggio, cose e persone.
Il passaggio di Le Blon è applauditissimo, soprattutto per 'il coraggio di cui ha dato prova e per la sua vettura ancora in perfetta tenuta' ( si sottintende forse, nonostante l'opera di meccanico apprestata dalla moglie?).



Poi passa De Caters 'sempre a capo scoperto', evidentemente non ha avuto il tempo di fermarsi a raccattare il cappello. Intanto 'si apprende che Achille Fournier è stato arrestato per avere investito un paracarri'. Il provvedimento sembra eccessivo, ma con tanta forza pubblica, che volete, bisogna pur fare qualcosa.
Pope ha avuto un indugio 'per mancanza di benzina' o forse perché non trova i fiammiferi? Questo inglese con la faccia grassa e molle, unico corridore privo di baffi, non ci piace molto.
Rigal il 'favorito delle scommesse' e Bablot 'il grande favorito francese' hanno commesso, vedi fatalità, la medesima distrazione: 'per un deplorevole equivoco, versarono acqua invece di essenza nei loro serbatoi'.
Sono le 3,52' e 22", quando Cagno tocca il traguardo e con un colpo di freno spacca il cardano ( un episodio bello come il cuore del messaggero di Maratona che si spezza alla meta ).
'L'eccellente conduttore è portato in trionfo' però poteva andarci più adagio a frenare.
Graziani è secondo. Bablot è terzo e quarto Rigal nonostante l'acqua bevuta. De Caters arriva quinto, ma il suo copricapo è per sempre perduto. L'intrepida signora Le Blon che è riuscita financo a mantenere immacolato il suo serico foulard, in un percorso dove di solito 'i meccanici vomitano' 'si mostra sorridente e non molto stanca', mentre il marito si spolvera la barba che, sbattendo al vento della corsa sul suo petto, gli ha forse impedito un piazzamento migliore. Comunque gli sposi sono arrivati sesti.



Così si compiva cinquant'anni fa la prima 'Targa Florio', un esempio mirabile di 'organizzazione perfetta, di spirito agonistico, di interesse sportivo'.
Parli per noi la media tenuta di km 46,800 su 446,469 di percorso e la esiguità degli incidenti. Certo, per Bablot e Rigal, la benzina non è acqua, ma un cappello perduto , per De Caters, non è gran danno, anche se nel 1906 è vergogna camminare per le strade a capo scoperto, e il tubo rotto di Pope ci sembra proprio una punizione divina per l'eccessiva 'nonchalance' inglese.
Ma se i risultati tecnici di quella prima prova non furono molto notevoli, se quella corsa dell'ormai lontano 1906, fu piuttosto un torneo per divertire l'aristocrazia palermitana che una seria competizione sportiva, il fatto stesso che grandi piloti e grandi case vi partecipassero, anche senza troppo impegnarsi, come a un giro di prova, era già molto significativo.
Non più tardi di un anno, il nome di Florio doveva richiamare per la seconda volta l'attenzione dell'industria automobilistica mondiale, e con ben altri risultati, su quel roccioso lembo di terra siciliana, dove si disputava la Targa.
La corsa, si scrive nel 1907, è 'volta a fini eminentemente pratici'. Essa 'è destinata a fornire il criterio intorno alla consistenza, al valore dell'odierna industria automobilistica'.
Si fa strada nella mente degli organizzatori il concetto che una corsa non è soltanto un divertimento, ma anche un utile collaudo di macchine.
'Quello che sembrava un gioco o tutt'al più uno spettacolo di proporzioni più grandiose del consueto, ci appare come uno dei più complicati e dei più gravi affari a cui ci si possa accingere'.
E fu in quel secondo anno che si posero le basi di una tradizionale gara che rimane ancora una delle più importanti del genere, ed è divenuta, dal 1955, la prova decisiva per il 'campionato del mondo'.
Come sempre, si comincia per gioco e si finisce col fare sul serio...".








    



sabato 31 gennaio 2015

IN BOCCA AL LUPO, PRESIDENTE


Sergio Mattarella,
eletto Presidente della Repubblica, primo Capo dello Stato siciliano

SICILIANDO














"... Il solo compito da assolvere è che non si continui a pensare alla vecchia maniera, cioè che la Sicilia sia irredimibile e che per essere un paradiso non dovrebbe essere abitata dai Siciliani.
Piaccia o non piaccia, tuttavia, come sempre in passato così sempre in futuro, la Sicilia sarà quella che i Siciliani vorranno che sia"
Francesco Renda

venerdì 30 gennaio 2015

IL VOLUTTUOSO "PASSO IBLEO" DI RAGUSA

Notazioni topografiche e suggestioni mitologiche di Ragusa Ibla nelle pagine scritte 80 anni fa dal saggista Pier Silvio Rivetta

Il quartiere Mocarda, a Ragusa Ibla.
La fotografia dovrebbe risalire agli inizi degli anni Cinquanta
dello scorso secolo e venne pubblicata
nell'opera di E.Chiusa e G.Casolaro
"Sicilia", edita nel 1974
da Edizioni Azienda Grafica Editoriale Torino 

Nell'opera "Itinerari bizzarri, curiosità italiche" ( Edizioni Ceschina, Milano ), il giornalista e saggista romano Pier Silvio Rivetta - noto con lo pseudonimo di "Toddi" - inserì nel 1935 alcune curiose notazioni su Ragusa Ibla:


"La città nuova - dalle vie regolari a scacchiera - digrada verso al città vecchia, irregolare e contorta: Ibla.
I due centri, sino a poco fa, eran riuniti soltanto dalla ripida scalinata, assai pittoresca ed altrettanto faticosa.
Oggi un comodo servizio di autobus percorre la bella e audace strada a giravolta che collega le due Raguse, unite dal 6 dicembre 1926 in un unico comune, capoluogo di provincia.
Ragusa, elevata a provincia, ha carpito a Siracusa un primato geografico: oggi Ragusa è il capoluogo di provincia più meridionale d'Italia.
E' anzi il solo che sia più a Sud del 37° parallelo, a una latitudine che concorre con quella di Malaga in Andalusia, Tunisi d'Africa e Sparta nel Peloponneso".

"Da nessun paese si scorge Ragusa; né da Ragusa - nemmeno dal più alto pinnacolo - si vede paese alcuno; Ragusa è la città più nascosta d'Italia: bisogna venirci, ma vi si viene troppo poco. 
Eppure ci vennero dopo i Sicani, i Greci, gli Arabi e i Normanni.
E chi sa quanti altri; poi che alcuni credono che Ragusa di Sicilia sia omonima di quella di Dalmazia, perché fondata appunto dai Ragusei Dalmati, giunti fin qui a ricostruire una città presso la semidistrutta Ibla.
Fantasiosa versione, suggerita forse dal nome coincidente.
Altri, più semplicioni, vorrebbero che Ragusa non significasse che 'racchiusa'.
La topografia accrediterebbe questa spiegazione per il nome della città nascosta dai pianori degli Iblei.
Ibla, invece, nome di tutta la regione Iblea, proverrebbe da un epiteto sicano-grecizzato di Afrodite.
I Romani chiamarono "hyblacus gressus" uno speciale incedere della dea più varia dell'antichità, la quale sapeva essere pudica anadiomene, massaia ciprigna e sfacciata pandemia.
Il 'passo ibleo' di Venere apparteneva al repertorio provocante.
Era quella andatura molle e voluttuosa che alcune dive dello schermo credono di avere inventato nel secolo nostro..." 

   







mercoledì 28 gennaio 2015

CRONACHE DELLA TRAGEDIA DEL BELICE

I temi degli alunni di una scuola media fra le rovine di Montevago e la testimonianza della devastazione a Gibellina in due reportage pubblicati dalla "Domenica del Corriere" il 30 gennaio del 1968


Lo sconforto di un terremotato a Salaparuta,
uno dei centri del Belìce devastati dal terremoto
del gennaio del 1968.
ReportageSicilia ripropone due resoconti
dai luoghi del sisma firmati da Luigi Cavicchioli
e Vittorio Paliotti, entrambi pubblicati
il 30 gennaio del 1968 dal settimanale
"Domenica del Corriere".
Le immagini del post vennero scattate dai fotografi
Evaristo Fusar e Gianni Gelmi

Negli ultimi giorni di gennaio di 47 anni fa, numerosi inviati di testate giornalistiche italiane documentarono con i loro reportage il dramma del terremoto nel Belìce, che provocò la morte di almeno 296 persone, il ferimento di un migliaio e circa 10.000 sfollati ( dati della Protezione Civile, discordanti però rispetto a quelli riferiti da altri siti, anche di Comuni coinvolti nell'evento ).
Le scosse provocarono danni in una ventina di abitati del trapanese, dell'agrigentino e del palermitano.
Salaparuta, Gibellina, Santa Ninfa e Montevago vennero cancellati dalla violenza del terremoto e da un'edilizia in cui l'uso del cemento armato era limitato solo a pochissimi edifici di più recente costruzione.


Fuga in strada
durante una delle numerose scosse
che colpirono duramente
le province di Trapani e Agrigento

Danni gravi colpirono invece Santa Margherita del Belice e Partanna.
Pochi giorni dopo il sisma, le poche costruzioni rimaste parzialmente in piedi furono distrutte con l'esplosivo, a completare la distruzione in quest'area della Sicilia occidentale.  
Quello del 1968 fu un evento che per settimane rivelò all'Italia già da tempo uscita dall'illusoria bolla del "boom economico" la realtà di un Sud lasciato ai margini dello sviluppo socio-economico e consegnato all'immobilismo clientelare della sua classe politica.


Panoramica sulla distruzione a Gibellina.
Si legge nella didascalia:
"Gibellina era un paese fiorente.
La prima scossa è bastata per radere al suolo
quasi tutte le sue case.
Molti abitanti sono riusciti a fuggire,
gli altri sono rimasti intrappolati fra le mura
che fino ad allora li avevano protetti"


Salaparuta e gli effetti delle scosse.
"Sembra di essere di nuovo all'epoca dei bombardamenti.
Ma non è stata la guerra a distruggere il paese,
è stato il terremoto in pochi minuti"
Nella fotografia che segue, ancora Salaparuta.
"Il paese non esiste più.
Il terremoto l'ha raso al suolo.
Un uomo ha frugato per ore fra le macerie della sua casa.
Ora se ne va" 

Quel terremoto avrebbe inoltre riservato al Belìce - oltre ai lutti ed alle devastazioni - un inevitabile stravolgimento dell'originario tessuto sociale, minato nelle settimane successive da un'accelerazione dei fenomeni migratori da parte di famiglie che per colpa del sisma avevano perso ogni loro bene o fonte di reddito.
Le fotografie riproposte nel post illustrarono due resoconti compiuti pochi giorni dopo il terremoto dal settimanale "Domenica del Corriere" in edicola il 30 gennaio del 1968.





Gli articoli di quel periodico portano la firma di Luigi Cavicchioli, Vittorio PaliottiGilberto Severi; le immagini quelle di Evaristo Fusar e Gianni Gelmi.
Il reportage del romano Cavicchioli fu ambientato a Montevago, uno dei paesi agrigentini distrutti dal terremoto con 95 vittime e "simbolo, mi è parso - scrisse l'inviato - "di una Sicilia sventurata e fiera, amara e generosa, fatalista e passionale, che il tempo va lentamente cancellando".


"Alle prime luci di lunedi 15 gennaio
Montevago è apparsa cosi ai nostri due fotografi
che sono stati i primi estranei a entrare
nel paese immerso nel più profondo silenzio
rotto solo dall'abbaiare dei cani.
Degli abitanti, infatti, chi non era morto era fuggito"


"E' di Montevago che parlerò, parlando dei alcuni suoi abitanti, morti o superstiti, perché un misterioso cordone ombelicale unisce a Montevago ognuno dei suoi tremila abitanti: tremila corpi e un'anima sola.
I cadaveri tirati fuori dalle macerie erano mucchietti di stracci, su quelli già identificati era appuntato un pezzo di carta col nome.
Da un mucchio di macerie ( facile arguire che qui c'era la scuola media ) affioravano due pacchetti di fogli protocollo.
Non senza difficoltà li ho recuperati.
Sono compiti d'italiano corretti e passati all'archivio della scuola.
Nel primo pacchetto ci sono i temi svolti il 22 novembre 1966 nella classe prima B maschile. Nel secondo, quelli svolti il 18 maggio 1967 dalle femmine della seconda A.
Ma il fatto singolare è che in entrambi i casi il tema sia praticamente lo stesso: 'Parla del tuo paese' e 'Descrivi il tuo paese'.


"Cinque persone viaggiavano su quest'auto.
Percorrevano una strada di Montevago
quando il paese ha sussultato.
L'auto è rimasta sotto le macerie
con i cinque prigionieri
che sono stati trovati morti"

Chissà quanti temi sono stati assegnati, nelle due annate scolastiche, nelle diverse classi: proprio questi due pacchetti dovevano finire insieme, affiorare dalle macerie, come per farsi 'udire', per confidarci che cosa pensavano questi ragazzi del loro paese che non c'è più.
Una ben strana e sconcertante coincidenza: ma i temi sono qui, col loro ingenuo linguaggio, con i nomi delle bambine e dei maschietti che li svolsero, le correzioni in rosso dell'insegnante, i voti ( brutti voti in verità, che allora erano giusti, ma se li rileggesse oggi quei temi, l'insegnante, oggi che il paese non c'è più, avrebbe dieci e lacrime per tutti ).
Bavetta Calogera ( il cui sei e mezzo la qualifica come la prima della classe ) comincia così il suo temino:
'In questa occasione posso parlare e difendere il mio paese Montevago: è un piccolo paese, ma a me è molto caro, anche perchè ci sono nata e cresciuta. Conta tremila abitanti. Lo fecero costruire il principe Rutilio Scirotta nel 1640...'.


"Dello stesso colore delle pietre
che lo hanno ricoperto questo povero corpo
trovato sotto le macerie attende la sepoltura.
E' una delle tante vittime di Montevago,
il paese dove tutti si credevano al sicuro
dai terremoti perché avevano case basse"

E lo ha distrutto il terremoto all'alba di lunedi 15 gennaio 1968.
Altri paesi, Salaparuta, Santa Margherita Belice, Gibellina, sono stati distrutti completamente o quasi: ma una differenza enorme e incomprensibile è nel numero delle vittime.
Pochissimi morti o nessuno negli altri centri, tranne Gibellina, dove sono tanti, i morti, ma sempre un terzo di quelli di Montevago su un numero più che doppio di abitanti. Perché?
Il terremoto ha investito con uguale violenza una zona vastissima: le rovine sono ugualmente impressionanti a Montevago e a Santa Margherita, a Salaparuta e a Gibellina.


"Nata nel 1864, Giuseppina Impastato
era sopravvissuta ad un secolo non certamente tranquillo.
Anche il terremoto di Montevago in un primo momento
l'ha rispettata: la vecchietta è stata infatti
estratta viva dalle macerie.
'E' la guerra, è la guerra',
ha mormorato ai suoi soccorritori.
Poco dopo è spirata in ospedale"

Ma tre scosse, nel primo pomeriggio di domenica, avevano dato un allarme ben chiaro, avvertito in tutta la zona.
Ci fu uno nuova e più forte scossa alle 2.35 di notte, prima del fatale sconquasso che avvenne alle 3.02.
E a quell'ora i paesi erano già quasi completamente abbandonati, la gente era fuggita nei campi, in tutta la zona.
Soltanto a Montevago molta gente indugiava ancora nelle case o addirittura dormiva nel proprio letto. Perché?
Non avevano compreso il pericolo? Non avevano paura del terremoto?
'Altroché, se avevamo paura: mio cugino Antonio, poverino, prima di andare a dormire lo disse, un pò per scherzare e un pò sul serio, che andava a fare la morte del topo', afferma Giuseppe Calogero, scampato per un soffio.
Perché non scapparono come la gente di altri paesi?
Giuseppe Calogero si stringe nelle spalle:
'Ma, per destino... Qualcuno doveva pure sacrificarsi, altrimenti senza il mucchio di morti, nemmeno si sarebbero accorti, nel continente, che le nostre case sono crollate, che abbiamo perso tutto'.
Simili argomenti, è ovvio, non hanno un senso concreto, ma adombrano la realtà di un fatalismo che a Montevago toccava il punto massimo di tutta la zona: questo era, di tutta la zona, il paese più povero, più solo, arroccato nella consapevolezza o convinzione dei suoi diritti traditi, non solo nell'ambito nazionale, ma regionale e forse persino provinciale.


"Tutto il dolore della Sicilia sembra raccolto in questo volto"

Angelo Basile scriveva nel suo tema:
'A Montevago abbiamo specialmente il nostro arciprete che tutti vanno da lui per qualsiasi bisogno e lui aiuta sempre tutti, i poveri e bisognosi'.
Francesco Billeri scrive nel suo:
'Il sindaco di Montevago è Barile Leonardo lui è buono con tutti e chi ha bisogno a qualunque cosa ci pensa lui'...
... Scrive Rosaria Miliello nel suo testo:
'Tutti al mio paese si aiutano uno con l'altro, anche qualunque sacrificio per aiutare parenti ed amici. Uno che tutti dicono è tanto buono anche più di tutti è il medico condotto Marino, i malati lui il dottore darebbe la vita perché diventassero tutti guariti e vivaci'...


"Hanno perso tutto e ancora
non se ne rendono conto.
Non hanno più la casa, non hanno più i parenti.
Li ospita una tenda, poi si vedrà.
I tre di questa famiglia
non hanno nemmeno la forza di parlare"

... Così Antonina Gusso nel suo tema:
' A Montevago non ci sono divertimenti, né cinema, il cinema è nei paesi vicini. Ma è un paese bello anche senza divertimenti, chi c'è nato ci vuole morire, anche se non c'è divertimento'.
Avrebbero parlato e come, i ragazzi della prima B, nei loro temi, dell'eroe di Montevago, se i temi non fossero di due anni fa, quando l'eroe era un semplice carabiniere.
Quel carabiniere, Giuseppe Giordano, che recentemente ha meritato plauso e gratitudine arrestando con azione audace i due banditi Cavallero e Notarnicola.
Montevago organizzò festeggiamenti in suo onore, il sindaco gli appuntò sul petto una medaglia d'oro.


"Il vitello era appena nato
quando si è avuta la prima scossa.
La stalla è crollata ma un soldato,
scavando faticosamente tra le rovine,
ha estratto il vitello dalle macerie e l'ha portato in salvo"

Ora il carabiniere Giuseppe Giordano è tornato al paese, per identificare il padre e due fratelli morti sotto le macerie.
Le strazianti immagini che abbiamo negli occhi, non ci impediscono di sorridere leggendo l'ultimo tema, quello di Geronimo Galanti, che a un certo punto dice:
'... Al mio paese, Montevago, si vive tranquilli e felici, l'aria è buona, si sente l'odore dei fiori, a Montevago vivono più di cento anni come la signora Giuseppina'.
La signora Giuseppina aveva 104 anni. E' rimasta alcune ore sotto le macerie, l'hanno tirata fuori che sembrava sana e vispa, ma poi è morta anche lei".


L'altro inviato della "Domenica del Corriere", il napoletano Vittorio Paliotti, firmo invece un reportage che documentò drammaticamente la devastazione a Gibellina, nel trapanese.
Qui il terremoto provocò 133 vittime e la distruzione degli edifici fu quasi totale.
Il viaggio da Palermo sino alle rovine del paese, secondo il cronista, fu "inenarrabile":


"Una donna di Santa Margherita del Belìce
ha salvato la capra, un sacco di povere cose, una sedia.
Ora è in un campo profughi, con la sua capra e le sue poche cose"

"Autocolonne di soccorritori che andavano, mezzi di fortuna di profughi che venivano. Ogni tanto una tendopoli. Alle porte del Comune di Vita, sono entrato in una di queste tendopoli. Gli uomini erano fuori dalle tende e si contendevano le pagnotte e le coperte che alcuni marinai, da un camion in movimento, lanciavano alla rinfusa.
'A me, un pezzo di pane a me!'.
Ma i marinai non avevano il tempo di scegliere le persone alle quali dare le pagnotte. Lanciavano pagnotte sulla folla e basta.
A Salemi ( il comune che precede Gibellina ) sono entrato nell'ospedale: un ospedale di guerra.
A mano a mano che procedo verso Gibellina il viaggio diventa più difficile.
I ponticelli sui torrenti sono pericolanti. Bisogna scendere, attraversarli a piedi, per accertarsi che non si odano scricchiolii, e poi si può passare con l'automobile.
Quando sono in vista di Gibellina, abbandono la macchina e mi unisco ad Arrigo Pasquini.


"Le tende erette dalla Croce Rossa
e dall'Esercito hanno accolto
migliaia di povera gente rimasta senza casa.
Il vecchio in primo piano ha in un fagotto
le poche cose che gli sono rimaste.
In braccio ha una nipotina
rimasta senza le scarpe"

Presso il cimitero ( i morti sono ancora allineati sul prato, ne arrivano in continuazione ) sono accampati i carabinieri giunti da Palermo.
'Andiamo di casa in casa e gridiamo "C'è qualcuno?". Se rispondono scaviamo. Non c'è altra scelta', mi spiega un carabiniere.
Un vigile del fuoco di Brescia, certo Magni, mi racconta che, con questo sistema, ha salvato una bambina di quattro anni.
'Appena l'ho portata alla luce ha detto "Ciuccio, ciuccio".
Io credevo che chiedesse notizie del suo asino. Lei per "ciuccio" invece intendeva "biberon". Con noi non abbiamo biberon'...".

Il racconto di Paliotti è una testimonianza paurosa della scossa più violenta che colpì in quei giorni il Belìce, quella registrata alle 17.45 di martedì 16 gennaio e dalla durata di 57 secondi.
L'inviato del settimanale si trovava in compagnia del giornalista palermitano Arrigo Pasquini e di tre carabinieri: il terrore li sorprese mentre camminavano sui cumuli di rovine di via del Calvario,  una delle principali strade del paese:

"Dunque, camminavamo per Gibellina, io e Pasquini, un ragazzo di meno di trent'anni.
Fin dove i bulldozer hanno lavorato si procede abbastanza speditamente, ma più in là sono soltanto macerie: macerie al centro della strada, macerie ai due lati.
I residui di quelle che furono case, e che ora, orribili occhiaie di morte, lasciano intravedere soltanto quadri in bilico su ritagli di pareti.
C'è un tanfo orribile.
'Saranno le condutture igieniche rotte', dico.
'Macchè condutture. Sono i morti', replica Pasquini.
E procediamo fra i massi, aiutandoci con le mani per camminare.
Incontriamo i tre carabinieri, tuta mimetica e basco; ragazzi sui ventidue anni, uno è napoletano, gli altri due sono di Palermo.
Hanno appena messo di scavare. Che cosa? 'Morti, soltanto morti', mi risponde il carabiniere napoletano.


"La zona della Sicilia occidentale
dove il terremoto si è scatenato con un'energia
paragonabile a quella di una bomba atomica.
Su Montevago, Gibellina e Salaparuta si è abbattuto
un gigantesco colpo di maglio che ha quasi
completamente distrutto i paesi, poi l'onda sismica
si è allargata ai centri vicini,
lasciando un'altra scia di rovine e morti"


Siamo tutti e cinque su un cumulo di macerie, e parliamo. Io segno qualche notizia sul taccuino. Parliamo, e anche ridiamo, perchè i militari di leva, dovunque li spinga il loro dovere, hanno sempre sulle labbra una battuta pronta.
Ma ecco ( sono le 17.45 ) che le parole e le risate si spengono: le macerie sulle quali sostiamo sussultano paurosamente, i residui di pareti che a destra e sinistra, fiancheggiano la strada, precipitano.
'Fuggiamo', grida il carabiniere napoletano.
Ma dove fuggire, se tutto precipita, se la terra ci manca sotto i piedi, se ora davanti a noi si è aperta una voragine?
Scivoliamo dolcemente in questa voragine e tutto balla intorno a noi.
Istintivamente ci abbracciamo tutti e cinque, stretti a capannello.
E' stato allora che ho imparato a conoscere la paura. Che cos'è la paura? E' fiato grosso, asma, impossibilità di respirare, mancanza assoluta di pensiero.
Credevo che il pensiero umano non si arrestasse mai, e invece il mio pensiero si è arrestato per 57 secondi.
E' stata, dicono, la scossa più spaventose di tutte, la più violenta.
Quando il boato si è spento e la terra ha smesso di sussultare, io, Arrigo Pasquini e i tre carabinieri, tutti e cinque con lividure varie alle gambe e alle braccia, ma vivi ( perché poi, vivi, proprio noi cinque? ) ci siamo messi ad annaspare fra le macerie e, raggiunto il tratto di strada spianato dai bulldozer, a fuggire, finalmente a fuggire..."




   

  
   

    

domenica 25 gennaio 2015

DISEGNI DI SICILIA


Pubblicità Azienda Autonoma Turismo Siracusa,
tratta da "Handbook for Italy" di Giovanni Mariotti,
Edizioni Saturnia, 1952 

LE ALLEGORICHE VIRTU' DEL CONTE DI ASSORO

Dal secolo XV, il sepolcro di Francesco Ventimiglia celebra le presunte doti di uno degli storici feudatari del paese ennese


Il prezioso sepolcro gaginesco di Francesco Ventimiglia,
all'interno della chiesa dei Carmelitani ad Assoro,
in provincia di Enna.
Le quattro cariatidi femminili rappresentano
le virtù della prudenza, della giustizia, della fortezza
e della temperanza attribuite ad uno dei feudatari locali
di una dinastia di origine catalana.
Nell'altra fotografia del post,
uno scorcio del centro storico di Assoro.
Le immagini sono tratte dall'opera di
E.Chiusa e G.Casolaro "Sicilia", edita nel 1974 da
Edizioni Azienda Grafica Editoriale di Torino 

Molte grandi e piccole città siciliane conservano all'interno delle proprie chiese la memoria della loro lunghissima stagione feudale.
Baroni, conti ed altri più o meno titolati padroni un tempo di feudi agricoli e centri urbani sopravvivono infatti nelle fattezze scultoree di marmo che impreziosiscono le loro tombe: sepolcri talvolta di un qualche interesse architettonico, vanto delle guide storico-artistiche locali che ne ricordano di frequente lo "stile gaginiano"
La ricerca di queste testimonianze funerarie del potere feudale - che a volte ospitano anche arcivescovi e viceré - può essere estesa dalle più note chiese di Palermo a quelle meno conosciute e visitate di paesi lontani dai circuiti turistici della Sicilia.
Un esempio di questo costume si osserva ad Assoro, uno dei centri urbani più antichi dell'isola, un tempo ricco di giacimenti di zolfo e di rocce di alabastro. 
Dal gennaio del 1393 e sino al 1812 in questo paese dell'ennese furono padroni i Ventimiglia, famiglia di origine catalana cui si deve la costruzione di un castello e del campanile della basilica del Priorato di San Leone.
Ad attestare ai posteri il loro secolare potere su Assoro, quattro esponenti di quella dinastia - i conti Ponzio, Vitale, Giovanni e Francesco Valguarnera - si fecero tumulare all'interno della chiesa del Priorato e in quella dei Carmelitani.
Il sepolcro che dal 1491 custodisce in quest'ultimo edificio i resti di Francesco è attribuito a Domenico Gagini ed e' un esempio di quella scultura funeraria del tardo Quattrocento che ebbe il compito di ricordare con fasto i supposti meriti dei nobili feudatari defunti nell'isola.



Le fotografie del monumento funebre del conte di Assoro e del centro storico del paese sono tratte dall'opera di E.Chiusa e G.Casolaro "Sicilia", edita nel 1974 da Edizioni Azienda Grafica Editoriale di Torino
Nella prima immagine, il corpo marmoreo di Francesco Ventimiglia è vegliato da una Madonna con Bambino, il sepolcro è invece decorato da due angeli alati che sorreggono in posizione quasi sdraiata lo stemma del casato.
La tomba è sorretta da quattro cariatidi che rappresentano le virtù attribuite per l'eternità al conte: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.
Le cronache del quindicesimo secolo non spiegano se Francesco Ventimiglia abbia davvero praticato quelle doti ad Assoro; certo, non lo ha fatto in Sicilia la maggior parte dei baroni del potere e della politica di decenni più recenti ai nostri giorni.