“Se la tonnara dà l’impressione di un coro orgiastico, violento ed estenuante, la pesca del pesce spada ha l’aspetto più raffinato e malizioso; e, di fronte alla materialità sanguinosa di quella, troviamo l’astuzia fatta di agguato e di suprema abilità individuale di questa”.
Così, nell’estate del 1948, Francesco Alliata di
Villafranca descrisse la differenza tra due tipi di pesca oggi scomparsi dalle
acque siciliane; la seconda delle quali – quella del pesce spada, appunto – ai
nostri giorni è sicuramente meno conosciuta e ricordata rispetto alle gesta di
rais e tonnaroti, fra Sicilia e Calabria.
Proprio a Francesco Alliata di Villafranca – esponente
di una storica famiglia nobiliare palermitana e raffinato documentarista del
mare – si deve la produzione di “Tra Scilla e Cariddi”, dedicato alla caccia al
pescespada.
Realizzato nell’estate del 1948 nelle acque dello
Stretto di Messina, il documentario fu una delle preziose produzioni realizzate
nel secondo dopo guerra dalla ‘Panarìa Film’ – la casa cinematografica fondata
dallo stesso Alliata e da Pietro Moncada, Quintilio Di Napoli e Renzo Avanzo -
insieme a “Tonnara”, “Bianche Eolie” ed “Isole di cenere”.
Le parole di Francesco Alliata di Villafranca
ricordate all’inizio di questo post sono tratte da un reportage da lui
pubblicato nell’agosto del 1950 tra le pagine della rivista mensile del TCI ‘Le
Vie d’Italia’.
Testo e fotografie contenuti in quel periodico
raccontavano appunto la realizzazione di “Tra Scilla e Cariddi”, allorchè –
come ricorda Alliata – “un mese di vita
in comune con i pescatori di pescespada dello Stretto di Messina aprì agli
occhi miei ed a quelli dei due amici che erano con me le straordinarie
caratteristiche di questa pesca, l’umana poesia del mondo chiuso entro il quale
vivono le poche famiglie che si tramandano i suoi segreti e l’indescrivibile
abilità di questi giocolieri del
mare”
"Dal suo altissimo posto di osservazione, l'antenniere avvista il pescespada a distanza e lo segnala agli uomini dei luntri..." |
La caccia al pescespada aveva luogo su una fascia
larga dalla costa non più di trecento metri, da Bagnara a Scilla ( costa
calabra sul basso Tirreno ) per dieci chilometri e dalla riviera Paradiso a
Punta Faro ( sponda siciliana dello Stretto di Messina ) per altri dieci; il
periodo di pesca era compreso fra maggio-giugno – quello più favorevole – e tra
luglio ed agosto.
Le attenzioni del documentario si concentrarono
dunque sul “luntru”, l’imbarcazione piccola e snella usata per la caccia al
pescespada. “Nera esteriormente ed all’interno colorita a tinta unita vivace –
scriveva Alliata – ed ancora
leggerissima, fortemente appuntita a prua e a poppa, relativamente bassa di
bordi, denunzia a prima vista la possibilità di raggiungere una forte
velocità”.
Il “luntru” era costruito da artigiani specializzati
che si tramandavano le conoscenze tecniche da padre in figlio; a quattro remi –
lunghissimi ed elastici – era un’imbarcazione che assicurava velocità e
manovrabilità.
"L'antenniere sale per la scala di corda al suo posto di osservazione sospeso a 25 metri..." |
L’equipaggio era composto da 6 persone: quattro
rematori, il “faleroto” – colui che avvistava la preda, dall’alto di un piccolo
albero di circa due metri e cinquanta – ed il “lanzatore” o “padrone”, cioè il
fiocinatore.
“Quest’ultimo – precisava Alliata nel suo
reportage – è il personaggio più
importante del gruppo. Deve essere dotato in modo eccellente di occhio,
equilibrio, scatto, intuito e precisione, in tal misura da potere colpire il
pescespada anche a distanza di venti metri, malgrado la posizione malferma ed
incomoda”.
"La zaffinera, l'arpione che deve affondare nelle carni del pescespada, è il grande tesoro del lanzatore, che ne controlla frequentemente l'efficienza..." |
Nelle mani, il “lanzatore” stringeva la “zaffinera”,
cioè l’arpione che doveva affondare nelle carni del pescespada. “Il suo nome – spiegava dettagliatamente
Alliata – deriva dall’affinità con uno
strumento che si usò nei tempi più remoti per colpire i delfini, descrittoci
anche da Omero. E’ di acciaio, lunga venti centimetri ed ha alle sue estremità
quattro alette a cerniera che formano un tutt’uno: le due prime più corte, le
seconde più lunghe; si chiudono completamente al momento in cui la zaffinera
penetra nelle carni del pesce e, per contrario, di colpo si aprono ad ombrello
quando questi, ferito, si dibatte. In tal modo si rende impossibile la fuoriuscita
della punta che, con le alette aperte, oppone una fierissima resistenza…”
Nel suo racconto, Alliata distingueva anche le
differenza nella caccia al pescespada fra Sicilia e Calabria. “L’equipaggio è composto da un altro uomo,
oltre i sei del luntro. E’ questi la vedetta a distanza che segnala per primo
la presenza del pescespada. In Calabria, dove altissime scogliere a picco sul
mare costituiscono un osservatorio ideale per un vasto specchio di acqua, la
vedetta vi si pone in cima e, quando avvista il pesce, lo segnala con lunghe
grida e con l’agitare una banderuola bianca,
l’”ammattu”. Nello stretto di Messina, invece, non essendoci rocce sul mare, la
vedetta si piazza in cima ad una altissima antenna di 20-25 metri posta su una
imbarcazione speciale, la “felùa”… Da questa altezza, il pescespada si osserva
con chiarezza, perché il suo colore argenteo dà, sotto i raggi del sole, rapidi
riflessi e bagliori”.
Quest’ultima vivida indicazione regala alla pesca
del pescespada descritta da Francesco Alliata quel carattere quasi epico
presente in tante pagine di letteratura dedicate al rapporto fra pesce e
pescatore; e l’epilogo della caccia esalta questo carattere.
Una cartina dell'area di pesca, lungo le coste di Sicilia e Calabria, rispettivamente tra la riviera Paradiso e Punta Faro e Bagnara e Scilla |
“Il
pescespada, che naturalmente ha tentato di sottrarsi al noioso inseguitore
aumentando di velocità o variando il suo percorso ( può anche di dirigersi
verso il fondo e, in questo caso, sfugge agevolmente ) è ora a breve distanza
dal luntro. Il faleroto annuncia al lanzatore, ‘incìmiti l’asta!!’, e questi si
tiene in posizione di pronto: una gamba protesa in avanti sulla punta estrema
del luntro, l’asta inclinata verso il basso sostenuta con il braccio sinistro,
mentre la mano destra, poggiata sulla sua estremità posteriore, la tiene pronta
per la spinta finale. Il faleroto lancia un ultimo urlo, ed è il più concitato
di tutti, ‘’a punta ‘u ferru, est’ ( hai il pesce a tiro in direzione dell’asta
) e lo ripete con sovrumana agitazione. Il lanzatore lo avvista subito, dà la
direzione solo muovendo l’asta: egli la tiene sempre puntata in direzione del
pesce, in modo che i rematori, osservandola, mutino la direzione del luntro.
Egli osserva attentamente ogni movimento, al fine di prevedere il più
favorevole e cerca di avvicinarsi il più possibile. Quindi prende di mira la
testa, che è il punto che può uccidere di colpo il pesce ed evitare il pericolo
di perderlo. Quando ritiene giunto il momento, solleva in alto la punta della
zaffinera distendendo il braccio sinistro, inarca la schiena gettando le spalle
indietro e, mentre tutti si fermano ed i rematori danno stabilità alla barca
con i remi, lancia il suo colpo… Se il pesce è colpito, il lanzatore lancia un
grido di ringraziamento, ‘San Marcu binirittu!’”.
Lo spada colpito tenterà un’inutile fuga nelle
profondità del mare, tirandosi dietro per miglia e miglia il luntro. Quando si
poserà sul fondo – quasi in un atto di sacra pietà – uno dell’equipaggio segnerà
una croce con le dita della mano aperte, su un lato della testa, vicino alla
bocca. Il pesce viene issato sulla felùa, dove viene pulito e pesato, una fetta
circolare intorno al punto in cui il ferro ha colpito toccherà al lanzatore.
Già qualche anno dopo – nel 1956 – la pesca al
pescespada fra Sicilia e Calabria sarà sempre più sporadicamente affidata ai
personaggi ed alle attrezzature descritte da Alliata.
I figli dei faleroti e dei lanzatori – un tempo
abili nel seguire l’esempio paterno, giocando a colpire piccoli cefali di riva
con astine rotte di parapioggia – impareranno altri mestieri. Molti di loro
lasceranno lo Stretto di Messina ed i pochi pescespada superstiti, cercando
fortuna in città e fabbriche, in luoghi dove non esisteva neppure il mare.
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