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sabato 25 aprile 2015

COSE SICILIANE














La prima volta in cui la via Pecori Giraldi di Palermo finì negli articoli dei giornali fu quando si scoprì che lì abitava il boss e killer corleonese Leoluca Bagarella, allora ancora latitante.
Era il 1979, e da quella scoperta sarebbe scaturita un'inchiesta giudiziaria che di lì a breve venne seguita dall'omicidio di Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile.
In questi giorni, la via Pecori Giraldi è tornata al centro delle attenzioni per un'altra morte, diversa da quella di Giuliano, ma anch'essa destinata a raccontare una storia assai amara e molto palermitana: quella di Giovanni Giancarlo Lo Porto, il cooperante di Brancaccio ucciso "per errore" nel gennaio scorso da un drone americano in Pakistan.
Lo Porto abitava appunto in via Pecori Giraldi, dove adesso familiari ed amici attendono di sapere se potranno celebrare un funerale con i suoi resti.
Il senso morale della morte di Giovanni Giancarlo Lo Porto - oltre all'evidenza delle perplessità e delle ambiguità sollevate del tragico evento, da un punto di vista militare, diplomatico e politico ( vedi pure l'assenza di massa dei parlamentari durante il dibattito in aula del ministro Gentiloni )  - è stato indicato da un bellissimo articolo di Francesco Merlo apparso oggi su 'la Repubblica'.
Lo scritto del giornalista catanese è ricco di "pietas" e di una consapevole fierezza che, senza retorica, affermano una verità incontestabile sulla morte di Lo Porto e su una parte della storia siciliana degli ultimi anni:

"... Lo Porto era era figlio della Sicilia più criminale, con quattro fratelli maschi che a Brancaccio ancora oggi si arrangiano come possono.
Ebbene a 18 anni Giancarlo emigrò perché, come tutti i siciliani che sono in fuga senza fine, aveva deciso di riconvertire la disperazione in un coraggio, ma disciplinato.
E in un'università inglese trasformò in scienza della solidarietà l'energia da rodomonte che è tipica del suo quartiere-universo.
E' infatti molto siciliano l'impulso di salvare, di assistere, di aiutare, roba da comunità e non da società come insegnavano già nei primi del Novecento i positivisti: l'economia del vicolo come valore.
Lo dico con fierezza: la generosità è un umore dell'isola, è l'accoglienza degli immigrati nelle case dei lampedusani che lasciano le porte sempre aperte, è l'abbattimento dei confini etnici forse per una sorta di fusione naturale tra disintegrati.
Ed è anche siciliano Ignazio Scaravilli, il medico di 70 anni che è stato rapito in Libia il 6 gennaio e di cui non si sa più nulla.
E' di Enna Fabrizio Pulvirenti di Emergency, che si è ammalato di ebola ed è riuscito a guarire.
Tra i cooperanti sono moltissimi i meridionali che, soprattutto nei Paesi del Mediterraneo, ritrovano il codice del Sud d'italia, dal familismo alla vischiosità dei rapporti sociali, e poi il cibo, i paesaggi, la violenza, l'aria strafottente e affascinante della sfida alla vita...
Ed era di Catania Fabrizio Quattrocchi, quello di 'vi faccio vedere come muore un italiano'.
Ha ragione il sindaco Leoluca Orlando a prevedere un grande funerale di popolo: lutto cittadino, veli neri, lacrime, la verità della disperazione, una bara vuota portata in braccio, l'ultima emozione per una morte che senza corpo, a Palermo, non ha dignità di morte, ma è solo un mistero della tecnologia.
Morire di drone è come sparire dentro un pilone di cemento, come dissolversi nelle vasche dell'acido, andarsene con la lupara bianca.
E per giunta qui il 'drone' è pure "amico".
Ecco l'amaro miele di Gesualdo Bufalino: il lutto senza la luce."  


    

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