Un articolo di Attilio Bolzoni ed una pagina di Domenico Novacco fanno la storia della prima attestazione del termine, utilizzato nel 1865 da un delegato di polizia a Carini
Difficilissimo esercizio, per studiosi e storici di vicende siciliane, risalire alle origini filologiche ed alle prime attestazioni dei termini "mafia" e "mafiosi" nella pubblicistica e nei documenti ufficiali.
Il pensiero corre subito al boss letterario di Leonardo Sciascia che nel racconto "Filologia" ( "Il mare colore del vino", Einaudi, 1973 ) così metteva in guardia un "picciotto" sull'etimologia della parola "mafia":
"Questa è poi una di quelle parole su cui si possono dire le più diverse fesserie; fesserie dotte, che hanno tutte una loro logica..."
All'insidioso esercizio filologico si è sottoposto anche il giornalista Attilio Bolzoni, in un reportage pubblicato dal quotidiano "la Repubblica" lo scorso 19 aprile, dal titolo "La parola Mafia".
Scrive Bolzoni:
"E' la parola italiana più famosa al mondo. Più di pizza, più di spaghetti. Presente in tutti i dizionari e nelle enciclopedie di ogni Paese, di etimologia incerta - deriva da 'maha^fat^', espressione araba che vuol dire immunità? Da un antico termine toscano che indicava ostentazione e boria? - fino al secondo dopoguerra si scriveva e si pronunciava con due 'effe'..."
L'articolo di Attilio Bolzoni - cronista fra i più addentro alle cronache siciliane di mafia degli ultimi decenni - è tuttavia più interessante e offre al lettore maggiori certezze per l'indicazione relativa alla prima attestazione storica del termine "mafia" in un documento dello Stato:
"Un fascicolo prefettizio non ha mai fatto la storia, però quello che il marchese Filippo Antonio Gualterio ha inviato al ministro dell'Interno del Regno Giovanni Lanza si è rivelato un segnatempo decisamente importante: indica la data esatta di quando la Mafia ha cominciato a chiamarsi Mafia. Centocinquanta anni fa. Documento con tanto di bollo e stampa con croce sabauda, viva il Re e viva l'Italia. Era il 25 aprile del 1865...
Fu solo il Prefetto di Palermo, il marchese Gualtiero, in quella primavera del 1865 - Garibaldi era sbarcato a Marsala appena cinque anni prima - ad avvisare 'di un grave e prolungato malinteso fra il Paese e l'Autorità', annunciando il pericolo che la 'cosiddetta Maffia od associazione malandrinesca potesse crescere in audacia, e che, d'altra parte, il Governo si trovasse senza la debita autorità morale per chiedere il necessario appoggio alla numerosa classe di cittadini più influenti per senso di autorità...'
Già nel 1963 - anno di istituzione della Commissione Parlamentare Antimafia - lo storico e saggista catanese Domenico Novacco aveva ricordato con qualche indicazione più precisa quel documento rivelatore di Filippo Antonio Gualterio.
Nell'utilizzare il termine "mafia", il prefetto di Palermo tuttavia non fece altro che utilizzare una denominazione contenuta in un rapporto di un delegato di polizia ( rimasto senza nome ) allora in servizio a Carini, nel palermitano:
"Il primo funzionario che, in un rapporto amministrativo, usò il termine 'mafia' per indicare la malavita fu il prefetto di Palermo Filippo Gualterio, nel 1865.
Difficilissimo esercizio, per studiosi e storici di vicende siciliane, risalire alle origini filologiche ed alle prime attestazioni dei termini "mafia" e "mafiosi" nella pubblicistica e nei documenti ufficiali.
Il pensiero corre subito al boss letterario di Leonardo Sciascia che nel racconto "Filologia" ( "Il mare colore del vino", Einaudi, 1973 ) così metteva in guardia un "picciotto" sull'etimologia della parola "mafia":
"Questa è poi una di quelle parole su cui si possono dire le più diverse fesserie; fesserie dotte, che hanno tutte una loro logica..."
All'insidioso esercizio filologico si è sottoposto anche il giornalista Attilio Bolzoni, in un reportage pubblicato dal quotidiano "la Repubblica" lo scorso 19 aprile, dal titolo "La parola Mafia".
Scrive Bolzoni:
"E' la parola italiana più famosa al mondo. Più di pizza, più di spaghetti. Presente in tutti i dizionari e nelle enciclopedie di ogni Paese, di etimologia incerta - deriva da 'maha^fat^', espressione araba che vuol dire immunità? Da un antico termine toscano che indicava ostentazione e boria? - fino al secondo dopoguerra si scriveva e si pronunciava con due 'effe'..."
L'articolo di Attilio Bolzoni - cronista fra i più addentro alle cronache siciliane di mafia degli ultimi decenni - è tuttavia più interessante e offre al lettore maggiori certezze per l'indicazione relativa alla prima attestazione storica del termine "mafia" in un documento dello Stato:
"Un fascicolo prefettizio non ha mai fatto la storia, però quello che il marchese Filippo Antonio Gualterio ha inviato al ministro dell'Interno del Regno Giovanni Lanza si è rivelato un segnatempo decisamente importante: indica la data esatta di quando la Mafia ha cominciato a chiamarsi Mafia. Centocinquanta anni fa. Documento con tanto di bollo e stampa con croce sabauda, viva il Re e viva l'Italia. Era il 25 aprile del 1865...
Fu solo il Prefetto di Palermo, il marchese Gualtiero, in quella primavera del 1865 - Garibaldi era sbarcato a Marsala appena cinque anni prima - ad avvisare 'di un grave e prolungato malinteso fra il Paese e l'Autorità', annunciando il pericolo che la 'cosiddetta Maffia od associazione malandrinesca potesse crescere in audacia, e che, d'altra parte, il Governo si trovasse senza la debita autorità morale per chiedere il necessario appoggio alla numerosa classe di cittadini più influenti per senso di autorità...'
Un ritratto di Filippo Antonio Gualterio, orvietano e prefetto a Palermo tra il marzo del 1865 e l'aprile del 1866. In una sua relazione inviata al ministero dell'Interno e basata su un rapporto di un delegato di polizia a Carini si utilizzò per la prima volta in un documento ufficiale il termine "mafia". L'immagine è tratta da http://www.senato.it/home |
Già nel 1963 - anno di istituzione della Commissione Parlamentare Antimafia - lo storico e saggista catanese Domenico Novacco aveva ricordato con qualche indicazione più precisa quel documento rivelatore di Filippo Antonio Gualterio.
Nell'utilizzare il termine "mafia", il prefetto di Palermo tuttavia non fece altro che utilizzare una denominazione contenuta in un rapporto di un delegato di polizia ( rimasto senza nome ) allora in servizio a Carini, nel palermitano:
"Il primo funzionario che, in un rapporto amministrativo, usò il termine 'mafia' per indicare la malavita fu il prefetto di Palermo Filippo Gualterio, nel 1865.
A lui - scrisse Novacco in "Inchiesta sulla mafia" ( Feltrinelli, 1963 )- era pervenuta dal delegato di pubblica sicurezza di Carini, una memoria, in data 10 agosto 1865, in cui, a proposito di alcuni arrestati, si avanzava la specifica accusa di mafia.
E così il termine rimbalzò fin sul tavolo del ministro degli Interni.
In quell'anno e nei successivi la mafia fece una timida comparsa nei rapporti dei funzionari locali: ma ancora non si distingueva in alcun modo mafioso da manutengolo e da malandrino.
Non si era ancora capito che, se il fuorilegge era l'eccezione, la mafia era la regola, se il fuorilegge era il braccio, la mafia era il tessuto connettivo solido e profondo.
Solo lentamente il termine, che pure esisteva nel dialetto locale ma in un significato diverso, prese a indicare chi, al di fuori delle autorità costituite, ma non necessariamente in lotta con esse, opponeva la solidarietà degli 'uomini di panza' ( capaci cioè di mantenere un segreto ) alle leggi dello Stato..."
Due anni prima del rapporto del prefetto Gualterio - nel 1863 - il termine "mafia" aveva già conosciuto notorietà a Palermo grazie alla celebre rappresentazione teatrale "I mafiusi di la Vicaria", del capocomico Giuseppe Rizzotto e del suggeritore Gaspare Mosca.
Ispiratore di Rizzotto e Mosca fu tale Iachino detto Funciazza, gestore di una malfamata taverna nell'attuale zona di piazza Indipendenza, archetipo dei successivi e più noti mafiosi di rango della zona di Porta Nuova.
Nel 1962, il magistrato e saggista palermitano Giuseppe Guido Loschiavo avrebbe invece così fissato nel 1860 l'inizio del corrente utilizzo dei termini "mafia" e "mafiosi":
"Il vocabolo 'mafioso', cioè di appartenente alla 'mafia' - si legge in "100 anni di mafia", edito da Vito Bianco Editore - cominciò ad essere espresso e conosciuto dopo l'entrata di Garibaldi a Palermo ( 27 maggio 1860 ), dopo che erano stati riconosciuti benemeriti della causa nazionale quei 'picciotti' e quelle 'bonache', i più appartenenti alla 'società di uomini d'onore', che custodivano le terre proprio di quei tali nobili, che avevano sollecitato la caduta del regno borbonico.
Gli appartenenti alla 'società degli uomini d'onore', e per essere precisi alla 'società', non erano stinchi di santo: erano della razza di quel tale capraio, 'u zu Piddu Rantieri' dei moti del 4 aprile 1860, cioè gente coraggiosa, spericolata, che l'amicizia anteponevano ai vincoli di parentela e per i quali la 'parola', la 'promessa', valeva più di un atto scritto...
Nel 1854, pur essendovi notizia del movimento clandestino anti borbonico, pur non ignorandosi che la tutela della proprietà terriera ( latifondo e feudi ) era affidata a particolari gruppi di custodi, guardiani, fra loro associati, non si usavano i vocaboli 'mafia' e 'mafiosi': tutto al più si indicavano quei gruppi come gli 'uomini' di un determinato autorevole personaggio ( per esempio 'dello zio Piddu Rantieri' ) ovvero di una determinata località o comune ( per esempio, gli 'uomini', sottinteso 'd'onore', di Boccadifalco, di Resuttana Colli ( borgate di Palermo ), di Monreale, di Misilmeri, ecc. )..."
In tema di "mafia" e "mafiosi", infine, piace a ReportageSicilia ricordare una delle più note considerazioni espresse da Giovanni Falcone:
"La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi una fine"
Ad oltre vent'anni dalla strage di Capaci, la previsione di Falcone induce a pensare che i tempi di estinzione della mafia e dei mafiosi siano ancora molto lontani.
Servirebbe una mobilitazione civile dei siciliani, in grado di far cambiare le logiche di gestione del potere politico e della burocrazia, così da annullare ogni possibilità di ingerenza criminale nell'amministrazione della cosa pubblica; e servirebbe pure una gestione delle attività economiche libera dall'imposizione del pizzo e nella scelta di fornitori e collaboratori, e scuole capaci di formare con lo studio e nell'etica i futuri cittadini dell'isola.
L'attesa di tutto questo - e di molte altre opportunità di crescita sociale - appare ancora lunga, e poco confortata da un altra considerazione lasciataci ancora da Falcone:
"La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano.
Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società.
Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione"
Due anni prima del rapporto del prefetto Gualterio - nel 1863 - il termine "mafia" aveva già conosciuto notorietà a Palermo grazie alla celebre rappresentazione teatrale "I mafiusi di la Vicaria", del capocomico Giuseppe Rizzotto e del suggeritore Gaspare Mosca.
Ispiratore di Rizzotto e Mosca fu tale Iachino detto Funciazza, gestore di una malfamata taverna nell'attuale zona di piazza Indipendenza, archetipo dei successivi e più noti mafiosi di rango della zona di Porta Nuova.
Nel 1962, il magistrato e saggista palermitano Giuseppe Guido Loschiavo avrebbe invece così fissato nel 1860 l'inizio del corrente utilizzo dei termini "mafia" e "mafiosi":
"Il vocabolo 'mafioso', cioè di appartenente alla 'mafia' - si legge in "100 anni di mafia", edito da Vito Bianco Editore - cominciò ad essere espresso e conosciuto dopo l'entrata di Garibaldi a Palermo ( 27 maggio 1860 ), dopo che erano stati riconosciuti benemeriti della causa nazionale quei 'picciotti' e quelle 'bonache', i più appartenenti alla 'società di uomini d'onore', che custodivano le terre proprio di quei tali nobili, che avevano sollecitato la caduta del regno borbonico.
Gli appartenenti alla 'società degli uomini d'onore', e per essere precisi alla 'società', non erano stinchi di santo: erano della razza di quel tale capraio, 'u zu Piddu Rantieri' dei moti del 4 aprile 1860, cioè gente coraggiosa, spericolata, che l'amicizia anteponevano ai vincoli di parentela e per i quali la 'parola', la 'promessa', valeva più di un atto scritto...
Donne a lutto per la morte del boss Calogero Vizzini, a Villalba, nel luglio del 1954. La fotografia è tratta dal saggio di Michele Pantaleone "Il sasso in bocca", edito da Cappelli nel 1970 |
Nel 1854, pur essendovi notizia del movimento clandestino anti borbonico, pur non ignorandosi che la tutela della proprietà terriera ( latifondo e feudi ) era affidata a particolari gruppi di custodi, guardiani, fra loro associati, non si usavano i vocaboli 'mafia' e 'mafiosi': tutto al più si indicavano quei gruppi come gli 'uomini' di un determinato autorevole personaggio ( per esempio 'dello zio Piddu Rantieri' ) ovvero di una determinata località o comune ( per esempio, gli 'uomini', sottinteso 'd'onore', di Boccadifalco, di Resuttana Colli ( borgate di Palermo ), di Monreale, di Misilmeri, ecc. )..."
In tema di "mafia" e "mafiosi", infine, piace a ReportageSicilia ricordare una delle più note considerazioni espresse da Giovanni Falcone:
"La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi una fine"
Ad oltre vent'anni dalla strage di Capaci, la previsione di Falcone induce a pensare che i tempi di estinzione della mafia e dei mafiosi siano ancora molto lontani.
Servirebbe una mobilitazione civile dei siciliani, in grado di far cambiare le logiche di gestione del potere politico e della burocrazia, così da annullare ogni possibilità di ingerenza criminale nell'amministrazione della cosa pubblica; e servirebbe pure una gestione delle attività economiche libera dall'imposizione del pizzo e nella scelta di fornitori e collaboratori, e scuole capaci di formare con lo studio e nell'etica i futuri cittadini dell'isola.
Una conferenza stampa di Giovanni Falcone a Palermo. La fotografia è di Mike Palazzotto ed è tratta dal libro di Giovanni Falcone e Marcelle Padovani "Cose di Cosa Nostra" edito da Rizzoli nel 1991 |
L'attesa di tutto questo - e di molte altre opportunità di crescita sociale - appare ancora lunga, e poco confortata da un altra considerazione lasciataci ancora da Falcone:
"La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano.
Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società.
Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione"
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