La descrizione di una giornata di lavoro in un oliveto in una pagina del 1962 dello studioso di tradizioni popolari Aurelio Rigoli
Nelle scorse settimane, la guida "Oli d'Italia 2015" del Gambero Rosso ha premiato con tre foglie e due foglie rosse ben 21 oli siciliani: un record a livello nazionale, a conferma delle potenzialità di un settore agricolo sviluppatosi oltre 2500 anni fa con la fondazione delle prime colonie greche.
Secoli dopo, Lucio Giunio Moderato Columella - scrittore latino del I secolo d.C - nell'opera "De re rustica" scriveva che in Sicilia era diffusa una pietanza realizzata con un pesto di olive arricchito da armi e sale, la 'sampsa' ( un termine che secoli dopo si sarebbe trasformato in 'sansa', ad indicare i residui della spremitura dell'olio ).
Certo, rispetto al passato, i processi di meccanizzazione hanno soppiantato nell'isola il lavoro del "carramaturi" del "cutulaturi" e del "cugghiuturi" ( gli abbacchiatori ed il raccoglitore delle olive ), o fatto perdere l'uso di motti contadini come "l'oliva, quantu cchiù penni, tantu cchiù renni".
Sino a qualche decennio fa, in alcune aree della Sicilia era ancora possibile assistere alla raccolta manuale delle olive, dalle foglie minute e chiare: un lavoro assai faticoso, tramandato per generazioni e che conservava i tratti secolari di un rito cui prendevano parte intere famiglie, senza esclusione di sesso e di età.
Nel 1962, lo studioso palermitano di tradizioni popolari Aurelio Rigoli - già allievo di Giuseppe Cocchiara ed in seguito fondatore del Centro Internazionale di Etnostoria - così descrisse questa attività agricola:
"Scendono rigogliosi gli olivi d'argento verso il mare; sono grandi, ricchi di rami, solidi come costruzioni di pietra, antichi.
Raccolta delle olive nelle campagne palermitane. L'immagine è di Publifoto ed è tratta dal I volume dell'opera "Sicilia" edita nel 1962 da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini |
Secoli dopo, Lucio Giunio Moderato Columella - scrittore latino del I secolo d.C - nell'opera "De re rustica" scriveva che in Sicilia era diffusa una pietanza realizzata con un pesto di olive arricchito da armi e sale, la 'sampsa' ( un termine che secoli dopo si sarebbe trasformato in 'sansa', ad indicare i residui della spremitura dell'olio ).
Certo, rispetto al passato, i processi di meccanizzazione hanno soppiantato nell'isola il lavoro del "carramaturi" del "cutulaturi" e del "cugghiuturi" ( gli abbacchiatori ed il raccoglitore delle olive ), o fatto perdere l'uso di motti contadini come "l'oliva, quantu cchiù penni, tantu cchiù renni".
Sino a qualche decennio fa, in alcune aree della Sicilia era ancora possibile assistere alla raccolta manuale delle olive, dalle foglie minute e chiare: un lavoro assai faticoso, tramandato per generazioni e che conservava i tratti secolari di un rito cui prendevano parte intere famiglie, senza esclusione di sesso e di età.
Un ulivo secolare della Valle dei Templi, ad Agrigento. La fotografia è firmata Stefani e venne pubblicata nel II volume dell'opera "Sicilia" edita da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini |
Nel 1962, lo studioso palermitano di tradizioni popolari Aurelio Rigoli - già allievo di Giuseppe Cocchiara ed in seguito fondatore del Centro Internazionale di Etnostoria - così descrisse questa attività agricola:
"Scendono rigogliosi gli olivi d'argento verso il mare; sono grandi, ricchi di rami, solidi come costruzioni di pietra, antichi.
Così antichi che il contadino, forse rievocando i remoti sbarchi di flotte orientali, li fa risalire all'epoca dei saraceni, fino a chiamare ogni grande olivo, più brevemente, 'saracinu' o 'saracinescu'.
Tanto più 'saracinu' sarà l'olivo, tanto più abbondante la sua produzione, come vuole il proverbio 'olivari di tò nannu...' ( piantati dal nonno ).
E con i sereni di aprile, comincia l'ansioso spiare, tra le fronde annose, della prima fioritura; se la pianta fiorisce ad aprile, infatti, ricco sarà il raccolto, meno ricco se in maggio, scarsissimo se in giugno:
'Si l'olivuzza sbuccia 'ntr'aprili, basta pri cogghirla cu lu varrili; s'a maju affaccianu li buttunedda, basta pri jinchiri 'na misuredda; mi si ritarda pri sinu a giugnu, jirrai cugghiènnulla a pugnu a pugnu'
Ed eccoci alle giornate di raccolta.
Dall'alba al tramonto, l'oliveto si trasforma in una grande nave con uomini indaffarati in coperta arrampicati sugli alberi, sulle coffe; l'immagine non sembri troppo forzosa; tanto è ancora viva la natura marinara sotto le vesti del contadino che il gruppo delle donne, dei fanciulli, dei pescatori addetti a raccogliere le olive, viene chiamato 'ciurma'.
Sull'olivo intanto l'abbacchiatore, detto 'carramaturo' o 'scutulaturu' a seconda che bacchi o scuota i rami, procura lavoro alla ciurma: poetica è l'immagine popolare per questa distinzione dei due tipi di lavoro, l'uno frenetico e l'altro invece calmo:
'A l'olivi un pazzu a la testa e un saviu a li piedi'
Tutte le manovre sulla grande nave sono sincronizzate e regolate da leggi e abitudini severe, e presiedute da un contadino nel ruolo di capitano.
A ogni albero viene destinata una ciurma di nove donne: una di esse, si fa un ampio segno di croce, un'altra, di rimando, grida a voce spiegata:
'In nome di Dio!
e la raccolta comincia.
Sono queste donne della ciurma a rompere la solennità del lavoro, a incidere il tempo con canti, filastrocche, bisbigli, invenzioni.
E queste variazioni femminili, attese dagli uomini con segreto divertimento, si intonano all'umore del capitano e del padrone del podere che vengono spiati via via che il lavoro prende il suo ritmo.
Sarà la più giovane e la più vivace a spiegare la voce in una prima cantilena nella quale confluiranno a una a una le voci delle ciurme che coronano gli alberi, finché tutto l'oliveto vibra del nostalgico canto d'amore:
'O chi bedda jurnata ch'agghiurnau! Spuntò li suli, sè ludata Diu! Gesuzzu pi la strata l'ascuntrau, mi calò la tistuzza e mi ridiu.
La rosa ch'avia 'n pettu mi dunau, "Teniti chista pi l'amuri miu". Non fu rosa no no chi mi dunau, ma fu l'armuzza ch'haju a dari a Diu'
E la tristezza sembra davvero calare dagli animi: panieri, cofani son pieni, le ragazze se li caricano sulla treccia d'erba in bilico sul capo.
A Cefalù, le olive vengono riunite in una celletta scavata nel terreno e dalle pareti intonacate, detta 'zarbu'.
Le olive, seminate di sale e pigiate compatte a forza di calcagni, conservano così tutti gli umori e i profumi dell'albero; dolci e saporose si usa mandarle in regalo agli amici.
Ma torniamo sulla nave; il lavoro procede con ordine e alacrità e tra albero e albero si accende la famosa gara di canto detta 'stagghiari li canzuni'.
Uomini e donne, da sopra e sotto l'olivo, intonano la prima strofa di una canzone; dall'olivo accanto si dovrà immediatamente cantarne il resto e iniziarne una nuova che verrà terminata dai primi concorrenti.
Così di ramo in mano partono a voce spiegata le sfide canore, modulate da voci diverse, maschili e femminili, vicine e lontane, tanto che l'oliveto pare a un tratto il palcoscenico di un'opera al momento della scena corale.
La maestria sta nel nell'intonare canzoni sempre più difficili in modo da mettere in imbarazzo gli avversari.
Sul mezzogiorno, l'ombra dei rami si anima di un nuova ricerca tra l'erba; si cercano fagotti, panieri, fiaschi.
E' l'ora del ristoro, accolta con gioia dai contadini e con un certo malumore dal padrone che vede interrotto il prezioso lavoro.
Pane, cipolle, olive passe, vino formano il magro pasto, rinsanguato da una schietta allegria che si sbizzarrisce in scherzi, motteggi, battute di spirito, sarcasmi; i ragazzi intanto si lanciano in lotta accanita a rubarsi a vicenda le olive rimaste sugli alberi o nascoste tra gli interstizi delle zolle; la lotta è una sfida eccitante e dichiarata agli occhi arrabbiati, ma impotenti del padrone; infatti un'usanza agricola, assurta a legge per consuetudine, prescrive che non si possa proibire questo pseudo furto, detto del 'biscugghiari'.
E quando l'occhio del padrone comincia a guardare l'altezza del sole, preoccupato dal prolungarsi dell'intervallo, sarà la donna più anziana della ciurma a salvare diplomaticamente la situazione:
'Facemu presto, minamu le mani, facemu riccu lu nostru patruni...'
A sera, quando il sole incendia il mare e allunga incredibilmente in terra le ombre degli olivi, il capo dà il segnale di interruzione.
Gli annosi 'saracinu', dopo tanti ondeggiamenti, tornano immobili e ascoltano i patetici canti vespertini delle donne stanche della ciurma:
'Madonna ch'era àutu lu suli! Sant'Aiutuzza lu fici cuddari.
Amuninni, chè aura, sù patruni, quantu chiù prestu turnammu dumani. Havi di l'arba cchi semu a buccuni, li chiachi se li mancianu li cani'
'A l'olivi un pazzu a la testa e un saviu a li piedi'
Il contorto disegno dei tronchi degli ulivi. L'immagine è di Rudolf Pestalozzi, opera citata |
Tutte le manovre sulla grande nave sono sincronizzate e regolate da leggi e abitudini severe, e presiedute da un contadino nel ruolo di capitano.
A ogni albero viene destinata una ciurma di nove donne: una di esse, si fa un ampio segno di croce, un'altra, di rimando, grida a voce spiegata:
'In nome di Dio!
e la raccolta comincia.
Sono queste donne della ciurma a rompere la solennità del lavoro, a incidere il tempo con canti, filastrocche, bisbigli, invenzioni.
E queste variazioni femminili, attese dagli uomini con segreto divertimento, si intonano all'umore del capitano e del padrone del podere che vengono spiati via via che il lavoro prende il suo ritmo.
Sarà la più giovane e la più vivace a spiegare la voce in una prima cantilena nella quale confluiranno a una a una le voci delle ciurme che coronano gli alberi, finché tutto l'oliveto vibra del nostalgico canto d'amore:
'O chi bedda jurnata ch'agghiurnau! Spuntò li suli, sè ludata Diu! Gesuzzu pi la strata l'ascuntrau, mi calò la tistuzza e mi ridiu.
La rosa ch'avia 'n pettu mi dunau, "Teniti chista pi l'amuri miu". Non fu rosa no no chi mi dunau, ma fu l'armuzza ch'haju a dari a Diu'
E la tristezza sembra davvero calare dagli animi: panieri, cofani son pieni, le ragazze se li caricano sulla treccia d'erba in bilico sul capo.
A Cefalù, le olive vengono riunite in una celletta scavata nel terreno e dalle pareti intonacate, detta 'zarbu'.
Le olive, seminate di sale e pigiate compatte a forza di calcagni, conservano così tutti gli umori e i profumi dell'albero; dolci e saporose si usa mandarle in regalo agli amici.
Ma torniamo sulla nave; il lavoro procede con ordine e alacrità e tra albero e albero si accende la famosa gara di canto detta 'stagghiari li canzuni'.
Uomini e donne, da sopra e sotto l'olivo, intonano la prima strofa di una canzone; dall'olivo accanto si dovrà immediatamente cantarne il resto e iniziarne una nuova che verrà terminata dai primi concorrenti.
Ulivi sulle colline trapanesi nei pressi di capo San Vito. La fotografia di Patrice Molinard è tratta dall'opera "La Sicile", edita da Del Duca Paris nel 1957 |
Così di ramo in mano partono a voce spiegata le sfide canore, modulate da voci diverse, maschili e femminili, vicine e lontane, tanto che l'oliveto pare a un tratto il palcoscenico di un'opera al momento della scena corale.
La maestria sta nel nell'intonare canzoni sempre più difficili in modo da mettere in imbarazzo gli avversari.
Sul mezzogiorno, l'ombra dei rami si anima di un nuova ricerca tra l'erba; si cercano fagotti, panieri, fiaschi.
E' l'ora del ristoro, accolta con gioia dai contadini e con un certo malumore dal padrone che vede interrotto il prezioso lavoro.
Pane, cipolle, olive passe, vino formano il magro pasto, rinsanguato da una schietta allegria che si sbizzarrisce in scherzi, motteggi, battute di spirito, sarcasmi; i ragazzi intanto si lanciano in lotta accanita a rubarsi a vicenda le olive rimaste sugli alberi o nascoste tra gli interstizi delle zolle; la lotta è una sfida eccitante e dichiarata agli occhi arrabbiati, ma impotenti del padrone; infatti un'usanza agricola, assurta a legge per consuetudine, prescrive che non si possa proibire questo pseudo furto, detto del 'biscugghiari'.
E quando l'occhio del padrone comincia a guardare l'altezza del sole, preoccupato dal prolungarsi dell'intervallo, sarà la donna più anziana della ciurma a salvare diplomaticamente la situazione:
'Facemu presto, minamu le mani, facemu riccu lu nostru patruni...'
A sera, quando il sole incendia il mare e allunga incredibilmente in terra le ombre degli olivi, il capo dà il segnale di interruzione.
Gli annosi 'saracinu', dopo tanti ondeggiamenti, tornano immobili e ascoltano i patetici canti vespertini delle donne stanche della ciurma:
'Madonna ch'era àutu lu suli! Sant'Aiutuzza lu fici cuddari.
Amuninni, chè aura, sù patruni, quantu chiù prestu turnammu dumani. Havi di l'arba cchi semu a buccuni, li chiachi se li mancianu li cani'
"Olivo saraceno ad Agrigento" ( 1972 ), del pittore Piero Gauli. Il disegno è tratto dall'opera "Taccuino di Sicilia", edito da Edizioni Ghelfi nel 1975 |
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