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sabato 19 agosto 2017

IL SALMASTRO AVVELENATO DI PRIOLO E GELA

L'abbaglio dello sviluppo economico generato dall'industria petrolchimica in un reportage del TCI realizzato nel 1966 a Priolo e Gela


Lo scenario industriale siracusano a Priolo
in una delle fotografie che nell'ottobre del 1966
illustrarono su "le vie d'Italia"del TCI
un reportage del giornalista catanese Giovanni Centorbi
"Il desolante vuoto di zone depresse - quali Priolo nel siracusano e Gela - che furono condannate per secoli a vivere di grame risorse artigianali, è stato in gran parte colmato.
Dove un tempo era il deserto, oggi, grazie al sodalizio industriale fra siciliani e lombardi, si levano fabbriche enormi, serbatoi colossali, capolavori della fraternità e della buona fede fra Nord e Sud...
Per gli osservatori estranei al mondo della tecnica, più delle cifre e delle sigle può valere, testimonianza di una volontà che si esprime nei fatti, lo spettacolo offerto dal numero, dalla mole, dalla semplice e nitida bellezza degli stabilimenti, che danno a una frazione marittima di Siracusa - fino a pochi anni fa borgata di povera gente dedita alla pesca e alle saline - l'apparenza e l'effettivo prestigio di un moderno quartiere industriale..."

Con un ragionamento che, riletto oggi, appare ancora più ingenuo, il giornalista  e scrittore catanese Giovanni Centorbi pubblicò nell'ottobre del 1966 un reportage dedicato alle aree industriali di Priolo e Gela.


Una panoramica degli impianti di Priolo,
definita nella didascalia "borgata di povera gente
dedita alla pesca e alle saline ed oggi prestigioso e moderno
centro dell'industria"
L'articolo - apparso su "le vie d'Italia" del Touring Club Italiano con il titolo "Viaggio fra le industrie della Sicilia orientale" - illustrò l'avvio nell'Isola delle attività petrolifere e le loro ricadute economiche e sociali.
Il resoconto di Centorbi - illustrato dalle fotografie riproposte da ReportageSicilia - si inserisce il quel filone di articoli giornalistici che prendono nome di pubbliredazionali: pezzi scritti grazie alla collaborazione degli uffici stampa di enti o aziende ed in cui il cronista,  giocoforza, finisce col promuoverne acriticamente l'iniziativa o l'attività.
Nel reportage in questione, i gruppi EDISON, ANIC ed ENI venivano considerati come i salvifici promotori dello sviluppo occupazionale nell'Isola, grazie agli investimenti industriali favoriti dalla Cassa per il Mezzogiorno e dalla Regione.
All'epoca, le grandi società avevano trasformato la Sicilia in un terreno di conquista dei finanziamenti statali e regionali; allo scopo di agevolare questa pratica, nel 1953 venne fondato l'Istituto Regionale Finanziamento Industrie Siciliane ( IRFIS ). 
Le leggi approvate a Palermo portarono così nel 1954 ben 56 compagnie italiane e straniere a bucare il territorio isolano alla ricerca di petrolio: un'attività propedeutica alla creazione di poli industriali dedicati alla raffinazione e lavorazione del greggio.
La creazione di giganteschi impianti - favorita anche dalle politiche degli incentivi economici e degli sgravi finanziari - cambiarono così in pochi anni il volto di intere aree della Sicilia.


Un impressionante groviglio di tubi metallici
nel complesso siracusano
comprendente fabbriche di fertilizzanti,
petrolchimici e chimici, una centrale termoelettrica
e una stazione di pompaggio dell'acqua marina
A determinare quella "colonizzazione" da parte della grande industria, fu, ovviamente la politica regionale, spesso subalterna alle indicazioni provenienti da Roma e dalle lobby finanziarie italiane e straniere.

"Alla fine del 1955 - ha scritto a questo proposito Matteo G.Tocco in "Libro nero di Sicilia" ( Sugar Editore, 1972 ) - l'ENI si decideva ad aprire un discorso concreto con la Regione Siciliana, dicendosi disposto ad assumere un impegno di spesa di 8 miliardi e 85 milioni di lire, ripartiti in nove anni; ma il 75 per cento circa dell'investimento previsto avrebbe dovuto essere assicurato dalla Cassa del mezzogiorno attraverso la IRFIS, e dalla Regione Siciliana attraverso una società finanziaria da costituire in attuazione di una nuova legge di incentivazione industriale.
I protagonisti della battaglia siciliana del petrolio furono, in quell'arco di tempo a cavallo della seconda legislatura siciliana, L'ENI, la Montecatini, la Gulf Corp.
Ognuno di questi gruppi aveva i suoi amici all'interno dell'Assemblea Regionale Siciliana: la nuova legge per l'industrializzazione siciliana doveva essere combattuta principalmente da questi tre gruppi"


Petroliera attraccata ad un pontile di Priolo.
La didascalia spiegava che
"gli idrocarburi arrivano allo stato grezzo,
riprendono poi le rotte verso l'Oriente per essere restituite
ai luoghi di origine come prodotti raffinati"
Così, sulle pagine de "le vie d'Italia", Giovanni Centorbi descrisse con prosa celebrativa il rinnovato scenario di Priolo e Gela: luoghi fino ad allora consegnati al secolare paesaggio di una Sicilia rurale ed ora investiti da un convulso progresso tecnologico:

"In un colpo d'occhio - si legge nell'articolo - abbiamo nell'insieme volumetrico degli impianti, delle cisterne, dei pontili all'attracco di navi da carico, un quadro immediato di opere che sembrano nate quasi per virtù di prodigio: opere di ferro e d'acciaio che fanno la storia, dopo la lunga lotta degli uomini contro la natura, nella quale ogni risorsa - la scienza, il talento, la manodopera, i capitali - è stata prodigata coraggiosamente, in uno sforzo comune che impegnava i dirigenti e anche gli ex-zolfatari divenuti operai dell'industria"

A Priolo Gargallo, tra Augusta e Siracusa, il primo nucleo abitato  nacque nel 1813, per volontà del barone Tommaso Gargallo.
Le 36 famiglie residenti vivevano allora di agricoltura e di pesca.
La zona era ricca di agrumeti - in contrada Girotta - e di uliveti, in quelle denominate Fico e Bondifè; per un certo periodo, i Gargallo tentarono pure di coltivare senza grande successo il cotone.
Durante il periodo della prima guerra mondiale, gli eredi del barone decisero di versare 25 lire mensili alle famiglie di tutti i priolesi chiamati alle armi: iniziativa inconsueta nella storia dei rapporti fra proprietari terrieri e contadini nell'Isola.


Una veduta panoramica degli stabilimenti a Gela
Il futuro di Priolo fu segnato nel 1949, quando Angelo Moratti impiantò una piccola raffineria con materiali dismessi provenienti dal Texas destinati alla fabbricazione di modeste quantità di benzina.
La scelta dell'area del siracusano non fu casuale, rispondendo ad una serie di parametri di convenienza economica.
Come ha scritto Giuseppe Gestivo in "Sottosviluppo e lotte popolari in Sicilia , 1943-1974" ( Pellegrini, 1976 ), citando l'opera della francese Renèe Rochefort "Le travail en Sicile" ( 1961 ):


"Si trovano geograficamente concentrati nel territorio da Siracusa ad Augusta una piana litorale accogliente per le fabbriche, la strada ferrata, abbondanza di sorgenti, grandezza della baia di Augusta, prossimità dello zolfo, della potassa, del sale, dello stesso petrolio siciliano; e ancora, posizione favorevolmente rivolta sia ai mercati dei Paesi sviluppati che a quelli dei Paesi produttori di petrolio che si affacciano sul Mediterraneo, tradizioni umane di popolazioni laboriose con relativa offerta di manodopera abbondante.
E' quindi in tutta lucidità che la grande industria chimica ha deciso di venire qui a prendere partito dei favori che la Regione siciliana offriva agli industriali"

Gli impianti di Priolo furono poi ceduti da Moratti alla RASIOM, in seguito entrata a far parte della Standard Oil Company ESSO: la progressiva crescita dell'area petrolchimica cambiò per sempre il destino dei suoi abitanti.
Per venire incontro all'esigenza di costruire i nuovi edifici industriali, un'ordinanza prefettizia dispose l'esproprio degli agrumeti e degli uliveti delle contrade Girotta, Fico e Bonfidè.
Altre grandi estensioni di terreno agricolo furono acquistate a prezzi irrisori. 
Per centinaia di contadini e braccianti - abbandonati aratri ed altri arcaici strumenti agricoli - si aprì la caccia al posto di lavoro all'interno degli stabilimenti; non mancarono neppure i "piazzisti" del posto nella fabbrica dei fertilizzanti, offerto alla cifra di 300.000 lire.


Le dune della spiaggia di Gela, e, sullo sfondo,
a due chilometri dalla costa,
la piattaforma petrolifera Scarabeo
Il vecchio impianto urbano di Priolo Gargallo - due assi viari che si incrociavano ad angolo retto, affiancati da case ad uno o due piani - venne stravolto da una disordinata opera di nuove costruzioni, demolizioni e soprelevazioni.
Il mercato degli affitti - favorito dall'afflusso della crescente classe operaia e degli impiegati - venne monopolizzato da piccoli speculatori; i proventi ( l'affitto medio mensile di una stanza ammontava a 15.000 lire ) vennero reinvestiti nella costruzione di altri alloggi.
Così, nel 1960 Priolo arrivò ad accogliere 10.000 abitanti, concentrati in un'edilizia di bassa qualità e con servizi precari.
L'altra faccia del boom edilizio - non in grado però di compensare gli squilibri sociali e territoriali - fu rappresentato dalla creazione di una farmacia, due cinema, una decina di bar, alcune pensioni,  due alberghi e tre banche.


La didascalia che illustrava questa fotografia
recitava: "Vecchio e nuovo a Gela", intendendo
l'inarrestabile corsa della tecnologia
in una zona della Sicilia tradizionalmente legata
all'agricoltura ed alla pastorizia
Le conseguenze ambientali della rivoluzione del petrolchimico a Priolo sono oggi tristemente note, grazie alle indagini della Procura di Siracusa che lo scorso giugno ha attestato la scarsa salubrità dell'aria.
Già nel 1990, l'area industriale ed urbana era stata definita ad alto rischio ambientale, per la presenza di idrocarburi nelle falde acquifere e di cadmio, cromo, nichel ed altre sostanze inquinanti e cancerogene nell'aria e nel sottosuolo.
In quel reportage del 1966, non compare alcuna previsione di ciò che stava accadendo a Priolo.
Descrivendo le attività della SINCAT - ( Società Industriale Catanese consociata con EDISON ) sorta a Priolo tra il 1954 ed il 1959 dopo l'acquisto di milioni di metri quadrati di agrumeto - Giovanni Centorbi così illustrava l'attività di produzione di fertilizzanti:  

"Una giornata di sosta alla SINCAT - tre milioni di metri quadrati coperti da edifici, impianti meccanici delle varie industrie, forni, capannoni per servizi recentemente ampliati - è un'esperienza d'interesse eccezionale.
Lungo strade e linee ferroviarie aziendali, per complessivi trenta e venticinque chilometri, percorsi in uno spazio arioso illuminato dalla luce che viene dal mare, nel sentore di salsedine che attenua le esalazioni di carburante, abbiamo raggiunto e visitato, nel pieno ritmo di una fase della lavorazione, le fabbriche dei fertilizzanti semplici e complessi, dei prodotti chimici e petrolchimici, i laboratori per gli sperimentatori della sezione agraria, il centro elettrocontabile, le potenti installazioni della centrale termoelettrica autonoma, che rende possibile una parziale e assai notevole indipendenza dalla fornitura di energia, per due milioni di kilowattora al giorno, che agli inizi dell'attività proveniva dalla centrale della Tifeo..."


Operai gelesi in uscita
dallo stabilimento dell'ANIC.
Scooter e motociclette
sanciscono l'inizio della società dei consumi
grazie ad un'economia
destinata a stravolgere il territorio
La SINCAT realizzava inizialmente il ciclo di realizzazione dall'olio minerale grezzo ai fertilizzanti; in seguito avrebbe prodotto benzina, gasolio, etilene, propilene ed altre sostanze ad alto tasso di inquinamento.
Eppure, dinanzi a tanta massiccia capacità di lavorazione di prodotti petroliferi, Centorbi notava quasi con una nota di colore che "il sentore di salsedine attenua le esalazioni di carburante".
All'epoca, insomma, le ragioni del vorticoso sviluppo industriale sembravano ignorare qualsiasi riserva di natura ambientale o ogni considerazione di tipo sociologico sullo sviluppo assegnato al territorio.
Anni dopo l'articolo pubblicato sul mensile del Touring Club ItalianoGiuseppe Fava avrebbe così spiegato l' incapacità di vedere oltre la minacciosa grandiosità degli impianti petrolchimici:
    
"La logica dell'impresa industriale - si legge in "I Siciliani" (  Cappelli editore, 1980 ) - allora era quella, né a quel tempo alcuno si chiedeva cosa sarebbe accaduto nel territorio, come tutto quell'arco marino si sarebbe popolato di mostri che avrebbero lottato accanitamente ognuno per cercare il proprio spazio, e il mare avrebbe cominciato lentamente a morire con i suoi pesci, e le campagne sarebbero diventate deserto, e l'aria intossicata di veleni che gli uomini sarebbero stati costretti a respirare ogni giorno.
In quel tempo tutto sembrava coincidere perfettamente, soprattutto la buona volontà: gli americani a vendere i loro rottami, gli italiani ad acquistarli per far fronte al disperato bisogno di combustibile, la popolazione a cedere tutta quella plaga deserta pur di avere una fonte di lavoro sempre più vasta e sicura, i pecorai e i contadini ad accettare un salario quotidiano definitivo e sufficiente comunque a sopravvivere.
Stava accadendo una cosa gigantesca che avrebbe stravolto tutto, l'economia, i commerci, la cultura, la salute, i sogni, le abitudini della vita, le speranze, e sarebbe stato necessario capire per tempo tutto questo e dare un ordine logico agli avvenimenti in modo da appagare gli uomini e tuttavia salvare il loro destino futuro dentro il territorio.
Ma c'erano fame, avidità, ignoranza, speculazione"

Nel resoconto pubblicato da "le vie d'Italia", Giovanni Centorbi raccontò pure la trasformazione industriale a Gela, altra realtà territoriale siciliana sconvolta dall'economia petrolchimica.
Anche in questo caso, l'entusiastica descrizione del giornalista dimostra l'incapacità di prevedere gli effetti a lungo termine della "lotta dell'uomo contro la natura"; vale a dire, scarichi aerei di fumi tossici, inquinamento del terreno e delle falde ed incremento tra le popolazione gelese di malformazioni genetiche e patologie tumorali:

"In un colpo d'occhio - da viaggiatori senza particolari attributi - abbiamo nell'insieme volumetrico degli impianti, delle cisterne, dei pontili all'attracco di navi da carico, un quadro immediato di opere che sembrano nate quasi per virtù di prodigio: opere di ferro e d'acciaio che fanno storia, dopo la lunga lotta degli uomini contro la natura, nella quale ogni risorsa - la scienza, il talento, la manodopera, i capitali - è stata prodigata coraggiosamente, in uno sforzo comune che impegnava a vincere i dirigenti e anche gli ex zolfatari divenuti operai dell'industria..." 


Anche questa immagine puntava
ad evidenziare il contrasto gelese fra presente e passato
Ventotto anni il reportage di Centorbi, Vincenzo Consolo avrebbe consegnato alla letteratura il racconto di quell'infido miraggio di civiltà tecnologica a Gela:  

"Da quei pozzi, da quelle ciminiere sopra templi e necropoli, da quei sottosuoli d'ammassi di madrepore e di ossa, di tufi scanalati, cocci dipinti, dall'acropoli sul colle difesa da muraglie, dalla spiaggia aperta a ogni sbarco, dal secco paese povero e obliato partì il terremoto, lo sconvolgimento, partì l'inferno di oggi.
Nacque la Gela repentina e nuova della separazione tra i tecnici, i geologi e i contabili giunti da Metanopoli, chiusi nei lindi recinti coloniali, palme, pirosfori e buganvillee dietro le reti, guardie armate ai cancelli, e gli indigeni dell'edilizia selvaggia e abusiva, delle case di mattoni e tondini lebbrosi in mezzo al fango e l'immondizia di quartieri incatastati, di strade innominate, la Gela dal mare grasso d'oli, dai frangiflutti di cemento, dal porto di navi incagliate nei fondali, inclinate sopra un fianco, isole di ruggini, di plastiche e di ratti; nacque la Gela della perdita d'ogni memoria e senso, del gelo della mente e dell'afasia, del linguaggio turpe della siringa e del coltello, della marmitta fragorosa e del tritolo..." 
( "L'olivo e l'olivastro", Mondadori )


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