Il miglior modo per scoprire la bellezza di Cefalù è rivedere le scene iniziali del film ‘A ciascuno il suo’, tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia e diretto da Elio Petri: le prime immagini scoprono dall’alto la brulla maestosità della rocca, al di sotto della quale si ergono i volumi perfetti della cattedrale normanna e, come gemme incastonate al suo perimetro, le piazze ed i vicoli ed i tetti di palazzi e palazzine del centro storico: un mosaico di vecchie tegole proteso verso il blu del Tirreno.
C’è da sottolineare che il film - protagonisti del quale furono Gian Maria Volontè ed Irene Papas - venne girato nel 1968; e che i paesaggi della Cefalù allora utilizzati per raccontare la tragica morte del professor Laurana sono da tempo scomparsi, soffocati dal cemento e dall’impeto viario e portuale che hanno squassato ettari di uliveti e lo scenario marino della Presidiana.
Svincoli autostradali, rotonde e strade che collegano il vecchio paese al nuovo centro urbano hanno ormai dissestato la bellezza del territorio; e pretenziose villette a schiera – vicinissime l’una all’altra, quasi che dalla cucina di una si possa accedere al bagno dell’altra – hanno cancellato per sempre la macchia mediterranea di contrade un tempo verdissime, come Ferla e Santa Lucia.
Che dire poi della spiaggia, sul lungomare del paese vecchio? Sino ad una trentina di anni fa l’erosione non l’aveva ancora ridotta in maniera drastica; vi si potevano liberamente osservare i paguri o grandi conchiglie portate dalla risacca. Oggi, quella stessa spiaggia – cui accedere solo dopo avere cercato a lungo un parcheggio a pagamento - è presa d’assalto dai bagnanti, come se si trovassero allo stabilimento ‘Aloha Beach’ di Riccione; sdraiati sui teli o sulle sdraio, la vista verso terra riserva una monotona sequenza di ristoranti turistici dai sapori amorfi.
Con il passare degli anni, insomma, anche Cefalù è diventata una “cittadina turistica”, dove il godimento del paesaggio e dell’opera dell’uomo – la cattedrale normanna od il lavatoio medievale, certo, ma anche certi scorci di vicoli o di vecchi portoni settecenteschi – è stata sostituita dal repertorio standardizzato di “beni e servizi” offerti per garantire il lucroso soggiorno di turisti giornalieri e comitive di stranieri.
Naturalmente, nessuno si sognerebbe di negare l’importanza di questa evoluzione per lo sviluppo economico cefaludese; ma è innegabile che il prezzo da pagare sia stato quello della perdita irreparabile dell’identità più autentica del paese, di quell’atmosfera così naturalmente affascinante che appunto ancora si percepisce nel film di Petri basato sul racconto sciasciano.
Cefalù, insomma, continua ad essere un luogo degno di una visita; ma più per chi non ne abbia mai conosciuto le sue residue attrattive – il duomo normanno ed i suoi mosaici, in primo luogo – che per chi l’abbia visitata ed amata negli decenni passati, tedeschi e francesi in primo luogo.
Cinquant’anni fa, Corrado Sofia poteva scrivere che “la città è frequentata da un buon numero di forestieri, molti dei quali, sentendosi i discendenti diretti dei Normanni, cugini o nipoti, girano per le strade e si siedono nei bar con assoluta padronanza e si muovono con l’aria di essere i protettori di questi luoghi; e sono proprio gli abitanti a dare loro questa sensazione di sicurezza”.
Una notazione sul turismo a Cefalù, infine, non può non rimandare alla storia del suo ‘Village Magic’, fondato pochi anni dopo il secondo dopoguerra da un gruppo di francesi in contrada Santa Lucia, sull’esempio di analoghi villaggi sorti in Grecia, Austria e le Baleari.
Nell’agosto del 1953, un reportage della rivista ‘Italia Mondo’, a firma di Gina Scaduto, lo descriveva come una tendopoli frequentata da “una grande famiglia, dove gente di tutti i Paesi si incontra, fa amicizia, vive in perfetta armonia e dove, sovente, ritorna per un richiamo irresistibile”: un richiamo che Cefalù ha perso da tempo, e che allontana da lei chi l’ha amata per il suo fascino oggi perduto.