Translate

domenica 14 aprile 2013

SICILIANDO













"Fu così che, sulla spiaggia di Oliveri, per la prima volta la Sicilia si offrì al nostro sguardo.
E fu qui che cominciammo a capire come non sia la bellezza e neanche la ricchezza naturale di un paese a fare il benessere dei suoi abitanti".
Aléxis di Tocqueville 

venerdì 12 aprile 2013

L'ORA DELLA BELLEZZA DI CEFALU'



La rocca di Cefalù lungo la strada statale 113,
nei pressi della spiaggia di Pollina.
Le fotografie del post sono di ReportageSicilia


Altre volte ReportageSicilia ha ospitato immagini di Cefalù, sempre con la pretesa – usando parole di Vincenzo Consolo riferite all’opera del fotografo Giuseppe Leone – di cogliere “ogni scintillio di bellezza, sopravvivenza, nell’Isola che svanisce, sprofonda ogni momento nell’oblio di sé, nell’insignificanza; alla ricerca dell’umanità più vera, della sua dimora, del suo paesaggio sempre più violato”.
Lo stesso Consolo ricordava – citando lo studioso cefaludese Steno Vazzana – che “l’ora classica della bellezza di Cefalù è l’ultima parte del giorno”.
Le fotografie presenti in questo post sono state scattate dall’autore di ReportageSicilia qualche mese fa; pur non vantando l’eccellente paternità di Giuseppe Leone, dimostrano che l’indicazione di Vazzana si offre come una felicissima intuizione.









giovedì 11 aprile 2013

L'OSTILE SICILIA DI PIERO CHIARA

Il paese nisseno di Vallelunga Pratameno,
in una fotografia di Josip Ciganovic pubblicata
nel I volume dell'opera "Sicilia",
edita nel 1962 da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini

Fu nel gennaio del 1965 che molti lettori scoprirono le origini siciliane dello scrittore lombardo Piero Chiara http://www.ilfestivaldelracconto.it/premiochiara/Amici_di_Piero_Chiara.asp.
L’autore de “Il piatto piange” e “La Spartizione”, nato nel 1913 a Luino, pubblicò in quei giorni “Con la faccia per terra”, libro autobiografico ambientato in Sicilia.
Quelle pagine erano state scritte perché Chiara aveva avuto il desiderio di tornare nell’isola dopo i precedenti ed ormai lontani viaggi compiuti insieme al padre; ed al solo scopo di “farla finita coi ricordi, per rimestarli, appesantirli, metterli in condizione di colare a fondo e di perdersi finalmente nel passato”.


L'edizione Vallecchi di "Con la faccia per terra", racconto autobiografico del ritorno di Piero Chiara in Sicilia.
Il padre dello scrittore di Luino era nato nel 1867 a Resuttano,
fra Palermo e Caltanissetta
Il libro venne pubblicato nel 1965
e fu oggetto anche di un articolo di Leonardo Sciascia
sul quotidiano "l'Ora".



L’isola aveva dato i natali allo scrittore almeno sin dalla metà del Settecento, quando un suo avo – Alessandro – aveva prestato servizio presso il barone Ghiribbò, sposandone la vedova ed acquisendone il patrimonio. Il padre di Piero si chiamava invece Eugenio, ed era nato nel 1867 a Resuttano, nelle campagne fra le province di Caltanissetta e Palermo. Dall’isola era andato via all’età di 20 anni, trasferendosi in Lombardia grazie al suo impiego alle Dogane.

Un paesaggio rurale delle campagne nissene
in una fotografia di André Martin.
L'immagine è tratta dall'opera di Danilo Dolci
"Spreco-Documenti e inchieste su alcuni aspetti dello spreco in Sicilia occidentale", edito nel 1960 da Einaudi

La pubblicazione di “Con la faccia per terra” – nel quale Resuttano prende il nome di Roccalimata e dove un arciprete si scaglia contro un nipote comunista al grido “debbo vedervi tutti quanti con la faccia per terra!” – incuriosì allora anche Leonardo Sciascia. Il 27 febbraio del 1965, lo scrittore agrigentino ne fece oggetto di un articolo sulle pagine del quotidiano palermitano “L’Ora”.
“Dal suo libro ora pubblicato – vi si legge – che appunto racconta le impressioni di almeno trent’anni addietro, raffrontate e verificate su quelle di un recente viaggio, qualche critico ha avuto sorpresa: poiché, a saperlo, forse avrebbe riconosciuto nei due precedenti libri qualche traccia di tali sue origini; e un riferimento all’eros brancatiano gli sarebbe venuto in taglio, specialmente riguardo alla “Spartizione” che davvero, a momenti, dà il senso che si svolga in un paese della Sicilia orientale invece che a Luino”.
Quindi Sciascia riassume il senso finale di quel ritorno dello scrittore nella terra degli avi:
“In Sicilia Chiara non si è per niente riconosciuto e ritrovato, non ha sentito né ancestrale afflato né vampate di consanguineità. E ha mandato a picco i ricordi senza remore e senza rimpianti. E questa è, in definitiva, la qualità migliore delle sue pagine. E dalla sua sincerità, dal suo assoluto distacco, dalla sua fuga ( “mentre già con gli occhi cercavo la fine dell’isola, la prima ombra del continente sul quale sarei passato quasi in fuga, ansioso di risalire l’Italia, fino al Lago Maggiore”) a noi pare di poter cavare motivi di riflessione”.

Lavorazione del letame per uso agricolo
nelle campagne della provincia di Caltanissetta.
Anche questa fotografia è firmata da André Martin
ed è stata tratta dalla citata opera di Dolci

ReportageSicilia ripropone alcune pagine del libro di Chiara – oggi di non facile ricerca – nella parte in cui lo scrittore descrive l’attraversamento dello Stretto di Messina per raggiungere i luoghi paterni.
E’ un ritorno in cui traspare una filigrana di indifferenza e di diffidenza – se non d’ostilità – verso un mondo che Chiara sente del tutto estraneo al suo essere solo “uomo del Nord”, estraneo all’immobile ambiente rurale siciliano.
Qualche anno dopo le pagine di Sciascia - nel 1972 - il critico Geno Pampaloni avrebbe riconosciuto nello scritto autobiografico di Chiara un "lieto esercizio dell'intelligenza"; e tuttavia, quella diffidenza e lontananza emotiva dall'isola di origine avrebbero spinto Pampaloni ad augurargli "una goccia di sangue più scuro", facendo delle contraddizioni isolane tesoro di vita e di scrittura.

L'ex convento dei Cappuccini nell'assolato silenzio
della montagna presso Petralia Soprana.
Anche questa fotografia di Josip Ciganovic
è tratta dal I volume dell'opera "Sicilia"


“Molte volta mi ero fatto il proposito di tornare in Sicilia, ma dovettero passare trent’anni, una lunga guerra, tutta la gioventù e qualche cosa ancora, prima che un’oziosa decisione, ormai quasi senza più scopo mi spingesse, contro il parere di mio padre e come un turista qualsiasi, a ridiscendere l’Italia.
Sono così apparso una sera di giugno sullo stretto, proveniente dal nord lungo la strada statale detta Jonica.
Avvistata l’isola, ho girato intorno alla punta dello stivale da Melito Porto Salvo a Villa San Giovanni, con la coda dell’occhio al mare dal quale sorgeva la Sicilia sempre più scura e accigliata man mano che usciva, come una nave in movimento, dal profilo della costa calabrese.
Era un forte rilievo cinereo sotto le nubi d’un temporale, al di là dello stretto agitato dal vento.
Una luce livida la tagliava dall’alto sul limite del mare, lungi i fianchi di aspre montagne. Solo dopo Reggio la vidi terminare nel mare aperto, nettamente divisa dal continente. Ma pareva che da quella terra circondata dal mare ostile non mi venisse alcun invito e che, girato il capo a Villa S.Giovanni, avrei fatto bene a voltarle le spalle e a tornarmene verso casa mia.
Invece a Villa S.Giovanni ho cercato il pontile d’imbarco dove una volta arrivavo col treno, e condotto dalle frecce e dalle indicazioni ho trovato il piazzale dove mettono il muso i ferribbotti.
Gente pratica diceva che due ferribbotti erano in panne e che non sarebbe stato facile passare lo stretto quella sera. Poi fu annunciato che si partiva, ma con una piccola nave. Più tardi si seppe che erano pronte due navi, una delle quali era l’ammiraglia dei ferribbotti, una grande nave-traghetto che portava le automobili sul ponte superiore.
Mentre guardavo la manovra dei treni che entravano e uscivano dalle navi, un mio vicino di automobile mi parlava del petrolio che c’era sul fondo del mare, del ponte dello stretto che si farà o non si farà e delle astuzie che intanto occorrevano per profittare della prima nave in partenza. Tra queste chiacchiere imbarcammo, salendo con le automobili all’altezza d’un secondo piano.
Sul ponte, fra le automobili, sentii parlare milanese da un gruppo di quattro o cinque persone con in mezzo una donna in pantaloni. Mi avvicinai e m’intromisi a chiedere che strada avevano fatto per scendere al sud. Un giovane, che aveva per compagna la donna in pantaloni. Disse di aver fatto il Vallo di Lucania, tra Salerno e la Calabria, e di aver percorso poi la costa tirrenica. “Cose da pazzi” diceva “quelle strade. Migliaia di curve e di dislivelli”.
Un altro milanese, uomo posato e calmo, accennando a un suo vicino che vestiva la divisa del Comune di Milano diceva di aver fatto con lui l’Adriatica e poi la Jonica: più lunga ma più rapida, tanto che avevano impiegato solo due giorni.
Ammisi che a me non erano bastati tre di giorni, per fare la stessa strada.
“Eh”, rispose “col carico che portiamo noi non c’è da perdersi via”. E guardò verso un furgone nero con una croce inalberata e le guarnizioni d’argento, del quale non mi ero accorto prima. Anche gli altri milanesi non l’avevano notato, ma fecero buon viso ai concittadini che erano uno l’impiegato di un’impresa di pompe funebri e l’altro un commesso della Polizia Mortuaria del Comune di Milano. Anzi, vollero sapere chi portavano.
“E’ un ragazzo di vent’anni” rispose quello in divisa “morto in un incidente stradale fuori di Milano”. E senza voltarsi verso il furgone: “Ci sono su anche le sue sorelle” disse “nei posti a sedere dietro i nostri”.
Guardando con discrezione vedemmo infatti due facce bianche e ferme tra i veli di crèpe che ondeggiavano al vento dello stretto.
“Ieri sera” disse l’altro “ci siamo fermati a dormire in un albergo a Martinafranca, ma loro sono rimaste sul furgone. Abbiamo portato la macchina in garage, perché quando è piena non si può lasciarla in strada, e sono andate anche loro in garage”.
Per non perdere lo spettacolo dello stretto e delle due sponde già illuminate, mi staccai dal gruppo.
Passava in quel momento una grossa nave al traverso di poppa, piena di luci e di passeggeri che forse mangiavano nelle sale illuminate a sfarzo. Un frullo sonoro vibrò nella notte facendo sobbalzare i passeggeri: era la sirena del ferribbotto-ammiraglio che annunciava l’entrata in porto.
Ognuno corse al suo volante e cercò di scendere per primo.
Sul piazzale d’arrivo, quando per ultimo fui in fondo alla rampa, non c’era più nessuna automobile. Solo il furgone, in mezzo al gran piazzale deserto. Un momento dopo, sbucati da dietro le colonne come a un segnale, apparvero rapidissimi sette o otto piccoli uomini vestiti di scuro e con berretti in testa. Circondarono il furgone quasi fosse una diligenza da assaltare, tentando affannosamente le portiere.
Erano i parenti del morto, venuti dal paese, che aspettavano dall’alba seduti contro i muri della Dogana, e che si erano addormentati un momento, proprio all’arrivo del ferribbotto.
Quei parenti che aspettavano il morto mi sembravano i miei parenti, in attesa a Roccalimata, come tantio anni avanti, quando arrivavo con la diligenza dalla stazione ferroviaria.
Arrivi e partenze, da morti o da vivi, in Sicilia sono sempre fatti dolorosi, bagnati di lacrime; tanto che non vi è alcuna differenza ad arrivare più che a partire, e non si può essere pianti da morti o da vivi con la stessa passione”.




sabato 6 aprile 2013

FOTO DAL SET DE "IL GATTOPARDO"

Burt Lancaster in una foto di scena sul set de "Il Gattopardo", diretto nel 1962 da Luchino Visconti
e prodotto dalla Titanus di Goffredo Lombardo. 
Fu proprio il produttore napoletano ad imporre al regista il ruolo da protagonista a favore dell'attore americano, scalzando le candidature
di Nikolai Cercassov e Laurence Kerr Olivier.
Gli scatti riproposti da ReportageSicilia portano la firma del fotografo della Titanus Giovanni Battista Poletto e furono pubblicati nel settembre del 1962 dalla rivista trimestrale "Sicilia" 

Il 14 maggio di 1962 il quartiere palermitano della Kalsa ospitò le prime riprese de “Il Gattopardo” di Luchino Visconti: centinaia di comparse misero in scena l’ingresso delle truppe garibaldine in città, che ebbe storicamente luogo fra il 27 ed il 30 maggio del 1860.
Per la durata di quattro mesi, le maestranze della Titanus e della Twentieth Century Fox lavorarono alla produzione del film ispirato al romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: la storia di quella colossale produzione cinematografica – la cui durata complessiva fu di tre ore e 20 minuti, e che l’anno successivo vinse la Palma d’Oro a Cannes – rimane ancor oggi fra le più ricche di aneddoti nella storia del cinema italiano.
In questo post, ReportageSicilia ripropone alcuni episodi riguardanti la produzione del film tratti dagli archivi dei quotidiani La Stampa, l’Unità e dalla rivista “Sicilia” edita nel settembre del 1962 dall’Assessorato regionale al Turismo, allo Sport ed allo Spettacolo. Da quest’ultima rivista sono tratte alcune immagini del set firmate dal fotografo di scena Giovanni Battista Poletto.
Altri suoi scatti relativi alla produzione del film di Visconti sono pubblicati in http://www.fondazione3m.it/photogallery.


Due fotografie di scena scattate nei giorni iniziali delle riprese de "Il Gattopardo", nel maggio del 1962.
Nel quartiere palermitano della Kalsa, decine di comparse ricostruiscono l'ingresso delle truppe garibaldine in città.
La produzione del film ebbe costi esorbitanti e mai del tutto confermati: Lombardo li quantificò in 3 miliardi di lire,
Visconti in poco meno di 2.
Il successo del kolossal cinematografico - che impegnò attori e tecnici per quattro mesi in Sicilia - fu però dovuto anche
al costoso perfezionismo del regista 

Promotore della trasposizione cinematografica del romanzo di Tomasi di Lampedusa fu il patron della Titanus, il produttore napoletano Goffredo Lombardo. Fu lui ad acquistare a caro prezzo i diritti dell’opera letteraria, a scegliere Visconti come regista e ad imporgli l’attore americano Burt Lancaster nel ruolo del principe don Fabrizio Salina, sbaragliando le candidature del russo Nikolai Cercassov e dell’inglese Laurence Kerr Olivier.
Sembra che il giudizio preliminare del regista di origini milanesi su Lancaster – da lui definito “un cowboy o un gangster” e per questo poco adatto a interpretare il ruolo di un aristocratico siciliano – non fosse del tutto positivo.
Di fatto, al termine della lavorazione de “Il Gattopardo”, l’opinione di Visconti cambiò: il rapporto di reciproco rispetto sul set fra regista e protagonista contribuì non poco al successo dell’opera.
I costi di produzione del film furono all’epoca stratosferici, e mai del tutto indicati con chiarezza.
Lombardo – che per finanziare le riprese avrebbe venduto numerosi appartamenti di sua proprietà a Roma, sulla collina Fleming – indicò una cifra di tre miliardi di lire.
Visconti - che alloggiò a Palermo all'interno della Tonnara Bordonaro - ridusse invece i costi ad un miliardo e 900 milioni, 400 dei quali avrebbero rappresentato il compenso per Burt Lancaster, volato in Sicilia dalla sua villa a Beverly Hills.

L'arrivo del principe don Fabrizio Salina
nella residenza estiva di Donnafugata.
Il set di queste riprese era stato fissato in origine
a Palma di Montechiaro.
L'ostruzionismo dell'amministrazione comunale del tempo e - sembra -  le richieste economiche ricevute ad opera di alcuni "notabili" del paese agrigentino convinsero la Titanus a dirottare le riprese
nel paese palermitano di Ciminna  

Gli unici dati contabili certi sono quelli da mettere in relazione alla maniacale ( e dispendiosa ) attenzione di Visconti durante la lavorazione del film. Qui l’aneddotica de “Il Gattopardo” si fa ricca di esempi: le camicie indossate sul set da Lancaster richieste ad un negozio di Londra, i fiori freschi ordinati via aerea da Sanremo, la riproduzione di interi servizi di argenterie, piatti e bicchieri, la ricostruzione di arredi con l’utilizzo di autentici damaschi o la commissione di 500 paia di guanti.
La scena forse più famosa del film – il lunghissimo valzer di Giuseppe Verdi girato in 18 sale di Palazzo Ganci – impegnò attori, tecnici ed addetti alla produzione, dalle 18.00 alle 5.00 del mattino, per quaranta torride sere dell’estate palermitana. Visconti pretese di accendere tutti i candelabri con candele vere, aumentando i supplizi di protagonisti e comparse che indossavano costumi dagli spessi panneggi. Burt Lancaster fu costretto a ballare sotto l’effetto di iniezioni antidolorifiche mentre Claudia Cardinale arrivò alla conclusione delle riprese con la vita segnata dalle stecche di balena degli abiti imposti dal regista.

La scena del Te Deum, ambientata all'interno
della Chiesa Madre di Ciminna.
Le riprese de "Il Gattopardo" furono girate, sempre nel palermitano, anche a Bellolampo e Piana degli Albanesi.
Altre scene furono invece realizzate all'interno di Palazzo Chigi, ad Ariccia, e negli studi romani della Titanus

Oltre che per le polemiche sui costi finali del film, “Il Gattopardo” di Visconti fece all’epoca parlare di sé per una querelle tipicamente siciliana.
La Titanus aveva infatti previsto che una parte delle riprese dovessero essere girate a Palma di Montechiaro. Di parere opposto furono però gli amministratori comunali del centro agrigentino che , forse per la militanza comunista di Visconti, opposero una lunga lista di ostacoli di natura burocratica; paletti rafforzati – sembra – dalle richieste di esosi “rimborsi” provenienti da non identificati don del paese.
La questione fu oggetto di una denuncia in sede di conferenza stampa a Palermo, da parte dello stesso Luchino Visconti; alle sue dichiarazioni di fuoco contro l’amministrazione di Palma di Montechiaro, definita “fascista”, si aggiunsero quelle per nulla ortodosse di Burt Lancaster.
Interpellato su eventuali timori personali per il rischio di una minaccia mafiosa, l’attore vantò la sua amicizia con Joe Di Maggio e la protezione che quell’amicizia con il campione del baseball gli avrebbe assicurato dai “picciotti” siciliani.
Abbandonato il progetto di utilizzare Palma di Montechiaro, la produzione scelse infine come luogo alternativo di riprese il paese palermitano di Ciminna: qui furono girate le scene dell’arrivo del principe Salina a Donnafugata, del plebiscito e del Te Deum.
Altri ciak de “Il Gattopardo” ebbero luogo nel palermitano a Bellolampo e Piana degli Albanesi, negli studi romani della Titanus – sulla circonvallazione Appia – ed all’interno di Palazzo Chigi di Ariccia: qui Alain Delon e la Cardinale diedero vita all’inseguimento amoroso nelle soffitte della villa di Donnafugata.
Infine, fra le tante pieghe della storia della produzione de “Il Gattopardo”, c’è l’ennesima e poco conosciuta vicenda del fallimento di un progetto che prometteva di creare una Hollywood siciliana.
Sull’onda del successo che il film ebbe in Italia – con un incasso record di 96 milioni di lire nei primi 3 giorni di proiezione – Goffredo Lombardo annunciò l’intenzione di costruire nell’isola una “città del cinema”.
Il proposito – che avrebbe dovuto contare sull’appoggio della Regione – non ebbe alcun seguito, secondo la consuetudine di quel “peccato del fare” che fa abortire buona parte dei tentativi di buona e sana impresa in Sicilia.








mercoledì 3 aprile 2013

APPRENDISTI CAMERIERI A CANICATTI'

Giovanissimi apprendisti camerieri a Canicattì.
La fotografia riproposta da ReportageSicilia è tratta
dal I volume dell'opera "Sicilia",
edita nel 1962 da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini

Le locandine di “Totò a Parigi” affisse sulla cornice lapidea della fontana del Nettuno, a Canicattì, indicano che il fotografo Alario realizzò lo scatto nel 1958, anno di uscita del film.
L’immagine riproposta da ReportageSicilia è tratta dal I volume dell’opera “Sicilia”, edita da Sansoni e dall’Istituto Geografico De Agostini nel 1962; la didascalia che accompagna la fotografia indica nei due ragazzini due piccoli camerieri, forse di un vicino bar.
Sino a qualche decennio fa, il lavoro minorile era una pratica di normale routine in molti centri urbani e rurali della Sicilia.
I ragazzini che non volevano o non potevano continuare gli studi, iniziavano un precoce apprendistato da camerieri che magari avrebbe permesso loro di guadagnarsi un giorno da vivere.
Nel frattempo, portavano qualche soldo a casa, contribuendo a sostentare famiglie con un reddito precario.
Fortunatamente, ai nostri giorni la legge fissa regole rigide a tutela del lavoro minorile; in questo contesto, le occasioni di occupazione in Sicilia fanno registrare un tracollo attestato da recenti dati dell’Istat.
Nel 2012, l’isola ha visto crescere la disoccupazione giovanile del 51,3 per cento, mentre i posti di lavoro totali persi sono stati 39.000.
La crisi del lavoro non risparmia ovviamente neppure Canicattì, dove anche gli anziani patiscono le ristrettezze economiche di questi mesi.
Il 50 per cento dei pensionati del centro agrigentino – sempre secondo dati Istat – vive con 500 euro al mese; una povertà che sembra avere riportato la società siciliana indietro di decenni, sino ai tempi dei film di Totò.
La differenza – rispetto ai giorni dello scatto di Alario - è che l’attuale situazione isolana lascia poco spazio alle risate.


sabato 30 marzo 2013

LAMPARE A LIPARI

Un gruppo di pescatori a Marina Corta di Lipari.
L'immagine è tratta dalla rivista trimestrale "Sicilia"
edita da S.F.Flaccovio nel luglio del 1975

Le immagini di Lipari riproposte in questo post da ReportageSicilia ritraggono Marina Corta e sono tratte rispettivamente dalla rivista trimestrale "Sicilia", pubblicata nel luglio del 1975 da S.F. Flaccovio e dall’opera francese “La Sicile”, edita da Del Duca nel 1957.
Delle due fotografie, l’unica che rechi un’attribuzione – a Patrice Molinard – è quella del volume stampato a Parigi con testi di Jean-Louis Vaudoyer.
Ai nostri giorni, Lipari è certamente l’isola delle Eolie più conosciuta e battuta dai turisti; vi circolano anche gli autobus ed il suo traffico automobilistico può in alcuni casi smentire la fama di solitudine e bellezza che accompagna ancora alcuni luoghi più remoti dell’arcipelago messinese.


Già nel 1966, l’inviato del Touring Club Italiano Piero Studiati Berni notava:
“Lipari è bella, ma chiassosa, disordinata: ha la pretesa di una città, ma il carattere di un paese.
A Lipari ci sono i negozi, le strade, le automobili, si può comprare la carne e andare al cinema e tutto questo, nella mentalità degli isolani, è più che sufficiente a rendere funzionale l’isola e a trasformarla in un vero centro residenziale e turistico…
A Lipari sembra che tutte le isole debbano una sorta di rispetto perché Lipari si sente capitale: storia, leggenda e natura l’aiutano a mantenere questo privilegio; persino i suoi dodici vulcani, oggi quieti come vecchie cucine, sono stati generosi dando a Lipari la pomice e l’ossidiana che nel passato raggiunse tutti i mercati del Mediterraneo Orientale”.

Uno scorcio di Marina Corta precedente al 1957,
quando questa fotografia attribuita a Patrice Molinard
venne pubblicata nell'opera "La Sicile"
edita a Parigi da Del Duca

Delle due fotografie riproposte nel post, la più interessante è forse quella che ritrae il gruppo notturno di barche di pescatori, con le lampare accese e forse in procinto di prendere il mare.
In passato, a Lipari si è praticata con un certo successo la pesca notturna del pesce spada con la palamidara, soprattutto nei profondi tratti di mare che separano l’isola da quelle di Vulcano e Salina.


La palamidara è una rete lunga dai 600 ai 1000 metri ed alta sino a trenta. Viene calata in mare all’imbrunire, fra aprile e giugno; nella nottata, al variare delle correnti, può essere salpata e ricalata più volte. La rete era sostenuta da galleggianti di sughero o da palle di plastica, ed il pescato era diretta verso il mercato messinese.
Oggi Lipari vive quasi principalmente di turismo, attività che patisce gli effetti della più generale recessione economica.
La pesca, al pari di molte altre località marine siciliane, ha un peso limitato: poche barche ormai offrono il vecchio spettacolo dei gruppi di lampare che riflettevano la propria luce sul golfo di Marina Corta.


SICILIANDO













"Dai primi tempi della storia infino a noi molte genti straniere vennero a calpestare il suolo della Sicilia: Cartaginesi, Vandali, Goti, Bizantini, Alemanni, Francesi, Spagnoli, a vicenda portaron guerra nell'isola, guastarono, messer su novelle dominazioni e poi dileguaronsi lasciando poche vestigia di sé".
Michele Amari