Il paese nisseno di Vallelunga Pratameno, in una fotografia di Josip Ciganovic pubblicata nel I volume dell'opera "Sicilia", edita nel 1962 da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini |
Fu nel gennaio del 1965 che molti lettori scoprirono le origini siciliane dello scrittore lombardo Piero Chiara http://www.ilfestivaldelracconto.it/premiochiara/Amici_di_Piero_Chiara.asp.
L’autore de “Il piatto piange” e “La Spartizione”, nato nel 1913 a Luino, pubblicò in quei giorni “Con la faccia per terra”, libro autobiografico ambientato in Sicilia.
Quelle pagine erano state scritte perché Chiara aveva avuto il desiderio di tornare nell’isola dopo i precedenti ed ormai lontani viaggi compiuti insieme al padre; ed al solo scopo di “farla finita coi ricordi, per rimestarli, appesantirli, metterli in condizione di colare a fondo e di perdersi finalmente nel passato”.
L’isola aveva dato i natali allo scrittore almeno sin dalla metà del Settecento, quando un suo avo – Alessandro – aveva prestato servizio presso il barone Ghiribbò, sposandone la vedova ed acquisendone il patrimonio. Il padre di Piero si chiamava invece Eugenio, ed era nato nel 1867 a Resuttano, nelle campagne fra le province di Caltanissetta e Palermo. Dall’isola era andato via all’età di 20 anni, trasferendosi in Lombardia grazie al suo impiego alle Dogane.
La pubblicazione di “Con la faccia per terra” – nel quale Resuttano prende il nome di Roccalimata e dove un arciprete si scaglia contro un nipote comunista al grido “debbo vedervi tutti quanti con la faccia per terra!” – incuriosì allora anche Leonardo Sciascia. Il 27 febbraio del 1965, lo scrittore agrigentino ne fece oggetto di un articolo sulle pagine del quotidiano palermitano “L’Ora”.
“Dal suo libro ora pubblicato – vi si legge – che appunto racconta le impressioni di almeno trent’anni addietro, raffrontate e verificate su quelle di un recente viaggio, qualche critico ha avuto sorpresa: poiché, a saperlo, forse avrebbe riconosciuto nei due precedenti libri qualche traccia di tali sue origini; e un riferimento all’eros brancatiano gli sarebbe venuto in taglio, specialmente riguardo alla “Spartizione” che davvero, a momenti, dà il senso che si svolga in un paese della Sicilia orientale invece che a Luino”.
Quindi Sciascia riassume il senso finale di quel ritorno dello scrittore nella terra degli avi:
“In Sicilia Chiara non si è per niente riconosciuto e ritrovato, non ha sentito né ancestrale afflato né vampate di consanguineità. E ha mandato a picco i ricordi senza remore e senza rimpianti. E questa è, in definitiva, la qualità migliore delle sue pagine. E dalla sua sincerità, dal suo assoluto distacco, dalla sua fuga ( “mentre già con gli occhi cercavo la fine dell’isola, la prima ombra del continente sul quale sarei passato quasi in fuga, ansioso di risalire l’Italia, fino al Lago Maggiore”) a noi pare di poter cavare motivi di riflessione”.
Lavorazione del letame per uso agricolo nelle campagne della provincia di Caltanissetta. Anche questa fotografia è firmata da André Martin ed è stata tratta dalla citata opera di Dolci |
ReportageSicilia ripropone alcune pagine del libro di Chiara – oggi di non facile ricerca – nella parte in cui lo scrittore descrive l’attraversamento dello Stretto di Messina per raggiungere i luoghi paterni.
E’ un ritorno in cui traspare una filigrana di indifferenza e di diffidenza – se non d’ostilità – verso un mondo che Chiara sente del tutto estraneo al suo essere solo “uomo del Nord”, estraneo all’immobile ambiente rurale siciliano.
Qualche anno dopo le pagine di Sciascia - nel 1972 - il critico Geno Pampaloni avrebbe riconosciuto nello scritto autobiografico di Chiara un "lieto esercizio dell'intelligenza"; e tuttavia, quella diffidenza e lontananza emotiva dall'isola di origine avrebbero spinto Pampaloni ad augurargli "una goccia di sangue più scuro", facendo delle contraddizioni isolane tesoro di vita e di scrittura.
L'ex convento dei Cappuccini nell'assolato silenzio della montagna presso Petralia Soprana. Anche questa fotografia di Josip Ciganovic è tratta dal I volume dell'opera "Sicilia" |
“Molte volta mi ero fatto il proposito di tornare in Sicilia, ma dovettero passare trent’anni, una lunga guerra, tutta la gioventù e qualche cosa ancora, prima che un’oziosa decisione, ormai quasi senza più scopo mi spingesse, contro il parere di mio padre e come un turista qualsiasi, a ridiscendere l’Italia.
Sono così apparso una sera di giugno sullo stretto, proveniente dal nord lungo la strada statale detta Jonica.
Avvistata l’isola, ho girato intorno alla punta dello stivale da Melito Porto Salvo a Villa San Giovanni, con la coda dell’occhio al mare dal quale sorgeva la Sicilia sempre più scura e accigliata man mano che usciva, come una nave in movimento, dal profilo della costa calabrese.
Era un forte rilievo cinereo sotto le nubi d’un temporale, al di là dello stretto agitato dal vento.
Una luce livida la tagliava dall’alto sul limite del mare, lungi i fianchi di aspre montagne. Solo dopo Reggio la vidi terminare nel mare aperto, nettamente divisa dal continente. Ma pareva che da quella terra circondata dal mare ostile non mi venisse alcun invito e che, girato il capo a Villa S.Giovanni, avrei fatto bene a voltarle le spalle e a tornarmene verso casa mia.
Invece a Villa S.Giovanni ho cercato il pontile d’imbarco dove una volta arrivavo col treno, e condotto dalle frecce e dalle indicazioni ho trovato il piazzale dove mettono il muso i ferribbotti.
Gente pratica diceva che due ferribbotti erano in panne e che non sarebbe stato facile passare lo stretto quella sera. Poi fu annunciato che si partiva, ma con una piccola nave. Più tardi si seppe che erano pronte due navi, una delle quali era l’ammiraglia dei ferribbotti, una grande nave-traghetto che portava le automobili sul ponte superiore.
Mentre guardavo la manovra dei treni che entravano e uscivano dalle navi, un mio vicino di automobile mi parlava del petrolio che c’era sul fondo del mare, del ponte dello stretto che si farà o non si farà e delle astuzie che intanto occorrevano per profittare della prima nave in partenza. Tra queste chiacchiere imbarcammo, salendo con le automobili all’altezza d’un secondo piano.
Sul ponte, fra le automobili, sentii parlare milanese da un gruppo di quattro o cinque persone con in mezzo una donna in pantaloni. Mi avvicinai e m’intromisi a chiedere che strada avevano fatto per scendere al sud. Un giovane, che aveva per compagna la donna in pantaloni. Disse di aver fatto il Vallo di Lucania, tra Salerno e la Calabria, e di aver percorso poi la costa tirrenica. “Cose da pazzi” diceva “quelle strade. Migliaia di curve e di dislivelli”.
Un altro milanese, uomo posato e calmo, accennando a un suo vicino che vestiva la divisa del Comune di Milano diceva di aver fatto con lui l’Adriatica e poi la Jonica: più lunga ma più rapida, tanto che avevano impiegato solo due giorni.
Ammisi che a me non erano bastati tre di giorni, per fare la stessa strada.
“Eh”, rispose “col carico che portiamo noi non c’è da perdersi via”. E guardò verso un furgone nero con una croce inalberata e le guarnizioni d’argento, del quale non mi ero accorto prima. Anche gli altri milanesi non l’avevano notato, ma fecero buon viso ai concittadini che erano uno l’impiegato di un’impresa di pompe funebri e l’altro un commesso della Polizia Mortuaria del Comune di Milano. Anzi, vollero sapere chi portavano.
“E’ un ragazzo di vent’anni” rispose quello in divisa “morto in un incidente stradale fuori di Milano”. E senza voltarsi verso il furgone: “Ci sono su anche le sue sorelle” disse “nei posti a sedere dietro i nostri”.
Guardando con discrezione vedemmo infatti due facce bianche e ferme tra i veli di crèpe che ondeggiavano al vento dello stretto.
“Ieri sera” disse l’altro “ci siamo fermati a dormire in un albergo a Martinafranca, ma loro sono rimaste sul furgone. Abbiamo portato la macchina in garage, perché quando è piena non si può lasciarla in strada, e sono andate anche loro in garage”.
Per non perdere lo spettacolo dello stretto e delle due sponde già illuminate, mi staccai dal gruppo.
Passava in quel momento una grossa nave al traverso di poppa, piena di luci e di passeggeri che forse mangiavano nelle sale illuminate a sfarzo. Un frullo sonoro vibrò nella notte facendo sobbalzare i passeggeri: era la sirena del ferribbotto-ammiraglio che annunciava l’entrata in porto.
Ognuno corse al suo volante e cercò di scendere per primo.
Sul piazzale d’arrivo, quando per ultimo fui in fondo alla rampa, non c’era più nessuna automobile. Solo il furgone, in mezzo al gran piazzale deserto. Un momento dopo, sbucati da dietro le colonne come a un segnale, apparvero rapidissimi sette o otto piccoli uomini vestiti di scuro e con berretti in testa. Circondarono il furgone quasi fosse una diligenza da assaltare, tentando affannosamente le portiere.
Erano i parenti del morto, venuti dal paese, che aspettavano dall’alba seduti contro i muri della Dogana, e che si erano addormentati un momento, proprio all’arrivo del ferribbotto.
Quei parenti che aspettavano il morto mi sembravano i miei parenti, in attesa a Roccalimata, come tantio anni avanti, quando arrivavo con la diligenza dalla stazione ferroviaria.
Arrivi e partenze, da morti o da vivi, in Sicilia sono sempre fatti dolorosi, bagnati di lacrime; tanto che non vi è alcuna differenza ad arrivare più che a partire, e non si può essere pianti da morti o da vivi con la stessa passione”.
Incredibile Chiara. Le cose autobiografiche - Con la Faccia per terra, Di casa in casa la vita, Sotto la sua mano, Vedrò Singapore? sono struggenti. Credo ci sia niente di paragonabile nella letteratura di oggi.
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