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venerdì 16 gennaio 2015

VECCHIA VENDEMMIA ETNEA

Tre fotografie di Federico Patellani scattate nel 1952 ed un racconto di Ercole Patti datato 1932 descrivono il lavoro fra le vigne delle pendici vulcaniche


Vendemmiatori in posa durante una pausa
di lavoro fra le vigne di Fornazzo di Milo,
sulle pendici catanesi dell'Etna.
Le fotografie del post furono realizzate
da Federico Patellani e corredarono un reportage
di Carlo Levi dal titolo "Attorno all'Etna"
pubblicato nel dicembre del 1952
dalla rivista "L'Illustrazione Italiana".
ReportageSicilia ripropone nel post il racconto
dello scrittore Ercole Patti "Vecchia Vendemmia"
pubblicato nel 1971 in "Diario Siciliano", edito da Bompiani

Le fotografie di questo post portano la firma di Federico Patellani ed illustrarono un reportage compiuto dallo scrittore Carlo Levi nella zona dell'Etna nel 1952.
Quel lavoro documentario - ricavato durante un viaggio nell'isola, dal quale Levi avrebbe tratto ispirazione per i racconti di "Le parole sono pietre" -  trovò spazio lo stesso anno nel numero speciale di Natale della rivista "L'Illustrazione Italiana", con il titolo "Attorno all'Etna".
ReportageSicilia ripropone tre fotografie di Patellani che documentarono allora la vendemmia fra i vigneti di Fornazzo di Milo, "di proprietà" - si legge in una didascalia - "di Giovanni Cavallaro".
Curiosamente, la narrazione di Levi non dedicò neppure una riga all'attività dei vendemmiatori, le cui condizioni di lavoro erano all'epoca durissime. 



Lo scrittore piemontese raccontò invece il penoso stato di vita feudale dei contadini della Ducea di Bronte, soffocati dagli usurai di Randazzo e Tortorici nel tentativo di acquistare le terre di Lord Bridporth: una narrazione attenta e dettagliata, non accompagnata però nel reportage per "L'Illustrazione Italiana" neppure da una fotografia.
Così, per descrivere la vendemmia sull'Etna del passato si devono citare le memorie catanesi di Ercole Patti.
La narrazione è contenuta nel volume "Diario Siciliano" che lo scrittore pubblicò nel 1971 per Bompiani, raccogliendovi racconti che rimandano alle colture stagionali etnee: la raccolta dell'uva e delle olive, quella delle arance e delle castagne.
Le pagine di Patti sono datate ottobre 1932 e documentano una giornata di vendemmia e pigiatura dell'uva sui versanti orientali di monte Ilice, fra Trecastagni e Zafferana Etnea.
Una scrittura - quella di Ercole Patti - che secondo il critico letterario Arnaldo Bocelli restituisce "una visione di una Sicilia splendida e luttuosa, innocente e carnale": 

"Il proprietario della vigna oggi si è alzato prestissimo, ha aperto il balconcino sull'orto; un'aria freschissima, ancora notturna, è entrata nella stanza.
Brillano le tre stelle mattutine dei Tre Re alte e vivide sulla casa.
All'orizzonte dalla parte del mare il cielo comincia a poco a poco a rischiararsi e un fianco dell'Etna viene fuori pianissimo dal buio della notte.
Nell'orto le galline dormono ancora nell'aia cinerea e fresca del giorno che viene.
Oggi è giornata di vendemmia. 
Il proprietario gira per la casa col passo pesante degli stivali chiodati, beve il caffè mentre dà le ultime disposizioni ai familiari.
Nel cortile il massaro lo aspetta con l'asina già sellata.
Canta un gallo rauco di sonno in un orto vicino; le stelle impallidiscono nel cielo.



Si vendemmia a monte Ilice a un'ora di strada dal paese. Le viti salgono sul monte come un piccolo esercito. La porta del palmento è spalancata; i pigiatori indossano i loro corti calzoncini, calzano i loro scarponi massicci ancora zuppi e arrossati dal mosto di ieri.
I vendemmiatori si sparpagliano fra le viti e cominciano a staccare i grappoli con colpi netti dei loro coltelli ricurvi e lucenti.
L'uva si va ammonticchiando entro i panieri e le ceste; i vendemmiatori la rovesciano attraverso l'apposita finestra nel palmento fra le gambe schizzate di mosto dei pigiatori.
L'uva precipita nell'impiantito massiccio e ruvido pavimentato a lastroni di lava come una strada e manda un leggero odore di tralci e di foglie stroncati.
I pigiatori vi cominciano a ballare sopra allegramente, a grandi pestate tenendo i pollici infilati sotto le ascelle alle maniche del panciotto, e cantano.
A mano a mano che i grappoli si vanno frantumando sotto gli scarponi si leva intorno un odore netto e vivo di mosto.
Dalle finestre spalancate sulla vigna entrano moscerini e calabroni ad ali spiegate nell'aria mattutina.
il mosto cola, lungo massicce condutture scavate nella pietra, nelle tine sottostanti passando fra l'intreccio di un grosso paniere grondante che serve da filtro. Dalla profondità delle tine viene su il fiato pungente del mosto in fermentazione e dà un leggero senso di vertigine a chi vi si affaccia dentro.



I pigiatori strascicano gli scarponi affondati nell'uva fino alla caviglia. Giunge attraverso l'aria serena qualche voce della vigna, il rumore quieto degli zoccoli del mulo legato sullo spiazzo accanto al palmento.
La luce di ottobre è ferma e chiara nel cielo solcato a tratti da qualche passerotto che scocca trilla e dilegua veloce come un proiettile.
Davanti alla porta del palmento verso le otto del mattino la massara prepara la colazione per i pigiatori; taglia grosse fette di formaggio salato e oleoso, dispone le acciughe e i peperoni arrostiti su ruvidi piatti, stacca grandi fette di pane fitto e pesante, riempie un bariletto di vino rosato e limpido che diffonde intorno nell'ora mattutina un profumo inebriante.
I pigiatori con le gambe inzaccherate di mosto e di chicchi di uva spremuti scendono giù dalle scalette di lava e siedono sull'orlo di una tina, cavano fuori i coltelli e cominciano a mangiare piano piano.
Mangiano con gusto e attenzione tagliando strice di pane sui cui adagiano con cura un'acciuga, un pezzetto di peperone.
Il bariletto passa di bocca in bocca, gli uomini lo sollevano in aria, incollano le labbra al buchino laterale e mandano giù tre o quattro sorsate di vino senza versarne neanche una goccia.
L'uva pigiata ridotta molle e succolenta come una pasta viene messa da una parte a palate sotto il grosso e biforcuto 'legno del palmento'. Stanotte alla fioca luce di un lumicino verrà raccolta in un mucchio turrito, fasciata saldamente torno torno da una striscia di rafia intrecciata e vi farà gravare sopra il legno del palmento alla cui estremità verrà sospeso a mezzo di un legno a vite, un grosso macigno quadrangolare o rotondo: 'la pietra'.



Sotto quella stretta poderosa il pastone spremerà le ultime gocce di mosto e rimarrà compresso e compatto che per toglierlo lo si dovrà frantumare a colpi di piccone. Nel pomeriggio arrivano i carrettieri per trasportare il mosto di ieri nelle cantine del paese. Entrano con un fascio di otri sgonfi, li accatastano in un angolo. un uomo seminudo si cala dentro la tina nel mosto tiepido e pungente costellato alla superficie da grumetti di schiuma rossastra; si immerge fino al petto nel liquido dolce che gli frizza sulla pelle come tintura di iodio.
Con una 'quartara' di latta comincia a versare il mosto entro l'imbuto che un carrettiere regge infilato nel collo dell'otre.
L'oltre piatto disteso per terra si gonfia un pochino dolcemente ed ogni quartara di mosto, con un leggero palpito come se si respirasse.
Quando è pieno il carrettiere stringe nel pugno il collo di olona stillante gocce rosse e se lo carica con uno scatto sulle spalle.
Fuori il carro attende e si va riempiendo di otri gonfi pesanti e tremuli.
Il proprietario seduto sull'unica sedia del palmento sorveglia.
Fra breve il ragazzo che torna dal paese sull'asina gli porterà in due piatti avvolti in una salvietta delle polpettine, un uovo fritto, un pezzo di caciocavallo, una bottiglia di vino, la colazione che gli mandano da casa e che egli mangerà sulla pietra del palmento mentre la massara gli sceglierà un grappolo d'uva speciale dura e dolce.



In un angolo è appoggiato lo schioppo.
Una decina di cartucce dai colori vivi e squillanti - rossi arancione verdi - sono allineate su un barile messo all'impiedi e spiccano nel grigiore del palmento con un senso di felicità autunnale.
Nella vigna, accanto alle viti dove è passata la ciurma le foglie giacciono per terra rotte e calpestate.
Le vendemmiatrici curve fra le viti cantano.
Una vendemmiatrice sedicenne dagli occhi neri attacca un motivo con voce squillante un poco acerba come le voci dei conventi e le altre le fanno il coro con i visi in mezzo ai grappoli.
Un ragazzo tira qualche sasso fra i rami di un gran castagno; un grappolone di castagne verdi e spinose precipita con un tonfo, da una crepatura del riccio fanno capolino le castagne lisce e lucenti, di mogano.
Il clima della vendemmia è entrato anche nelle case del paese, ha invaso i terrazzini interni con la vecchia cisterna al centro.
entriamo nel cortile di una di queste case. In un angolo sono ammucchiati rotoli di rafia intrecciati arrossati dal mosto dell'anno scorso e quartare di latta.
Su un vecchio sedile di pietra si vedono coroncine di zolfo e matasse di stoppa. Quattro barili snelli e affusolati come spolette sono allineati contro il muro.
Seduta su un gradino di lava antichissima sotto un gelsomino secolare che riempie l'intera facciata della casa, una servetta mansueta va spaccando con un martello noci fresche liberandole dal loro involucro verde e riponendole via via in un cesto.
La scorza ruvida delle noci appena liberate ha un colore di legno nuovo e grezzo mentre quelle ancora chiuse nel loro involucro si alzano a piramide sulle vecchie mattonelle di terracotta come un mucchio di mele acerbe.




La ragazza ha le mani tenere annerite da quell'umore tenace e amaro delle noci che sarà faticoso togliersi.


Più in là il padrone con gli scarponi ricoperti dalla polvere color cacao delle vigne va pulendo il fucile con uno stoppino imbevuto di petrolio e di tanto in tanto guarda controluce le canne: un tondino di cielo luminosissimo si scorge in fondo alla canna luccicante come un tunnel.
Dalla porta di una stanza adibita a ripostiglio che è stata aperta in occasione della vendemmia, si vedono ammucchiati alla rinfusa oggetti disparati e inservibili alcuni del secolo passato: carcasse di poltrone con le molle rotte allo scoperto come scheletri spolpati, trespoli da letto, lumi spaccati, ceste sfondate, pompe da verderame bucate, sedie senza tre gambe, bocce di vetro istoriate senza collo, orcioli incrinati sin dal 1890.
La dolce luce di ottobre illumina tutto quel ciarpame che non si riesce a buttare via e che aumenta di anno in anno.
Arriva un contadino con un cesto di uva fresca bianca e nera raccolta nella vigna pochi minuti prima.
La sera scende su questa stanchezza tranquilla su questi piatti di lattughe e di peperoni arrostiti, su questi pezzi di caciocavallo piccante che sono apparsi sulle tavole illuminate dalle prime lampadine.
Non sono ancora le sette ma molti di dispongono già ad andare a dormire stanchi morti.
Domani mattina alle quattro alle tre e mezzo si dovranno alzare"   

  
  
  

     

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