Translate

lunedì 31 dicembre 2018

UN OMAGGIO FRANCESE AL PASSATO DI SPERLINGA

Un'abitazione rupestre a Sperlinga, nell'ennese.
L'immagine è tratta dall'opera
"Sicilia felicissima", edita nel 1978 da Edizioni Il Punto
I viaggiatori di svariata e diversa nazionalità che visitano la Sicilia hanno opportunità di trovare nell'Isola sparse tracce del loro Paese.
Uno spagnolo potrà incontrare statue di re e altri notabili ispanici; gli inglesi, cimiteri abbandonati di illustri compatrioti morti qui fra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento; i tedeschi, le targhe che ricordano un lungo viaggio di Goethe; gli americani, monumenti urbani donati dai siculo-statunitensi ai compaesani dei loro paesi di origine; i canadesi, uno dei più curati cimiteri di guerra presenti in Sicilia e dedicato ai loro caduti; ai russi, esempi locali di architettura gotica riproposti a San Pietroburgo; e così via...
Così, al diplomatico Pierre Sébilleau capitò di recarsi sino a Sperlinga per rendere omaggio ad una delle tracce fisiche del legame storico tra la Francia e l'Isola:
      
"Se, però, avrete pernottato a Piazza Armerina o a Enna e ne avrete il tempo - si legge in "La Sicilie", edito nel 1968 da Cappelli - vi consiglierei di prendere, a sinistra, all'uscita di Leonforte, una strada, impressionante per i precipizi che la fiancheggiano, che porta a Nicosia.
Ma, prima di abbordare la rampa che sale verso quest'ultima, abbiate cura di fare, ancora a destra, una breve deviazione di quattro chilometri, motivata dalla riconoscenza che noi, francesi, dobbiamo a Sperlinga.



Questa misera borgata, infatti, ha meritato il motto che potrete leggere sulle rovine della sua piccola fortezza, sempre che ve la sentiate di scalare la colossale lastra di pietra inclinata in cima alla quale esso è scolpito: 'quod Siculis placuit, sola Sperlinga negavit', quando, cioè, i siciliani si decisero a fare i 'Vespri siciliani', solo Sperlinga si rifiutò di associarsi alla cacciata dei francesi e diede, anzi, loro asilo.
Per questo, sembra che sussista ancora qualche traccia della nostra lingua nella parlata locale.
Io, però, credo che la ragione di ciò sia, piuttosto, da ricercarsi nel fatto che il capoluogo di questa regione, Nicosia, fu ripopolato durante il medioevo da immigrati venuti dall'Italia del nord  e principalmente dal Piemonte..."

giovedì 27 dicembre 2018

I QUARANT'ANNI DALLA STRAGE DEL DC-9 "ISOLA DI STROMBOLI"

Il recupero di una parte del DC 9 "Isola di Stromboli"
caduto in mare dinanzi l'aeroporto di punta Raisi,
il 23 dicembre del 1978
Quarant'anni dopo la tragedia, un fatiscente cippo commemorativo a Marina di Cinisi guarda ancora il mare dove il volo AZ4128 - un DC 9 Alitalia denominato "Isola di Stromboli" partito da Roma - planò sulle onde - a 1,5 miglia nautiche dalla costa - toccandole con l'ala destra e ammarando con una violenza da tale da spezzarsi in tre tronconi.
Da 37 minuti e 59" era trascorsa la mezzanotte del 23 dicembre del 1978: morirono 91 persone, compresi i 5 componenti d'equipaggio.
Di altri 17 passeggeri non vennero mai recuperati i corpi, i feriti furono 21.
La strage - 6 anni dopo quella di montagna Longa, costata 115 vittime - alimentò la pessima fama dell'aeroporto di punta Raisi; un'ombra che in quella drammatica vigilia di Natale venne accentuata da circostanze che denotarono i pericolosi limiti operativi dello scalo. 
I soccorsi al DC-9 finito in mare furono affidati per oltre un'ora ai pescherecci di Terrasini perché i mezzi navali di emergenza quella sera erano fuori uso; parte delle luci sulle piste risultarono spente e non vi era ancora la dotazione dell'ISL, il sistema radioelettrico di atterraggio strumentale di precisione.
Le lacune tecniche furono poi aggravate dalle perplessità sollevate dalle modalità grazie alle quali un DC-9 dell'Aeronautica con a bordo il ministro della Difesa Attilio Ruffini avrebbe avuto la precedenza per l'atterraggio rispetto al volo dell'"Isola di Stromboli".
Una sentenza pronunciata nel 1987 non trovò colpevoli per la strage, imputata unicamente alla presunta imperizia dei piloti, anch'essi morti nell'incidente.


"L'inchiesta su questa difficile ricerca della verità - scrisse Vincenza Toscano in "Giù le maschere" ( Gruppo Editoriale Veneto, 1988 ) - per quanto condotta dalla magistratura con impegno e retta intenzione non ha portato in primo piano i veri responsabili del disastro, dei soccorsi a mare e del recupero delle salme.
Se la sono cavata un po' tutti, dai Direttori agli operatori radar, alle apparecchiature e, ahimè, anche i preposti alle stesse Istituzioni ridondanti di responsabilità" 

Nessuno pagò per le omissioni tecniche che di certo favorirono il disastro e che aggravarono il bilancio delle vittime e dei dispersi: alcuni corpi scomparvero infatti per sempre in mare a causa delle improvvisate ( e sciagurate ) modalità di recupero dei tronconi dell'aereo.
Le ricerche delle 17 persone disperse - sollecitate dai familiari - andarono avanti per un paio di mesi: le reti a strascico di quattro pescherecci noleggiati dal ministero dei Trasporti e dall'Aviazione Civile riuscirono però ad imbrigliare solo un teschio allora mai identificato.  
Per molti anni a venire, pezzi del DC9 furono esposti in mostra all'interno di un deposito di rottamazione di una famiglia con un cognome mafioso: portelloni, maniglie ed altri reperti dell'"Isola di Stromboli" diventarono i souvenir di una vicenda dolorosa ed incapace di rispettare il valore della memoria.  

sabato 22 dicembre 2018

IL PESCATORE DI POLPI DI BIROLLI




RENATO BIROLLI, "Pescatore di polpi"

lunedì 17 dicembre 2018

LA CASETTA BIANCA DELLA "SPIAGGIA POP" DI SANT'ELIA

Fotografia di ReportageSicilia
"Questa è sempre stata una spiaggia dalle frequentazioni molto pop ed un luogo per le passeggiate dei morosi", mi spiega Paolo Di Salvo, mentre affondiamo le scarpe sulla sabbia di Sant'Elia.
Dinanzi ai miei occhi si stagliano il mare di Santa Flavia e soprattutto la casetta bianca incastonata su una scogliera traforata da numerose pozze di acqua: una delle costruzioni più singolari e amabili della costa palermitana, che da chissà quanti decenni sfida l'incessante logorio delle onde e della salsedine.
In questo angolo di Sant'Elia si respira l'atmosfera di un passato remoto, tipico di certe località che sono state a lungo naturale e quasi reclusorio teatro di vita quotidiana per le comunità locali.
Qui si è vissuto per secoli di pesca, in condizioni di sussistenza ed isolamento ( così è accaduto per lungo tempo in un borgo ormai conquistato dal turismo come Scopello, nel trapanese ).


La zona conserva tratti riconoscibili di quell'antica bellezza così raccontata nell'estate del 1955 da Carlo Levi:

"Rocce scoscese - si legge in "Le parole sono pietre", edito da Einaudi - terminano in mare con una specie di cornice o di piedistallo di pietra appena sopra il livello dell'onda, che, gonfiandosi dolce, la ricopre a tratti; e questa cornice piena di alghe e di conchiglie e di madrepore e di animali marini, dove si può passeggiare protetti alla vista delle rocce strapiombanti e scavate sotto all'acqua in mille invisibili anfratti, è forata qua e là da larghe buche rotonde o in forma di cuore, come dei piccoli laghi o delle vasche naturali tappezzate di alghe tenere e piene di un'acqua appena mossa.
Qui, in questi cuori marini, ci si può adagiare, mentre dai fori della roccia sale in spruzzi e in getti subitanei, con un gorgoglio sotterraneo, una doccia improvvisa, e, avvolti teneramente dal mare, rimanere a lungo senza pensieri, con null'altro davanti che un impenetrabile azzurro..."

Più avanti, nel tratto che da capo Zafferano conduce sino alla borgata di Aspra, la costa rocciosa offre un esempio dell'illuminata  azione della nomenclatura palermitana degli anni Sessanta e Settanta.


Qui infatti massicci cancelli in ferro ed alti muraglioni proteggono sontuose ville con accesso esclusivo al mare: una cementificazione di lusso ( nulla a che vedere con la coeva e misera fungaia edilizia sorta fra Carini e punta Raisi ), che ha accolto lungo qualche chilometro di magnifico litorale ricchi commercianti, imprenditori edili, dirigenti sanitari, assessori regionali, alti burocrati, stimati magistrati e sanguinari killer della mafia.
Da quelle ville, la splendida vista bifronte di capo Zafferano e del golfo di Palermo ha rappresentato uno status di blindato prestigio sociale e di benessere economico: nulla a che vedere con la vicina "spiaggia pop" di Sant'Elia, con la sua leggiadra casetta bianca e le libere passeggiate dei morosi.


domenica 16 dicembre 2018

UNA MANIFESTAZIONE DI PROTESTA DEI SOLFATARI DI COMITINI

Solfatari al lavoro a Comitini, nell'agrigentino.
La fotografia venne pubblicata nel 1933 dall'opera
"Sicilia",
edita dal TCI per la collana
"Attraverso l'Italia"
Secondo un saggio di Antonio Arnone ( "Solfare e mafia", Medinova, 2002 ), nel 1838 il territorio di Comitini ospitava 38 solfare tra le più attive della provincia di Agrigento.
La fotografia di uno di questi giacimenti venne pubblicata nel 1933 dal volume del TCI "Sicilia" per la collana "Attraverso l'Italia".
Nella didascalia che illustra l'immagine si legge:

"Si scorgono gli ingressi delle cave d'estrazione, e i depositi del minerale in due differenti stadi della lavorazione"

Nei primi decenni dello scorso secolo, i solfatari siciliani avevano fatto più volte parlare di sé per le proteste contro le dure condizioni di lavoro e per i bassissimi salari riconosciuti dai gabelloti delle miniere.
E' lo stesso Arnone a ricordare che in Sicilia

"si continuava a procedere, come se la realtà europea fosse rimasta immobile, con il sistema della gabella.
Il proprietario ( o i proprietari, poiché gli eredi andavano divenendo sempre più numerosi e la miniera di zolfo non poteva suddividersi ) delle solfare chiedeva canoni d'affitto sempre più alti e il gabelloto si rifaceva mantenendo bassi i salari e mirando ad accrescere la produzione.



Tale criterio, però, si rivelò fallimentare, poiché in primo luogo la spartizione degli utili restringeva gli spazi per la pratica di prezzi concorrenziali in un momento in cui stava arrivando in Europa lo zolfo americano.
In secondo luogo la produzione selvaggia, priva di programmazione, determinò la saturazione della domanda e grandi quantità di zolfo dell'agrigentino rimasero invendute nei porti di Licata e Porto Empedocle.
Di conseguenza molte solfare dovettero chiudere i battenti, mentre in altre si ricorse al licenziamento" 

Si spiegano così le frequenti ed accese manifestazioni di protesta in molti comuni delle province di Caltanissetta ed Agrigento, come testimoniato - proprio per i solfatari di Comitini - da questa corrispondenza pubblicata il 6 settembre del 1907 dal "Corriere della Sera"

"L'agitazione degli zolfatari nei vari centri minerari della Sicilia  comincia a preoccupare, essendosi già verificati i primi conflitti e ferimenti.
Ieri nel comune di Comitini alquanti operai esercenti con bandiere, riunitisi nella piazza, improvvisarono un'altra dimostrazione emettendo le solite grida e chiedendo ai presenti che tutti si associassero alla manifestazione senza differenza di classi.
Arrivati in via Indipendenza, davanti al negozio di Girolamo Signorino, invitarono anche questi a seguirli.
In quel momento, non si sa ancora per quali cause, avvenne un vero tafferuglio, tale da indurre i carabinieri che si trovavano sul luogo a intervenire; ma dopo gli incitamenti alla calma, i carabinieri forse per intimorire la folla si diedero a menare calci e pugni.



Allora si videro partire dei sassi dalla folla contro i carabinieri, i quali, temendo una reazione violenta, spararono parecchi colpi ferendo al braccio certo Angelo Moscato e provocando un panico enorme.
Alle detonazioni accorse il delegato Covelli con parecchi carabinieri, i quali dandosi anch'essi a sparare in aria accrebbero lo spavento generale.
Altri carabinieri con baionette innestate si posero agli sbocchi delle vie per impedire il passaggio.
Proprio nella piazza, mentre una signora con un bambino in braccia ed un altro per la mano stava per passare da un negozio all'altro, si vide puntata da otto carabinieri.
Per l'inaspettata minaccia la povera donna non sapeva a qual partito appigliarsi e provò un momento d'indicibile terrore.
Il sindaco telegrafò subito al prefetto di Girgenti che inviò l'ispettore Montalbano per procedere a un'inchiesta e accertare le responsabilità"



   


sabato 8 dicembre 2018

I RIGOGLIOSI TEMPI DEL COTONE A GELA

Ragazzini ed adulti impegnati nella raccolta del cotone a Gela.
La fotografia venne pubblicata da "Italia nostra",
volume IV, edito nel 1965 da Federico Motta Editore
"Rigogliosi campi di cotone, specie nel gelese, hanno dato la possibilità al Cotonificio palermitano di poter lavorare finalmente l'autentico cotone siciliano, al quale è ricorsa tutta l'Europa durante le calamità di tutti i tempi"

Così scriveva nel luglio del 1956 la rivista "Siciliamondo", attestando la ricchezza di una coltura che per decenni ha costituito una delle principali fonti di ricchezza di Gela; ed in quello stesso anno, Daniel Simond poteva riferire in "Sicilia" ( Edizioni Salvatore Sciascia ):

"Le piantagioni di cotone coprono la pianura di Gela"



Soprattutto nei primi decenni dello scorso secolo, la cittadina nissena è stata il centro di produzione, sgranatura, pressatura ed imballaggio di una buona parte del cotone commercializzato in Italia.
Nel 1929, la piana di Gela era coltivata per un totale di 4.500 ettari, diventati 12.000 dieci anni anni dopo.
Nel 1951, si ottennero 50.000 quintali di fibra, ossia la grandissima parte della produzione nazionale. 
Nel periodo in cui "Siciliamondo" celebrava i "rigogliosi campi", Gela stava tuttavia per abbandonare la produzione di cotone per accogliere nel suo territorio agricolo gli impianti industriali per l'estrazione e la lavorazione dei prodotti petroliferi.
Centinaia di braccianti impiegati soprattutto nei mesi di settembre ed ottobre - uomini, donne ma anche bambini - smisero allora di piegarsi sui campi per raccogliere i bioccoli di cotone.



Molti lavoratori adulti finirono con il trovare lavoro nelle fabbriche dell'ANIC e nell'unica azienda locale che per una breve stagione ebbe radicamento grazie a tecnici e maestranze locali: la Gelaplastic, specializzata nella produzione di teloni per serre.
Da qualche anno, preso atto del sostanziale fallimento anche ambientale delle attività industriali, Gela ha tentato di rilanciare la produzione del cotone.
L'impresa non ha però avuto sinora confortanti risultati da un punto di vista commerciale, e dei "rigogliosi campi" celebrati da "Siciliamondo" rimane traccia solo nei ricordi dei gelesi più anziani.




    

   

sabato 1 dicembre 2018

I FELICI TUFFI A PORTO PALO DI CAPO PASSERO

Fotografia di ReportageSicilia

Il sole era tramontato da qualche minuto e l'acqua era così immobile da non provocare neppure un impercettibile sciabordio sulla spiaggia di sabbia e ciottoli. 
Nel silenzio del paesaggio di Porto Palo di Capo Passero, un bagnante ha trovato uno scoglio affiorante a qualche decina di metri dalla riva.
Come un bambino, ha iniziato a tuffarsi a ripetizione, unico e felice padrone del braccio di mare che separa l'imbarcadero dei pescatori dall'isolotto che ospita i ruderi di una vecchia tonnara.
Noi siamo rimasti lungamente a guardarlo, immaginando il piacere di quei tuffi in solitudine.
Il paesaggio ricordava una situazione raccontata da Italo Calvino in "Gli amori difficili":

"L'acqua era calma, con appena uno scambiarsi continuo di colori, azzurro e nero, sempre più fitto quanto più lontano.
Io pensavo alle distanze d'acqua così, agli infiniti granelli di sabbia sottile giù nel fondo, dove la corrente posa gusci bianchi di conchiglie puliti dalle onde".