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martedì 28 aprile 2015

ACQUARELLI AGRIGENTINI DI GINO FRATTINI

Un opuscolo turistico del 1947 ripropone quattro classiche vedute della Valle dei Templi firmate dal disegnatore ligure

Acquarello del tempio dei Dioscuri, ad Agrigento.
Le vedute del post sono opera di Gino Frattini,
disegnatore di paesaggi italiani che prima e dopo
il secondo conflitto mondiale illustrò opuscoli
di promozione turistica in molte regioni d'Italia.
Quello riproposto da ReportageSicilia
venne stampato nel 1947
dall'Ente Provinciale per il Turismo di Agrigento

Sino a qualche decennio fa - cioè sino a quando gli enti pubblici siciliani sembravano godere di infinite risorse finanziarie - la promozione turistica delle città e delle loro bellezze storico-artistiche poteva permettersi di ricorrere all'opera di illustratori di una certa fama.
Uno di questi è stato Gino Frattini ( Terrazzo 1891- Genova 1965 ), veronese di nascita ma ligure di adozione e ispirazione artistica.
Pittore di paesaggi e nature morte, Frattini fu un acquarellista che ha lasciato traccia in centinaia di vedute italiane che sembrano avere qualche legame con i canoni più classici della ripresa fotografica.




Nel suo peregrinare prima e dopo il secondo conflitto mondiale attraverso le più note località turistiche d'Italia, Gino Frattini non mancò di disegnare i luoghi della Sicilia.
Gli acquarelli riproposti da ReportageSicilia lo vedono nel ruolo di paesaggista in una Valle dei Templi di Agrigento convenzionalmente rappresentata nella stagione della fioritura dei mandorli.
Le quattro vedute dei templi dei Dioscuri, di Giunione, della Concordia e di Ercole vennero pubblicate in un opuscolo dell'Ente Provinciale per il Turismo di Agrigento, con l'indicazione "ristampato nel 1947 presso la S.A.I.G.A, già Barabino-Graeve - Genova".


Questa datazione potrebbe suffragare l'ipotesi che Frattini abbia eseguito questi acquarelli prima del 1940, e che il materiale sia stato recuperato dall'Ente Provinciale per il Turismo nei primi anni del dopoguerra per illustrare il pieghevole turistico.

       
Nelle pagine interne dello stampato sono presenti alcune delle fotografie in bianco e nero della Valle riproposte da ReportageSicilia ed un breve testo intitolato "I Templi, gli altri monumenti e le opere d'arte", a firma di D.Gueli.


La paradisiaca descrizione del paesaggio e la prosa ingenuamente aulica - specie quella che assegna ad Agrigento la romantica fama di buon ritiro mediterraneo, per quiete e calore -  fanno oggi sorridere:

"Pochi giorni basterebbero per visitare Agrigento e i suoi monumenti; ma la dolcezza del clima, mite in tutte le stagioni,la bellezza del paesaggio e la grandiosità dei ricordi ellenici, invitano il turista ad un più lungo soggiorno.
Agrigento e i suoi dintorni presentano all'ospite, sempre gradita, la scena esaltante e lieta di un'eterna primavera. 


Già nei primi di gennaio, quando altrove l'inverno dà alla Natura e alle cose un triste quadro di grigiore e melanconia, la Valle dei Templi e le sue campagne, inondate dalla più pura e calda luce del sole mediterraneo, si riveste del suo abito primaverile; sugli innumerevoli alberi di mandorlo sbocciano i rosati fiori, la terra si ricopre di un manto verde, in pochi giorni - non molto in là della fine di gennaio - un precoce miracolo di sole d'azzurro inghirlanda di fiori, dei suoi profumi e dei suoi colori quella terra che vestigia imponenti e maestosi di grandiosità classica, monumenti insigni, opere d'arte somme e i suoi Templi millenari, rendono celebre e celebrata nel mondo.


Non pochi sono i forestieri, stranieri del Nord in particolare, che si fermano a lungo negli alberghi della Valle dei Templi a svernare sotto la serenità calda e luminosa del cielo agrigentino, mentre altri vi eleggono definitivo domicilio per poter vivere sempre nel sole, lontani dalle brume diacce del settentrione..." 



lunedì 27 aprile 2015

SICILIANDO














"Nella solitudine siciliana ciascuno gioca la sua partita contro il resto del mondo: l'occasione che non viene bisogna andarsela a cercare"
Giuliana Saladino

IMMAGINI DI FATICHE FEMMINILI TRA XIX E XX SECOLO

Testimonianze di lavoro domestico collettivo dinanzi l'obiettivo di un fotografo nell'isola di un secolo fa



La scena si è ripetuta molte volte, sulle piazze di città e piccoli paesi, dinanzi alle facciate di chiese e castelli o di altri noti e meno conosciuti monumenti della Sicilia.
Tra la fine del secolo XIX e gli inizi del XX - nei primi decenni cioè della storia della fotografia - gruppi di persone in posa hanno fatto da figuranti alle immagini di edifici e paesaggi realizzate dai primi foto-documentaristi dell'isola.
Dinanzi agli obiettivi finivano le pose rigide e compiaciute di vecchi notabili, delegati comunali, semplici cittadini, contadini, carabinieri regi e monelli del luogo; persone oggi senza nome, ma capaci di raccontare vecchi frammenti di costume locale. 
Quasi mai nel ritratto fotografico collettivo c'era posto per le donne, la cui presenza sarebbe stata allora valutata come un gesto di inopportuno e impudico protagonismo.



Così, gran parte delle immagini femminili del tempo ritraggono momenti di vita e occupazioni tipicamente domestiche, perlopiù di gruppo; gli autori di questi scatti ci hanno così tramandato lo stato della condizione femminile in buona parte della Sicilia di un secolo fa.

"Per i tenaci pregiudizi che qui regnano - scriveva nel 1910 l'inglese Louise Hamilton Caico in "Sicilian ways and days"  ( un'autobiografia ambientata a Montedoro, nella Sicilia delle miniere di zolfo ) - una ragazza, fin dall'infanzia, non avrà mai contatti con altri ragazzi o uomini adulti. Non le è permesso di giocare con bambini dell'altro sesso né di guardare in faccia un uomo, quando sarà cresciuta.
Nessun ragazzo viene a far visita in casa - tutti gli uomini della sua famiglia incontrano i loro amici alla taverna - non partecipa alle feste di battesimo o di matrimonio, né le è permesso di andare a lavorare a giornata da una sarta o da una lavandaia ( il che le permetterebbe di contribuire al mantenimento della famiglia! ) e l'unico diversivo che le viene concesso è di andare a prendere l'acqua dalla fontana, quasi sempre vicinissimo alla sua casa..."




Le due fotografie riproposte da ReportageSicilia documentano appunto le vite di gran parte delle donne siciliane di quegli anni, molto lontane dai fasti di donna Franca Florio e di altre note esponenti di famiglie dell'aristocrazia palermitana e catanese.
Le immagini sono tratte dal I volume della guida "Sicilia", collana "Guide Regionali Illustrate", edita nel 1921 dall'Ente della Direzione Generale delle Ferrovie dello Stato e dal Touring Club Italiano.
La prima fotografia ritrae un gruppo di donne e ragazzine, probabilmente nei pressi di una fontana ( come lasciato intuire dalla presenza nella scena di alcune "quartare" per il trasporto di acqua ).
La seconda immagine mostra invece la quotidiana fatica femminile del lavaggio dei panni in una sorgente a Carini, in provincia di Palermo.



Qui le donne riprese dall'anonimo fotografo non hanno voglia di mettersi in posa: sembrano fissare sorprese l'obiettivo, mentre le braccia piegate sui panni indicano la volontà di non perdere neppure un attimo del tempo loro dedicato al lavoro domestico.      
    

sabato 25 aprile 2015

COSE SICILIANE














La prima volta in cui la via Pecori Giraldi di Palermo finì negli articoli dei giornali fu quando si scoprì che lì abitava il boss e killer corleonese Leoluca Bagarella, allora ancora latitante.
Era il 1979, e da quella scoperta sarebbe scaturita un'inchiesta giudiziaria che di lì a breve venne seguita dall'omicidio di Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile.
In questi giorni, la via Pecori Giraldi è tornata al centro delle attenzioni per un'altra morte, diversa da quella di Giuliano, ma anch'essa destinata a raccontare una storia assai amara e molto palermitana: quella di Giovanni Giancarlo Lo Porto, il cooperante di Brancaccio ucciso "per errore" nel gennaio scorso da un drone americano in Pakistan.
Lo Porto abitava appunto in via Pecori Giraldi, dove adesso familiari ed amici attendono di sapere se potranno celebrare un funerale con i suoi resti.
Il senso morale della morte di Giovanni Giancarlo Lo Porto - oltre all'evidenza delle perplessità e delle ambiguità sollevate del tragico evento, da un punto di vista militare, diplomatico e politico ( vedi pure l'assenza di massa dei parlamentari durante il dibattito in aula del ministro Gentiloni )  - è stato indicato da un bellissimo articolo di Francesco Merlo apparso oggi su 'la Repubblica'.
Lo scritto del giornalista catanese è ricco di "pietas" e di una consapevole fierezza che, senza retorica, affermano una verità incontestabile sulla morte di Lo Porto e su una parte della storia siciliana degli ultimi anni:

"... Lo Porto era era figlio della Sicilia più criminale, con quattro fratelli maschi che a Brancaccio ancora oggi si arrangiano come possono.
Ebbene a 18 anni Giancarlo emigrò perché, come tutti i siciliani che sono in fuga senza fine, aveva deciso di riconvertire la disperazione in un coraggio, ma disciplinato.
E in un'università inglese trasformò in scienza della solidarietà l'energia da rodomonte che è tipica del suo quartiere-universo.
E' infatti molto siciliano l'impulso di salvare, di assistere, di aiutare, roba da comunità e non da società come insegnavano già nei primi del Novecento i positivisti: l'economia del vicolo come valore.
Lo dico con fierezza: la generosità è un umore dell'isola, è l'accoglienza degli immigrati nelle case dei lampedusani che lasciano le porte sempre aperte, è l'abbattimento dei confini etnici forse per una sorta di fusione naturale tra disintegrati.
Ed è anche siciliano Ignazio Scaravilli, il medico di 70 anni che è stato rapito in Libia il 6 gennaio e di cui non si sa più nulla.
E' di Enna Fabrizio Pulvirenti di Emergency, che si è ammalato di ebola ed è riuscito a guarire.
Tra i cooperanti sono moltissimi i meridionali che, soprattutto nei Paesi del Mediterraneo, ritrovano il codice del Sud d'italia, dal familismo alla vischiosità dei rapporti sociali, e poi il cibo, i paesaggi, la violenza, l'aria strafottente e affascinante della sfida alla vita...
Ed era di Catania Fabrizio Quattrocchi, quello di 'vi faccio vedere come muore un italiano'.
Ha ragione il sindaco Leoluca Orlando a prevedere un grande funerale di popolo: lutto cittadino, veli neri, lacrime, la verità della disperazione, una bara vuota portata in braccio, l'ultima emozione per una morte che senza corpo, a Palermo, non ha dignità di morte, ma è solo un mistero della tecnologia.
Morire di drone è come sparire dentro un pilone di cemento, come dissolversi nelle vasche dell'acido, andarsene con la lupara bianca.
E per giunta qui il 'drone' è pure "amico".
Ecco l'amaro miele di Gesualdo Bufalino: il lutto senza la luce."  


    

giovedì 23 aprile 2015

I 150 ANNI DI CERTIFICAZIONE DELLA "MAFIA"

Un articolo di Attilio Bolzoni ed una pagina di Domenico Novacco fanno la storia della prima attestazione del termine, utilizzato nel 1865 da un delegato di polizia a Carini


Due briganti isolani in una fotografia
databile fra la fine del secolo XIX e gli inizi del XX.
L'immagine è tratta dalla ristampa anastatica
del saggio di Antonino Cutrera "La mafia e i mafiosi" ( 1900 )
edita nel 1996 a Palermo da Bruno Leopardi Editore

Difficilissimo esercizio, per studiosi e storici di vicende siciliane, risalire alle origini filologiche ed alle prime attestazioni dei termini "mafia" e "mafiosi" nella pubblicistica e nei documenti ufficiali.
Il pensiero corre subito al boss letterario di Leonardo Sciascia che nel racconto "Filologia" ( "Il mare colore del vino", Einaudi, 1973 ) così metteva in guardia un "picciotto" sull'etimologia della parola "mafia":

"Questa è poi una di quelle parole su cui si possono dire le più diverse fesserie; fesserie dotte, che hanno tutte una loro logica..."

All'insidioso esercizio filologico si è sottoposto anche il giornalista Attilio Bolzoni, in un reportage pubblicato dal quotidiano "la Repubblica" lo scorso 19 aprile, dal titolo "La parola Mafia".
Scrive Bolzoni:

"E' la parola italiana più famosa al mondo. Più di pizza, più di spaghetti. Presente in tutti i dizionari e nelle enciclopedie di ogni Paese, di etimologia incerta - deriva da 'maha^fat^', espressione araba che vuol dire immunità? Da un antico termine toscano che indicava ostentazione e boria? - fino al secondo dopoguerra si scriveva e si pronunciava con due 'effe'..."


Una stampa popolare che illustra
il processo  per il delitto
del direttore del Banco di Sicilia, Emanuele Notarbartolo,
compiuto nel 1893 fra Trabia e Termini Imerese.
Il caso giudiziario che ne se seguì
fu uno dei primi ad evidenziare i rapporti tra mafia e politica.
L'immagine è tratta dal saggio di Michele Anselmo
"Mafia. Che fare?, edito nel 1983
da "il Foglio" di Palermo


L'articolo di Attilio Bolzoni - cronista fra i più addentro alle cronache siciliane di mafia degli ultimi decenni - è tuttavia più interessante e offre al lettore maggiori certezze per l'indicazione relativa alla prima attestazione storica del termine "mafia" in un documento dello Stato:

"Un fascicolo prefettizio non ha mai fatto la storia, però quello che il marchese Filippo Antonio Gualterio ha inviato al ministro dell'Interno del Regno Giovanni Lanza si è rivelato un segnatempo decisamente importante: indica la data esatta di quando la Mafia ha cominciato a chiamarsi Mafia. Centocinquanta anni fa. Documento con tanto di bollo e stampa con croce sabauda, viva il Re e viva l'Italia. Era il 25 aprile del 1865...
Fu solo il Prefetto di Palermo, il marchese Gualtiero, in quella primavera del 1865 - Garibaldi era sbarcato a Marsala appena cinque anni prima - ad avvisare 'di un grave e prolungato malinteso fra il Paese e l'Autorità', annunciando il pericolo che la 'cosiddetta Maffia od associazione malandrinesca potesse crescere in audacia, e che, d'altra parte, il Governo si trovasse senza la debita autorità morale per chiedere il necessario appoggio alla numerosa classe di cittadini più influenti per senso di autorità...'


Un ritratto di Filippo Antonio Gualterio,
orvietano e prefetto a Palermo tra il marzo del 1865
e l'aprile del 1866.
In una sua relazione inviata al ministero dell'Interno
e basata su un rapporto di un delegato di polizia a Carini
si utilizzò per la prima volta in un documento ufficiale
il termine "mafia".
L'immagine è tratta da http://www.senato.it/home


Già nel 1963 - anno di istituzione della Commissione Parlamentare Antimafia - lo storico e saggista catanese Domenico Novacco aveva ricordato con qualche indicazione più precisa quel documento rivelatore di Filippo Antonio Gualterio.
Nell'utilizzare il termine "mafia", il prefetto di Palermo tuttavia non fece altro che utilizzare una denominazione contenuta in un rapporto di un delegato di polizia ( rimasto senza nome ) allora in servizio a Carini, nel palermitano:

"Il primo funzionario che, in un rapporto amministrativo, usò il termine 'mafia' per indicare la malavita fu il prefetto di Palermo Filippo Gualterio, nel 1865.
A lui - scrisse Novacco in "Inchiesta sulla mafia" ( Feltrinelli, 1963 )- era pervenuta dal delegato di pubblica sicurezza di Carini, una memoria, in data 10 agosto 1865, in cui, a proposito di alcuni arrestati, si avanzava la specifica accusa di mafia.
E così il termine rimbalzò fin sul tavolo del ministro degli Interni.
In quell'anno e nei successivi la mafia fece una timida comparsa nei rapporti dei funzionari locali: ma ancora non si distingueva in alcun modo mafioso da manutengolo e da malandrino.
Non si era ancora capito che, se il fuorilegge era l'eccezione, la mafia era la regola, se il fuorilegge era il braccio, la mafia era il tessuto connettivo solido e profondo.
Solo lentamente il termine, che pure esisteva nel dialetto locale ma in un significato diverso, prese a indicare chi, al di fuori delle autorità costituite, ma non necessariamente in lotta con esse, opponeva la solidarietà degli 'uomini di panza' ( capaci cioè di mantenere un segreto ) alle leggi dello Stato..."



Due anni prima del rapporto del prefetto Gualterio - nel 1863 - il termine "mafia" aveva già conosciuto notorietà a Palermo grazie alla celebre rappresentazione teatrale "I mafiusi di la Vicaria", del capocomico Giuseppe Rizzotto e del suggeritore Gaspare Mosca.
Ispiratore di Rizzotto e Mosca fu tale Iachino detto Funciazza, gestore di una malfamata taverna nell'attuale zona di piazza Indipendenza, archetipo dei successivi e più noti mafiosi di rango della zona di Porta Nuova.
Nel 1962, il magistrato e saggista palermitano Giuseppe Guido Loschiavo avrebbe invece così fissato nel 1860 l'inizio del corrente utilizzo dei termini "mafia" e "mafiosi"

"Il vocabolo 'mafioso', cioè di appartenente alla 'mafia' - si legge in "100 anni di mafia", edito da Vito Bianco Editore - cominciò ad essere espresso e conosciuto dopo l'entrata di Garibaldi a Palermo ( 27 maggio 1860 ), dopo che erano stati riconosciuti benemeriti della causa nazionale quei 'picciotti' e quelle 'bonache', i più appartenenti alla 'società di uomini d'onore', che custodivano le terre proprio di quei tali nobili, che avevano sollecitato la caduta del regno borbonico.
Gli appartenenti alla 'società degli uomini d'onore', e per essere precisi alla 'società', non erano stinchi di santo: erano della razza di quel tale capraio, 'u zu Piddu Rantieri' dei moti del 4 aprile 1860, cioè gente coraggiosa, spericolata, che l'amicizia anteponevano ai vincoli di parentela e per i quali la 'parola', la 'promessa', valeva più di un atto scritto...


Donne a lutto per la morte
del boss Calogero Vizzini, a Villalba, nel luglio del 1954.
La fotografia è tratta dal saggio di Michele Pantaleone
"Il sasso in bocca", edito da Cappelli nel 1970

Nel 1854, pur essendovi notizia del movimento clandestino anti borbonico, pur non ignorandosi che la tutela della proprietà terriera ( latifondo e feudi ) era affidata a particolari gruppi di custodi, guardiani, fra loro associati, non si usavano i vocaboli 'mafia' e 'mafiosi': tutto al più si indicavano quei gruppi come gli 'uomini' di un determinato autorevole personaggio ( per esempio 'dello zio Piddu Rantieri' ) ovvero di una determinata località o comune ( per esempio, gli 'uomini', sottinteso 'd'onore', di Boccadifalco, di Resuttana Colli ( borgate di Palermo ), di Monreale, di Misilmeri, ecc. )..."




In tema di "mafia" e "mafiosi", infine, piace a ReportageSicilia ricordare una delle più note considerazioni espresse da Giovanni Falcone:

"La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi una fine"

Ad oltre vent'anni dalla strage di Capaci, la previsione di Falcone induce a pensare che i tempi di estinzione della mafia e dei mafiosi siano ancora molto lontani.
Servirebbe una mobilitazione civile dei siciliani, in grado di far cambiare le logiche di gestione del potere politico e della burocrazia, così da annullare ogni possibilità di ingerenza criminale nell'amministrazione della cosa pubblica; e servirebbe pure una gestione delle attività economiche libera dall'imposizione del pizzo e nella scelta di fornitori e collaboratori, e scuole capaci di formare con lo studio e nell'etica i futuri cittadini dell'isola.


Una conferenza stampa di Giovanni Falcone a Palermo.
La fotografia è di Mike Palazzotto
ed è tratta dal libro di Giovanni Falcone
e Marcelle Padovani "Cose di Cosa Nostra"
 edito da Rizzoli nel 1991

L'attesa di tutto questo - e di molte altre opportunità di crescita sociale - appare ancora lunga, e poco confortata da un altra considerazione lasciataci ancora da Falcone:

"La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano.
Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società.
Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione" 
   

  
     

sabato 18 aprile 2015

LA CATTURA INGLESE DEI PUPI DI ACIREALE

Una pagina dello studioso Sandro Attanasio ricostruisce la razzia dei paladini del 'puparo' Emanuele Macrì durante l'invasione anglo-americana della Sicilia

Agramante e Rodomonte,
due dei personaggi dell'Opera dei Pupi.
La fotografia è di ReportageSicilia

"La verità è che in Sicilia, saccheggiatori furono tutti: militari e civili, italiani e tedeschi ( e anglo-americani ) che diedero l'assalto ai depositi, ai magazzini, ai negozi, alle abitazioni civili. 
Quella orientale, che era zona di occupazione britannica, fu sottoposta a un duro trattamento coloniale. 
Spoliazioni, furti e razzie furono all'ordine del giorno.
Gli inglesi trasferirono nel Nord Africa i prigionieri di guerra.
Assieme ai militari deportarono migliaia di civili che in dispregio a ogni norma di diritto internazionale furono considerati prigionieri di guerra.
Bollati con la scritta PW sulle casacche, furono spediti nei terribili campi del Nord Africa, gestiti dai neo vincitori francesi.
Un'immensa folla di altri disgraziati, in attesa di imbarco per l'Africa o per altri lidi lontani, venne rinchiusa nei campi dell'isola..."

Così il ricercatore e storico Sandro Attanasio descrisse nel saggio "Sicilia senza Italia, luglio-agosto 1943" ( Mursia, 1976 ) le piaghe delle depredazioni e delle prigionie che aggravarono la conta delle vittime e dei danni provocati nell'isola dal secondo conflitto mondiale.

Foto ReportageSicilia

Tra gli infiniti episodi di razzia da attribuire alle truppe inglesi ve ne è uno insolito e dimenticato nella storia dell'operazione "Husky".
Ebbe luogo ad Acireale, dove i tedeschi si ritirarono dopo avere rinunciato a far saltare in aria numerosi palazzi barocchi ed il municipio, e dove qualcuno, dopo avere sgozzato due soldati di guardia, trafugò casse di denaro dal vagone di un treno:  

"Entrati in Acireale - scrisse ancora Attanasio - gli inglesi completarono l'opera di saccheggio iniziata dai ladri indigeni.
Fra l'altro gli inglesi bivaccarono nei locali del Teatro Pennisi sede della prestigiosa Opera dei Pupi del famoso 'puparo' don Emanuele Macrì. E tutti i pupi del teatro, centinaia e centinaia, furono 'catturati' dai britannici e fatti sparire..."

Foto ReportageSicilia


Don Emanuele Macrì, messinese e figlio adottivo di Mariano Pennisi, nel 1943 insieme a Paolo Messina era il "puparo" più in vista della cittadina catanese. 
Forse intimoriti dagli sguardi fieri e dalle luccicanti armature, i soldati inglesi fecero prigionieri Orlando, Rinaldo, Bradamante, Ruggiero, Agramante, RodomonteCarinda, Astolfo, Fiorindo, Ferraù ed altri valorosi pupi del teatro. 
Nessuno di loro ha probabilmente conosciuto gli stenti dei campi di prigionia africani; è invece probabile che più di un superstite serva ancora oggi da esotico ornamento nelle case abitate dai discendenti di qualche soldato di Sua Maestà britannica. 

Sbarco di truppe anglo-americane
su un tratto di costa siciliana, nel luglio del 1943.
La fotografia è tratta dall'opera
Rassegna Enciclopedica Labor 1935/1951,
edita a Milano nel 1951


  

mercoledì 15 aprile 2015

LA 'BOTTA DI VITA' DEL MAGNIFICO RISTORANTE SPANO'

Una fotografia di Enzo Sellerio ricorda lo storico ristorante palermitano di via Messina Marine, riproponendo volto e costume della città di sessant'anni fa

Interno del ristorante Spanò in via Messina Marine,
con vista sul golfo di Palermo e sul monte Pellegrino.
La fotografia di Enzo Sellerio ed è datata 1954.
L'immagine è tratta dal volume
"Enzo Sellerio-Fotografie 1950-1989",
edito nel 2000 da Federico Motta Editore 

Il ricordo del ristorante Spanò in via Messina Marine si conserva nella memoria dei palermitani più anziani al pari dell'odore di alghe e salsedine che sino a mezzo secolo fa riempiva ancora l'aria di quest'angolo di costa, alla periferia orientale della città. 
Luogo di appagamento gastronomico e di incontro informale per professionisti, intellettuali, boss mafiosi e viaggiatori stranieri, Spanò offriva freschissimo pesce e frutti di mare con l'oleografica vista sul monte Pellegrino disteso su Palermo e sul suo golfo.
Costruito su palafitte di legno, il locale - ha scritto il giornalista Francesco La Licata - fu "un antichissimo esempio di abusivismo demaniale tollerato da tutti i palermitani che andavano da Spanò per una 'botta di vita' tanto rara da potere essere raccontata per lungo tempo. Era il ristorante dove da bambino ti portavano gli zii d'America".



La fotografia del locale di Enzo Sellerio riproposta da ReportageSicilia risale al 1954, anno in cui lo scrittore James Reynolds ricordò nell'opera "Pageant of Italy" ( Putnam's Sons, New York ) un mirabile cuscus consumato proprio su un tavolo di Spanò.
Lo scatto - tratto dall'opera "Enzo Sellerio - Fotografie 1950-1989", Federico Motta Edizioni, 2000 - rievoca la semplice ospitalità offerta da questo ristorante di legno: i tavoli apparecchiati con i piatti in ceramica con il logo "Spanò" ed i tovaglioli sistemati all'interno dei bicchieri, il posacenere e la saliera in acciaio, gli 'scuri' aperti alla brezza del mare e con la vista su monte Pellegrino.



L'immagine di Sellerio è oggi un frammento di memoria di una Palermo capace di offrirsi ancora ai palermitani ed ai viaggiatori come città di mare: nel gusto dei piatti, negli odori del suo litorale allora quasi integro e nel colpo d'occhio offerto dal paesaggio. 
Ancora nel 1956 la guida "Palermo" di Gaetano Falzone ( Azienda Autonoma di Turismo per Palermo e Monreale ) raccomandava la passeggiata lungo la via Messina Marine ( "località molto frequentata da bagnanti, per gli stabilimenti che vi sorgono ogni estate, e da buongustai attratti tutto l'anno da alcune trattorie sul mare, di ottima fama..." ).
Oltre al ristorante Spanò, pesce e frutti di mare erano infatti la base dei menù offerti da Di Filippo, da Santa Rita e dall'altro locale più noto della zona, Renato
Qualche decennio dopo, la spartana accoglienza di Spanò non sarebbe stata più gradita dai clienti della Palermo ingrassata dalla speculazione edilizia mafiosa, dai traffici di droga e dall'ascesa economica di una potente classe di burocrati regionali.



Pranzi e incontri d'affari avrebbero trovato più esibito decoro e tono nei lussuosi ristoranti del centro città, come il Charleston di piazzale Ungheria: luogo anch'esso scomparso da tempo dalla storia di Palermo, città che sembra avere smarrito ogni memoria del suo passato e - purtroppo - anche la strada del suo futuro.     

martedì 14 aprile 2015

SICILIANDO














"Per ogni vero siciliano, la Sicilia vale come mondo"
Enzo Bilardello

VULCANO, L'INFERNO DI ZOLFO IN UN RACCONTO DI VITALIANO BRANCATI

Nel 1951 lo scrittore di Pachino descrisse lo scenario apocalittico dell'isola delle Eolie, fra bollori d'acqua, fumi di zolfo e "vigne dal colorito febbricitante"


L'istmo che unisce Vulcano a Vulcanello, nelle Eolie.
Sullo sfondo, Lipari.
Le fotografie del post vennero pubblicate
nel volume "Volto delle Eolie" edito nel 1951
da Flaccovio Editore Palermo
con testi di Vitaliano Brancati,
Fosco Maraini e Massimo Simili


La storia di Vulcano è stata per lungo tempo legata all'immagine di un'isola inospitale, di una zolla d'inferno galleggiante e sibilante di vapori bollenti, a cancellare ogni possibilità di vita umana.
L'orrido di quest'angolo delle Eolie si è mitigato soltanto agli inizi degli anni Cinquanta, quando lo sviluppo del turismo ha reso meno aspri i soggiorni a Vulcano.
In quel periodo nacquero le prime strutture alberghiere - la pensione della famiglia Conti, cresciuta intorno alla baracca di Enrico, venditore di cappelli, zoccoli, nonché barbiere e suonatore di chitarra - mentre nel 1950 l'esploratore Fosco Maraini così descriveva l'isola:



"è un lembo di stella, le sue rocce non sono rocce ma processioni di dromedari fusi, lotte d'iguanodonti torturati, sfaldarsi d'ornitorinchi lebbrosi, esplodere di giraffe in fiamme.
Il mare entra nelle viscere dell'isola, l'isola pugnala il mare coi suoi capi contorti. Dappertutto fumacchi e zolfi, vapori e anidridi"



Allo stesso periodo della descrizione di Vulcano fatta da Maraini si deve un reportage dell'isola dello scrittore pachinese Vitaliano Brancati.
Il suo resoconto venne pubblicato nel saggio "Volto delle Eolie", pubblicato da Flaccovio Editore Palermo nel 1951.


Il porto di Levante visto da Vulcanello

Il porto di Ponente


Il racconto è interessante perché ricostruisce le vicende storiche dell'isola fra la fine del secolo XIX e il XX, quando la proprietà di Vulcano passò dall'imprenditore scozzese di Glasgow James Stevenson - che ne sfruttava i borati - al suo tetro amministratore, certo Harley, e da quest'ultimo alla famiglia di Lipari dei Favaloro.
 Insieme al racconto di Brancati, ReportageSicilia ripropone nel post anche le fotografie pubblicate a corredo del testo.

"Da cinque giorni in quest'isola vulcanica - scrive Brancatia mezz'ora di barca da Lipari.
Il mare luccica da ogni parte, chiuso da ogni parte fra rupi nere, ritte, col le corna; dai crepacci, che si aprono mollemente e in silenzio, fuma lo zolfo; una spiaggia è tutta di zolfo, e l'acqua che la bagna va bollendo; nell'interno dell'isola, la terra è arida e nerastra, le canne vi nascono già fradice, il verde delle vigne è sospetto come il colorito dei febbricitanti.


Ancora il porto di Levante, visto dal cratere grande

Il corvo svolazza a uncino sulla campagna, e di tanto in tanto precipita come un'ancora che si sia staccata dalla catena.
Quest'isola ha una storia singolare.
I Borboni le regalarono a un signore inglese che non volle mai abitarla.
Mandò in sua vece sua un amministratore, un certo Harley, se ho capito bene il nome, un uomo gelido e decadente che sguinzagliò subito per tutta l'isola dei cani feroci il cui urlo e sgretolare di denti teneva al largo qualunque estraneo.
Si fece costruire un palazzo neoclassico, con portici e colonne, e spianò dei viali lunghissimi, per i quali, ogni pomeriggio, passava tintinnando con la quadriga di cavalli neri.
Era un uomo inospitale, e stabiliva immediatamente, fra sè e gli altri, una corrente di dispetto.


Ovini sulla terra arida di Vulcano

I cani, accarezzati dalla sua mano, lievemente pelosa e sempre con le dita strette, si facevano più feroci, come gatti strofinati contropelo; i barcaioli rispondevano al suo sguardo con la promessa di diventare il meno umani che riuscisse possibile alla loro indole mediterranea; i cavalli, appena egli li sfiorava con la frusta, s'abbassavano sui garetti, e volavano con il visibile intento di buttarsi a chiodo nel mare, all'orlo del quale però un urlo secco del padrone li arrestava e immobilizzava come simulacri. 
Un pomeriggio, i due figli di Harley, nonostante il divieto del padre, presero una barca e salparono per Lipari.
Il mare era furiosissimo, e l'odore dello zolfo, sbattuto giù dal vento, irritava le gole dei sempre esacerbati abitanti dell'isola, uomini o animali che fossero.
D'un tratto, la barca dei giovani Harley salì al cielo e ripiombò capovolta.


Getti di vapore sull'isola.
Dopo i Borboni,
l'imprenditore scozzese James Stevenson
fu uno dei proprietari di Vulcano,
sfruttandone i borati 

Harley, avvertito dai servi, era già sulla riva, con le braccia conserte e il frustino sotto l'ascella. I pochi marinai presenti, ansiosi di portare aiuto ai naufraghi, tirarono rapidamente e faticosamente un lungo barcone fuori della sabbia e lo spinsero fra gli urti spaventosi del mare.
Ma Harley li fermò con lo sguardo.
'No', disse, 'no!...'
I marinai mogi mogi ritirarono la barca sulla sabbia, si fecero il segno della croce e diedero le spalle al mare, acui invece Harley continuava a stare rivolto. Di tanto in tanto gettavano una sbirciatina sul viso di lui, cercando di leggervi cos'andasse accadendo ai due sciagurati rimasti in preda alle onde.
Ma il viso del padrone era impassibile, gli occhi vitrei non specchiavano nulla, il naso diritto sembrava, come sempre, vuoto d'aria e di respiro.
D'un tratto, una smorfia di dispetto vi si disegnò come un fulmine.
Harley si volse, salì con un salto sulla quadriga, frustò i cavalli e disparve.
Un minuto dopo, arrivarono stremati, zuppi, seminudi, pallidissimi, i due giovani figli.


Sopra e sotto,
le fumarole di Vulcano




La notte, il palazzo rimaneva illuminato: con l'intensità e la costanza di chi si applichi a uno studio, Harley beveva; ogni tanto, veniva sulla terrazza e s'appoggiava alla balaustra, perfettamente immoto, lasciandosi penetrare dal silenzio del mare e del cielo come dal gelo necessario al suo cuore freddissimo.
Un giorno però, mentre egli sedeva solo solo alla sua lunga tavola, i cani emisero un gemito: poco dopo, un crepaccio si aprì nel pavimento e un soffione di zolfo riempì la stanza di puzza e di luce verdastra.
Subito il soffitto s'inclinò, le colonne si contorsero, un fumo intollerabile avvolse ogni cosa.
Il cuore fa dei brutti scherzi. Per sessant'anni, il cuore di Harley era stato coperto di gelo: d'un tratto, esplose in un sentimento di paura.
Tutti gli animali che tremano, senza il soccorso e i freni della ragione, senza che un ricordo, una parola, un'idea venga a salvarli, ebbero in quest'uomo il peggiore esemplare di se stessi.
Harley fuggì a testa bassa verso la riva, si cacciò in una barca, respingendo a colpi di remo i cani che volevano seguirlo e di cui egli aveva ormai un misterioso fastidio come di complici pericolosi, e, remando col fiato tra i denti, sempre a testa bassa, s'allontanò verso Lipari.
Non volle mai più tornare a Vulcano che vendette a tre cittadini di Lipari.
Di questi, due dovettero contrarre gravi debiti per procurarsi la somma richiesta da Harley. Dopo pochi anni, scadenze e interessi li oppressero a tal punto che furono costretti a svendere le loro due parti a un certo signor Fav...
questi era un siciliano ricco, pigro e pieno di pregiudizi.
Per lui era importante possedere: mettere il proprio nome su una distesa di terra. Le cose disonorevoli erano due: vendere, perché voleva dire trovarsi in cattive acque; e coltivare eccessivamente le proprie terre, perché voleva dire spremerle, avere bisogno, supplicare alberi ed erbe di fargli la carità di una rendita straordinaria.
Con queste leggi, applicate con tanto scrupolo che egli non solo non coltivò eccessivamente le sue terre, ma non le coltivò affatto, il signor Fav. visse e morì.


Abitazioni primitive nella roccia di Vulcano

Oggi le proprietarie di due terzi di Vulcano sono due signorine anziane. I crateri di Vulcano sono due: ciascuna signorina Fav. ne possiede uno, con tutto il territorio circostante.
Non vogliono vendere e non vogliono coltivare. In questa terra arida, basta scavare per una profondità di quattro metri , come ha fatto un animoso italo-americano, il signor Ferlazzo, e l'acqua zampilla.
tre mesi di lavoro intenso, e quest'isola infernale sorriderebbe.
Ma qui non si coltiva quello che si possiede, né si vende quello che non si vuole coltivare.
Le due padrone abitano a Lipari e le sere d'estate guardano da lontano i loro crateri.
'E' il tuo che fuma?' dice una sorella all'altra.
'Si, è il mio. Ma mi pare che anche il tuo mandi puzza di zolfo'.
Seggono al balcone di una casa modesta e poggiano la fronte contro la ringhiera di ferro.
Non sognano, non sperano, non temono, non hanno bisogno di nulla.
In un simile stato, il sonno arriva subito: basta reclinare la testa e il cervello, vuoto di pensieri, si riempie di una tenebra densa.
Così s'addormentano. A distanza, dietro le loro palpebre abbassate, i due loro crateri si vanno riempiendo di luce lunare che, mista al verde e al rossigno della pietra, riverbera intorno una luce da oreficeria del diavolo".

   

giovedì 9 aprile 2015

DISEGNI DI SICILIA


LUIGI DI GIOVANNI, Ritratto di contadina siciliana, 1882 (?)

mercoledì 8 aprile 2015

INVOCAZIONI, CANTI E GIOCO NELLA RACCOLTA DELLE OLIVE

La descrizione di una giornata di lavoro in un oliveto in una pagina del 1962 dello studioso di tradizioni popolari Aurelio Rigoli


Raccolta delle olive nelle campagne palermitane.
L'immagine è di Publifoto ed è tratta
dal I volume dell'opera "Sicilia" edita nel 1962 da Sansoni
e dall'Istituto Geografico De Agostini


Nelle scorse settimane, la guida "Oli d'Italia 2015" del Gambero Rosso ha premiato con tre foglie e due foglie rosse ben 21 oli siciliani: un record a livello nazionale, a conferma delle potenzialità di un settore agricolo sviluppatosi oltre 2500 anni fa con la fondazione delle prime colonie greche.
Secoli dopo, Lucio Giunio Moderato Columella - scrittore latino del I secolo d.C - nell'opera "De re rustica" scriveva che in Sicilia era diffusa una pietanza realizzata con un pesto di olive arricchito da armi e sale, la 'sampsa' ( un termine che secoli dopo si sarebbe trasformato in 'sansa', ad indicare i residui della spremitura dell'olio ). 
Certo, rispetto al passato, i processi di meccanizzazione hanno soppiantato nell'isola  il lavoro del "carramaturi" del "cutulaturi" e del "cugghiuturi" ( gli abbacchiatori ed il raccoglitore delle olive ), o fatto perdere l'uso di motti contadini come "l'oliva, quantu cchiù penni, tantu cchiù renni".
Sino a qualche decennio fa, in alcune aree della Sicilia era ancora possibile assistere alla raccolta manuale delle olive, dalle foglie minute e chiare: un lavoro assai faticoso, tramandato per generazioni e che conservava i tratti secolari di un rito cui prendevano parte intere famiglie, senza esclusione di sesso e di età.


Un ulivo secolare della Valle dei Templi, ad Agrigento.
La fotografia è firmata Stefani e venne pubblicata
nel II volume dell'opera "Sicilia"
edita da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini

Nel 1962, lo studioso palermitano di tradizioni popolari Aurelio Rigoli - già allievo di Giuseppe Cocchiara ed in seguito fondatore del Centro Internazionale di Etnostoria - così descrisse questa attività agricola:
    
"Scendono rigogliosi gli olivi d'argento verso il mare; sono grandi, ricchi di rami, solidi come costruzioni di pietra, antichi. 
Così antichi che il contadino, forse rievocando i remoti sbarchi di flotte orientali, li fa risalire all'epoca dei saraceni, fino a chiamare ogni grande olivo, più brevemente, 'saracinu' o 'saracinescu'.
Tanto più 'saracinu' sarà l'olivo, tanto più abbondante la sua produzione, come vuole il proverbio 'olivari di tò nannu...' ( piantati dal nonno ).


Ulivi nelle campagne palermitane
a ridosso del golfo di Castellammare.
La fotografia è di Rudolf Pestalozzi
ed è tratta dal volume di Giovanni Comisso "Sicilia",
edito a Ginevra da Pierre Cailler nel 1953

E con i sereni di aprile, comincia l'ansioso spiare, tra le fronde annose, della prima fioritura; se la pianta fiorisce ad aprile, infatti, ricco sarà il raccolto, meno ricco se in maggio, scarsissimo se in giugno: 

'Si l'olivuzza sbuccia 'ntr'aprili, basta pri cogghirla cu lu varrili; s'a maju affaccianu li buttunedda, basta pri jinchiri 'na misuredda; mi si ritarda pri sinu a giugnu, jirrai cugghiènnulla a pugnu a pugnu'

Ed eccoci alle giornate di raccolta.
Dall'alba al tramonto, l'oliveto si trasforma in una grande nave con uomini indaffarati in coperta arrampicati sugli alberi, sulle coffe; l'immagine non sembri troppo forzosa; tanto è ancora viva la natura marinara sotto le vesti del contadino che il gruppo delle donne, dei fanciulli, dei pescatori addetti a raccogliere le olive, viene chiamato 'ciurma'.
Sull'olivo intanto l'abbacchiatore, detto 'carramaturo' o 'scutulaturu' a seconda che bacchi o scuota i rami, procura lavoro alla ciurma: poetica è l'immagine popolare per questa distinzione dei due tipi di lavoro, l'uno frenetico e l'altro invece calmo:

'A l'olivi un pazzu a la testa e un saviu a li piedi'


Il contorto disegno dei tronchi degli ulivi.
L'immagine è di Rudolf Pestalozzi, opera citata


Tutte le manovre sulla grande nave sono sincronizzate e regolate da leggi e abitudini severe, e presiedute da un contadino nel ruolo di capitano.
A ogni albero viene destinata una ciurma di nove donne: una di esse, si fa un ampio segno di croce, un'altra, di rimando, grida a voce spiegata:

'In nome di Dio!

e la raccolta comincia.
Sono queste donne della ciurma a rompere la solennità del lavoro, a incidere il tempo con canti, filastrocche, bisbigli, invenzioni.
E queste variazioni femminili, attese dagli uomini con segreto divertimento, si intonano all'umore del capitano e del padrone del podere che vengono spiati via via che il lavoro prende il suo ritmo.
Sarà la più giovane e la più vivace a spiegare la voce in una prima cantilena nella quale confluiranno a una a una le voci delle ciurme che coronano gli alberi, finché tutto l'oliveto vibra del nostalgico canto d'amore:

'O chi bedda jurnata ch'agghiurnau! Spuntò li suli, sè ludata Diu! Gesuzzu pi la strata l'ascuntrau, mi calò la tistuzza e mi ridiu.
La rosa ch'avia 'n pettu mi dunau, "Teniti chista pi l'amuri miu". Non fu rosa no no chi mi dunau, ma fu l'armuzza ch'haju a dari a Diu'

E la tristezza sembra davvero calare dagli animi: panieri, cofani son pieni, le ragazze se li caricano sulla treccia d'erba in bilico sul capo.
A Cefalù, le olive vengono riunite in una celletta scavata nel terreno e dalle pareti intonacate, detta 'zarbu'.
Le olive, seminate di sale e pigiate compatte a forza di calcagni, conservano così tutti gli umori e i profumi dell'albero; dolci e saporose si usa mandarle in regalo agli amici.
Ma torniamo sulla nave; il lavoro procede con ordine e alacrità e tra albero e albero si accende la famosa gara di canto detta 'stagghiari li canzuni'.
Uomini e donne, da sopra e sotto l'olivo, intonano la prima strofa di una canzone; dall'olivo accanto si dovrà immediatamente cantarne il resto e iniziarne una nuova che verrà terminata dai primi concorrenti.


Ulivi sulle colline trapanesi nei pressi di capo San Vito.
La fotografia di Patrice Molinard
è tratta dall'opera "La Sicile", edita da Del Duca Paris nel 1957

Così di ramo in mano partono a voce spiegata le sfide canore, modulate da voci diverse, maschili e femminili, vicine e lontane, tanto che l'oliveto pare a un tratto il palcoscenico di un'opera al momento della scena corale.
La maestria sta nel nell'intonare canzoni sempre più difficili in modo da mettere in imbarazzo gli avversari.
Sul mezzogiorno, l'ombra dei rami si anima di un nuova ricerca tra l'erba; si cercano fagotti, panieri, fiaschi.
E' l'ora del ristoro, accolta con gioia dai contadini e con un certo malumore dal padrone che vede interrotto il prezioso lavoro.
Pane, cipolle, olive passe, vino formano il magro pasto, rinsanguato da una schietta allegria che si sbizzarrisce in scherzi, motteggi, battute di spirito, sarcasmi; i ragazzi intanto si lanciano in lotta accanita a rubarsi a vicenda le olive rimaste sugli alberi o nascoste tra gli interstizi delle zolle; la lotta è una sfida eccitante e dichiarata agli occhi arrabbiati, ma impotenti del padrone; infatti un'usanza agricola, assurta a legge per consuetudine, prescrive che non si possa proibire questo pseudo furto, detto del 'biscugghiari'.
E quando l'occhio del padrone comincia a guardare l'altezza del sole, preoccupato dal prolungarsi dell'intervallo, sarà la donna più anziana della ciurma a salvare diplomaticamente la situazione:

'Facemu presto, minamu le mani, facemu riccu lu nostru patruni...'

A sera, quando il sole incendia il mare e allunga incredibilmente in terra le ombre degli olivi, il capo dà il segnale di interruzione.
Gli annosi 'saracinu', dopo tanti ondeggiamenti, tornano immobili e ascoltano i patetici canti vespertini delle donne stanche della ciurma:

'Madonna ch'era àutu lu suli! Sant'Aiutuzza lu fici cuddari.
Amuninni, chè aura, sù patruni, quantu chiù prestu turnammu dumani. Havi di l'arba cchi semu a buccuni, li chiachi se li mancianu li cani'


"Olivo saraceno ad Agrigento" ( 1972 ),
del pittore Piero Gauli.
Il disegno è tratto dall'opera "Taccuino di Sicilia",
edito da Edizioni Ghelfi nel 1975