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sabato 31 marzo 2018

IL DISINIBITO RICHIAMO DELLE "RAGAZZE IN BIKINI" DI PIAZZA ARMERINA

Indossatrice di costume da bagno
in posa accanto ad una raffigurazione a mosaico
nella villa del Casale a Piazza Armerina.
La fotografia venne pubblicata dalla rivista "Sicilia"
nell'ottobre del 1960
Nelle non sempre tracciabili vicende delle scoperte archeologiche siciliane, quella della villa del Casale di Piazza Armerina racconta un'iniziale storia di frane, scavi parziali, interramenti forzati e contrasti fra studiosi e proprietari dei terreni.
In decenni più recenti - negli anni Novanta - i mosaici del complesso edilizio di età tardo imperiale avrebbero vissuto un'altra sofferta stagione di episodi vandalici. 
I restauratori furono chiamati più volte a porre rimedio ad imbrattamenti con pece e vernice; gli autori di questi vandalismi non sono mai stati individuati con certezza, anche se pare certo che si trattasse di persone i cui interessi gravitavano intorno all'area archeologica.  
Sembra che i primi pavimenti decorati con mosaici siano venuti alla luce a causa di uno smottamento di terra, prima del 1881: all'epoca iniziarono le attività di scavo, ad una profondità di circa quattro metri.
L'ampia area era allora occupata da una fitta distesa di noccioleti; i proprietari mal accettavano la presenza degli archeologi, temendo che l'interesse per quei vecchi pavimenti a mosaico sepolti da secoli potesse arrecare danno ai propri alberi.
Nel dicembre del 1932 si arrivò così ad un compromesso, in attesa degli espropri:  al posto dei picconi e dei badili, entrarono in funzione gli otturatori delle macchine fotografiche. 



I mosaici già venuti alla luce furono riprodotti in pellicola, prima di essere ricoperti sotto metri di terra: una soluzione già adottata anni prima a Palermo, dopo la scoperta dei mosaici romani nell'area di villa Bonanno.
Gli espropri dei noccioleti arrivarono nel 1938, in coincidenza con il bimillenario augusteo, evento organizzato dal fascismo per celebrare la "italica grandezza".
L'inizio della guerra lasciò poco tempo per la ripresa degli scavi. Furono riavviati nel 1950, grazie ai finanziamenti della Regione Siciliana e della Cassa per il Mezzogiorno.
Quelle campagne di ricerca accrebbero la superficie della grandiosa pavimentazione musiva e delle strutture della villa di tarda età imperiale; e fu in quel periodo che furono avviate anche opere di restauro e conservazione che avrebbero provocato guasti e polemiche.
A metà degli anni Cinquanta, la villa del Casale di Piazza Armerina diventò comunque uno dei luoghi archeologici più noti e visitati della Sicilia.
Il sito fu meta di visita per teste coronate: Giuliana d'Olanda e Gustavo VI di Svezia, "il re archeologo" già di casa fra le antichità di Gela.



In quel periodo, l'interesse del grande pubblico fu dirottato soprattutto verso la famosa raffigurazione delle dieci "ragazze in bikini": ginnaste ed acrobate intente a giochi di palla, al ritmo del tamburello e del sistro.
Le fotografie di quella raffigurazione conquistarono presto le pagine di riviste e periodici italiani e stranieri, e per interesse non strettamente archeologico.
Quei mosaici della villa del Casale diventarono set per servizi di moda, nei quali a quelle ragazze di tarda epoca romana vennero affiancate le indossatrici ingaggiate da famosi atelier per pubblicizzare le ultime collezioni di costumi da bagno: bikini e più classici modelli interi.
Erano gli anni in cui la Sicilia - nella letteratura e nel cinema - incarnava l'immagine di un senso dell'onore e del pudore parossistico; ora, le fanciulle in costume a due pezzi siciliane si prestavano alla perfezione per lanciare una moda già dilagante sulle spiagge internazionali.



Quelle antiche e disinvolte "ragazze in bikini" del passato svelate nel cuore dell'Isola - commentò così il critico d'arte Carlo Cecchi nel 1955 - assunsero per questo motivo notorietà mondiale, al di là della complessiva rilevanza della Villa del Casale:
  
"Mai l'archeologia aveva offerto più ghiotta e piccante provocazione alla curiosità mondana.
Le belle signore e signorine che, a Cannes o a Viareggio, sfogliando quelle pubblicazioni, prendevano il loro bagno di sole, furono compiaciute all'estremo, accorgendosi di indossare modelli che, da quindici o sedici secoli, sulla faccia della terra non erano più stati visti.
L'antichità più veneranda teneva bordone alla più strepitosa novità..."  


martedì 27 marzo 2018

LA SPEDIZIONE DEI MILLE DEL BELICE A MONTECITORIO

Terremotati del Belìce in piazza Montecitorio, a Roma.
Era il 31 marzo del 1976, giornata di mobilitazione
per chiedere allo Stato interventi a favore della ricostruzione.
La fotografia è tratta dall'opera
di Arturo Milanesi e Francesco Palleschi
"La questione meridionale" ( Editrice La Scuola, 1978 )
Arrivarono alla stazione Termini di Roma in treno, dopo 18 ore di viaggio, la mattina del 31 marzo del 1976.
Partiti da Gibellina, PoggiorealeSalaparutaMontevago, Santa Ninfa, Santa Margherita e dagli altri paesi terremotati del Belìce, un migliaio di manifestanti raggiunsero in corteo piazza Montecitorio.
Ad attendere quella folla di siciliani - perlopiù studenti e giovani disoccupati, oltre a 15 sindaci - c'erano i reparti di polizia e carabinieri schierati dinanzi la Camera dei Deputati dal ministro dell'Interno, Francesco Cossiga: una massiccia presenza di divise - erano gli anni del terrorismo di destra e di sinistra - che dopo qualche ora, visto l'innocuo carattere della manifestazione, venne quasi del tutto rimossa.
Già poche settimane dopo il terremoto del gennaio del 1968, gruppi di baraccati avevano raggiunto la stessa piazza per chiedere interventi urgenti al governo. 




Nel novembre del 1970 - in occasione di una discussione in aula sulla conversione del servizio militare in servizio civile per i giovani del Belìce - i dimostranti avevano tentato di fare irruzione all'interno del Parlamento. 
In quell'occasione, fu lanciata una bottiglia incendiaria contro l'ingresso: un gesto forse da attribuire ad infiltrati tra le decine di belicini che sino allora avevano impugnato soltanto striscioni e cartelli con slogan di protesta.
Le forze dell'ordine non fecero allora distinzioni fra guastatori e baraccati: l'accampamento di tende e materassi allestito dai terremotati venne smantellato in pochi e concitati minuti.
Nel parapiglia di urla e spintoni che ne seguì, 45 persone furono denunciate per manifestazione sediziosa.
Dal Belìce, i manifestanti erano ora tornati 6 anni dopo per chiedere conto allo Stato dei ritardi e degli sprechi nella ricostruzione delle opere promesse.
Nei giorni precedenti, piazza Montecitorio aveva già ospitato un'altra mobilitazione.
In rappresentanza dei 60.000 belicini costretti a vivere ancora nelle baraccopoli o ad emigrare lontano dalla Sicilia, avevano manifestato anche decine di bambini: erano "i figli delle baracche", l'ultima generazione del Belìce cresciuta tra famiglie alloggiate in strutture ormai logore e cadenti.




La protesta di piazza di quel 31 marzo di 42 anni fa raggiunse il suo obiettivo: una delegazione di terremotati, guidata dal presidente della Regione Angelo Bonfiglio, venne infatti ricevuta da Aldo Moro ed Antonino Gullotti, all'epoca rispettivamente presidente del Consiglio e ministro ai Lavori Pubblici.
L'incontro terminò con l'assicurazione che lo Stato avrebbe dato corso ad un nuovo finanziamento per le opere di ricostruzione: altri 50 miliardi di lire, oltre i 300 stanziati in precedenza.
La fotografia riproposta da ReportageSicilia testimonia quel presidio dei terremotati a Montecitorio.
L'immagine venne pubblicata nel 1978 dal saggio di Arturo Milanesi e Francesco Pallesi "La questione meridionale" ( Editrice La Scuola ). 
Sui ritardi e sugli sprechi nelle opere di ricostruzione nel Belìce molto si sarebbe scritto e detto, negli anni successivi e sino ai nostri giorni.




Lo scorso gennaio - nel cinquantenario del terremoto - si è discusso ad esempio della mancata costruzione delle opere di urbanizzazione primaria in un quartiere della nuova Santa Margherita ( centinaia di alloggi sono ancora allacciati alle fogne della vecchia baraccopoli ), ma anche del mai avvenuto rilancio  economico e sociale dell'intero comprensorio.
Il Comitato dei sindaci dei paesi terremotati ha caldeggiato l'istituzione nel Belìce di una "zona franca" per la promozione di nuovi investimenti: un progetto che tuttavia per raggiungere i suoi obiettivi dovrebbe poter contare su un tessuto infrastrutturale oggi poco sviluppato.
Nel frattempo, l'emigrazione giovanile sta finendo di spopolare i paesi ricostruiti dopo le scosse: una fuga dal Belìce che ha già coinvolto tanti di quei giovanissimi "figli delle baracche" che nel 1976 seguirono le proprie famiglie per manifestare a Roma.



sabato 24 marzo 2018

DEVASTAZIONI BELLICHE E RINASCITA A FLORIOPOLI

Lo stato delle strutture di Floriopoli
negli anni successivi al secondo conflitto mondiale.
Le fotografie riproposte da ReportageSicilia
vennero pubblicate nel fascicolo del Programma Ufficiale
della Targa Florio del 1954
Le devastazioni della seconda guerra mondiale in Sicilia non risparmiarono neppure le strutture di Floriopoli: le tribune, i box e la torre della sala stampa e dei cronometristi di una gara - la Targa Florio - che aveva abbandonato il circuito stradale delle Madonie dal 1937.
Dopo i primi anni di inutilizzo, nel periodo della guerra l'area fu teatro delle occupazioni militari, tedesca prima e poi americana.
I terreni circostanti diventarono luogo di sosta di camion e blindati, mentre  gli spazi coperti furono utilizzati come deposito di materiale bellico ( nella zona di Lascari invece l'esercito statunitense impiantò le tende di un attrezzato ospedale ). 
Scampata ai bombardamenti e al tiro dell'artiglieria pesante, Floriopoli sopravvisse alla guerra con gli inevitabili guasti provocati alle strutture civili dal corso di quei drammatici eventi.
A testimoniare la rovina e l'abbandono del periodo, sono le fotografie riproposte da ReportageSicilia e pubblicate in origine tra le pagine del Programma Ufficiale della 38a Targa Florio, disputata il 30 maggio del 1954.



Floriopoli era stata nel frattempo ricostruita in tempo per organizzare nuovamente la competizione lungo il "piccolo circuito" delle Madonie, il 9 settembre del 1951.
In quell'occasione, le tribune e gli altri impianti in muratura offrirono un rinnovato colpo d'occhio, "pavesati da bandiere - ha ricordato Pino Fondi in "La leggendaria Targa Florio" ( Giorgio Nada editore, 1989ed infiorati da festoni di alloro di limoni e zagare".
Nello stesso Programma Ufficiale della Targa del 1954, Vincenzo Florio espresse l'emozione per la rinascita di Floriopoli e l'attaccamento all'evento da lui creato.
Con toni di vitalissimo realismo, la sua descrizione delle Tribune restituiscono le tensioni e le attese nelle ore che precedevano il via:  

"La sera che precede la Targa vado sempre a riposare tranquillo al Grand Hotel di Termini, sicuro che l'indomani tutto andrà bene.
So che un bel lotto di concorrenti è pronto per la partenza; le Tribune già addobbate e imbandierate a festa; tutti i servizi ben disposti.
Ordine pubblico, commissari, cronometristi, radio, stampa, ristorante, bouvette, biglietteria, acqua, energia elettrica, servizi antincendi, rifornimenti e anche i ragazzi addetti a raccogliere la carta sporca, bucce e rifiuti, perché le Tribune siano pulite sino alla fine della corsa.



Con questa tranquillità i miei risvegli quasi sempre sono stati sereni.
Dico quasi sempre perché per ben tre volte furono tristi: quando cioè la Targa non venne organizzata da me, ma fu manipolata da mani che la deportarono in un campo inadatto, frustandone lo scopo della sua istituzione: Mario Morasso la definì 'una gimkana'!
Altro triste risveglio mi toccò lo scorso anno: mentre la sera della vigilia, durante il rituale pranzo all'albergo di Termini Imerese, le stelle brillavano in cielo, l'indomani mattina pioggia e vento anticiparono la sveglia.
Ci guardammo in faccia con i miei fedeli, pensando allo scempio che doveva essere avvenuto alle Tribune dove ci avviammo con doloroso mutismo.
A distanza intravedemmo il panorama apocalittico; vento e pioggia facevano a gara per spiantare ogni cosa.
Sul posto tutto era sconvolto: tende e bandiere strappate, piante e fiori abbattuti giacevano sulla strada, non ad indicare una festosa battaglia di fiori come ai bei tempi del Comitato Primavera Siciliana, ma a dimostrare la furia degli elementi.
Il vento continuava a insinuarsi ovunque e densi nuvoloni riversavano acqua sopra ogni cosa che non ne aveva affatto bisogno.
in meno di una notte, era stato distrutto il lavoro di un anno!



Mi consolavo pensando che di risvegli piovosi la Targa Florio ne aveva avuto altri, ma in compenso ne aveva avuti molti veramente radiosi, con le colline che circondano le Tribune gremite di pubblico elettrizzato e festante; il parco delle vetture colmo di macchine di ogni tipo; gli stalli dei rifornimenti con le auto pronte per la corsa nel disordinato e armonioso mélange dei vari colori nazionali di ciascuna: rosso, bleu, verde, giallo, bianco...; col formicolio delle tute dei meccanici anch'esse in colori sgargianti, che si muovono affaccendate tra il frastuono dei motori in prova: i venditori ambulanti che con le loro voci e il loro dinamismo danno vita e gaiezza all'esterno delle Tribune, affollate di pubblico appassionato, fra cui cominciano ad adocchiare le Signore ed anche Signori che probabilmente avrebbero vinto il concorso di eleganza..."



martedì 20 marzo 2018

MARZAMEMI, LA SCOPERTA DELLA SPIAGGIA DOVE UNA VOLTA "FINIVA IL MONDO"

La spiaggia siracusana di Marzamemi.
La fotografia riproposta da ReportageSicilia
venne pubblicata dal settimanale "Tempo"
nel giugno del 1963

"Marzamemi è un piccolissimo centro della costiera sud-orientale della Sicilia.
E' abitato da pescatori e il maggior lavoro consiste nell'imbarcare i vini forti di Pachino che vanno lontano per servire da 'taglio'.
A Marzamemi, dove il grande turismo non è ancora arrivato ( stanno costruendo ora il primo albergo ), la spiaggia è meravigliosa, senza ombra di bagnanti per chilometri"

Intitolata "Spiaggia nuova" e seguita da questa didascalia, la fotografia di Marzamemi riproposta da ReportageSicilia venne pubblicata nel giugno del 1963 dal settimanale "Tempo".
L'immagine finì insieme a molte altre in una selezione destinata ad illustrare la Sicilia del periodo. 
Il borgo marinaro del siracusano - sino ad allora quasi del tutto ignorato dai riflettori della pubblicistica - venne presentato ai lettori come meta in attesa del turismo di massa che in quel periodo iniziò a modificare aspetto, costumi ed economia di luoghi sino ad allora incardinati sulle dinamiche di una storia secolare.
Quella di Marzamemi - sito che negli due decenni è diventato set per registi, attori e fotografi di agenzie pubblicitarie, e dove le vecchie case dei pescatori hanno cambiato padroni, diventando leziose "case vacanza" - fu legata alle vicende di una delle più ricche tonnare di Sicilia, attiva sino al 1950.


Prima dell'arrivo dei turisti, questo estremo lembo meridionale d'Europa - spiaggia di tonni e di naufragi ( dalla nave carica di preziosi marmi del VI secolo d.C. ad un piroscafo olandese, nel 1902 ) - venne così ancora raccontato nel 1958 dallo scrittore bolognese Riccardo Bacchelli: 

"A Marzamemi la strada finisce, ovvero, per dirla con un giovincello del luogo al quale chiesi indicazioni, 'qui finisce il mondo'" 

lunedì 19 marzo 2018

L'ALBA DI LETO SULLO STABILIMENTO DEI FLORIO A MARSALA


ANTONINO LETO
Lo stabilimento enologico Florio a Marsala ( particolare )
1870 circa

VILLA NAPOLI, UNA STORIA DI ABBANDONO E DI ASSEDIO DEL CEMENTO

Una fotografia di villa Napoli a Palermo
pubblicata dalla rivista "Vie Nuove"
nel settembre del 1968.
Le altre immagini del post
sono di ReportageSicilia
"Villa Napoli, costruita sui resti della Cuba Soprana, fu edificata nella seconda metà del 1500.
La villa fu ulteriormente ridecorata, ma presenta attualmente le originarie caratteristiche cinquecentesche.
Nel parco si trova la 'Cubula' di costruzione normanna e di chiara ispirazione araba.
La parte posteriore della villa è quella che ha subito le maggiori modifiche ed è di disegno settecentesco.
Attualmente è in condizioni del tutto disastrose e al suo interno vivono alcune famiglie tra galline, cani e immondizie che invadono lo scalone.
Tutt'intorno sono sorti palazzi di dieci e più piani e a pochi passi sono in corso dei lavori per la costruzione di nuovi edifici"


In un reportage apparso il 19 settembre del 1968 e dedicato al degrado delle ville storiche del palermitano, la rivista "Vie Nuove" pubblicò l'immagine ora riproposta in apertura da ReportageSicilia di villa Napoli, a Palermo.
La didascalia che accompagnò la fotografia venne intitolata "Villa Napoli, uno scalone per cani, galline e immondizie".



Erano gli anni del "sacco edilizio" di Palermo e del sostanziale disinteresse verso il patrimonio storico-monumentale cittadino; basti pensare al colpevole crollo del palazzo della Zisa, nel 1971, ed al perdurante abbandono dell'Uscibene e della chiesa di Santa Maria della Speranza, tutti di epoca normanna, epoca architettonica celebrata a Palermo da un itinerario dell'Unesco.



Ancora nel 1984,  in "Guida alla Sicilia che scompare" ( Sugarco ), Elio Tocco così denunciava il degrado di villa Napoli e degli annessi resti normanni della Cuba Soprana:

"Circa tre anni fa, a villa Napoli si accedeva ancora direttamente dalla strada, il corso Calatafimi.
Oggi invece uno dei monumenti della nostra società, un palazzone anonimo di cemento armato, si è frapposto tra la villa e la strada, lasciando come unica via di accesso un sottoportico.


Se, tuttavia, il cemento armato non è riuscito ancora ad abbattere materialmente la villa, per usufruire della sua vasta area edificabile, tutt'intorno alla costruzione sono sorti nuovi grandi fabbricati, la cui altezza e vicinanza hanno tolto il respiro necessario al monumento, alterandone il rapporto con lo spazio circostante"


domenica 18 marzo 2018

MOSTRI, APPARIZIONI E CREATURE NOTTURNE DELL'ISOLA FANTASTICA


"...Pur non essendo una creatura in senso stretto, si tratta certamente di una manifestazione soprannaturale che, ispirandosi al mitico Olandese Volante, solca i mari dell'Isola.
Porta burrasca e terrore mentre si aggira lungo la costa con le vele spiegate e lacere.
Non ha equipaggio perché il Vascello ingloba e digerisce tutto quello che tocca, quasi fosse una gelatina vorace immonda.
E, probabilmente, un equipaggio non l'ha mai avuto.
E' una creatura diabolica che svetta sull'acqua marina, l'unico elemento che sembra resistere alla sua candida volontà di annettersi ogni cosa.
Il suo avvistamento impone ai marinai un terrore inspiegabile e raggelante che conduce all'immobilità.
E' di un bianco irreale e vaga tra le acque siciliane come se fosse alla perenne ricerca di prede o avversari con cui misurarsi.
Può condurre alla rovina intere generazioni di pescatori quando, senza alcun motivo apparente, decide di prendere di mira per decenni un preciso tratto di costa.
E' una delle Creature più inspiegabili, irrazionali e misteriose tra quelle che abitano la notte siciliana.
Si ignora, infatti, se sia un vascello posseduto da qualche creatura che opera in assoluta autonomia.
A riportarne la presenza è la studiosa napoletana Maria Savi Lopez..."



venerdì 16 marzo 2018

I SECOLARI FRUTTI FIGLI DELLA KOLYMBETRA

Uno dei contadini che si occupano
della cura del Giardino della Kolymbetra.
Le fotografie sono di ReportageSicilia
Da qualche anno il Giardino della Kolymbetra - un'area agricola di 5 ettari delimitata da alti bordi calcarei, nel cuore della Valle dei Templi -  è diventato un luogo visitato da decine di migliaia di persone ( 70.000 nel 2017 ).
Nel periodo aureo della storia di Akragas, la zona era occupata da un bacino d'acqua dal perimetro di circa 1200 metri e con una profondità di otto.
Lo storico Polibio - che osservò la ricchezza degli uliveti, dei mandorleti e dei melograni akragantini - lo descrisse come 

"un laghetto popolato dai più fini e delicati pesci, destinati a pubblici banchetti, e reso gaio dai bianchi cigni e da altri uccelli acquatici"


Nei secoli successivi, il bacino d'acqua della Kolymbetra divenne una conca dalla rigogliosa vegetazione.
Qui è oggi possibile imbattersi in agrumi introvabili in altre campagne siciliane, perché frutto della sopravvivenza di coltivazioni locali vecchie di almeno due secoli: il limone "insalataro" - detto così dai contadini che lo aggiungevano, a pezzi, alle  insalate - e l'arancia "ngannalatri", cioè inganna ladri.
Il curioso appellativo si riferisce al particolare aspetto bitorzoluto della buccia, che rende questa rarissima varietà di tarocco poco attraente alla vista; nella realtà, consistenza e dolcezza del frutto lo rendono molto saporito e profumato. 
La rinascita ambientale del secolare orto-frutteto della Kolymbetra si deve all'intervento del Fondo per l'Ambiente Italiano, alla fine degli anni Novanta.

Il limone "nsalataro" e l'arancia "ngannalatri",
due varietà di agrumi tipiche della Kolymbetra
In quel periodo - segnato da accese polemiche sull'abusivismo nell'area archeologica e sullo skyline urbano della moderna Agrigento - il giardino venne salvato da un irreversibile degrado.
L'antica peschiera che in epoca medievale era stata coltivata dai monaci cistercensi con ogni varietà di ortaggi, alberi da frutto ed essenze, mostrava lo scempio di un decennale utilizzo come discarica di rifiuti.
Tra i rovi ed il proliferare di vegetazione infestante, non era infrequente imbattersi in carcasse di elettrodomestici e di vecchie automobili; laddove oggi si osserva un limpido ruscello, scorrevano i liquami di una fogna.
L'ultimo contadino ad occuparsi della cura di ulivi, mandorli ed altri alberi di agrumi era stato "u zu Ninu Vella".


Da lui, l'agronomo paesaggista Giuseppe Lo Pilato - attuale direttore del Giardino - apprese i più aggiornati ricordi sulla storia di un terreno agricolo sviluppatosi a partire dal medioevo.
Oggi il Giardino della Kolymbetra ha riacquistato il patrimonio ambientale di un tempo.
Spicca, in primo luogo, la presenza delle piante di agrumi, gran parte delle quali autoctone ed assenti nel resto della Sicilia: dodici varietà di arance, cinque di limoni, ed ancora mandarini, cedri, mandaranci e pompelmi.

Una stampa della Kolymbetra
tratta dall'opera "Engraving Kolymbetra"
di Charles L.Chatelet ( 1785 )
La Kolymbetra è insomma uno di quegli straordinari ambienti siciliani che ha avuto la fortuna di scampare al disinteresse ed alla distruzione: un dato che permette a quest'angolo della Valle dei Templi di rappresentare il patrimonio di diversità arboree posseduto nei suoi vari territori dall'Isola


  

giovedì 15 marzo 2018

LE STELLE PERDUTE DEL "CHARLESTON" DI PALERMO

L'interno del ristorante "Charleston" a Palermo,
per molti anni celebrato tempio della cucina siciliana.
La fotografia è tratta da una locandina pubblicitaria del tempo
Negli anni Settanta, ha rappresentato la ristorazione siciliana nella sua declinazione più esclusiva e blasonata, pubblicizzata dall'altezzoso slogan "un ristorante di classe per una clientela raffinata".
Il "Charleston" di piazzale Ungheria - inaugurato nell'ottobre del 1967  e in attività sino al 1999 - per un lungo periodo di tempo a Palermo ha monopolizzato le attenzioni dei critici gastronomici e della clientela di vip: dai capi di Stato ( da Saragat a Leone, da Cossiga Scalfaro ) ai ministri, da Giovanni Paolo II agli attori ed agli artisti italiani e stranieri.


Ai larghi tavoli del "Charleston" - nella cuore della città delle banche e dei negozi di lusso - si sono pure seduti ed hanno incrociato gli sguardi politici e burocrati locali, noti professionisti ( alcuni di loro definiti in seguito "colletti bianchi" ) e personaggi legati a Cosa Nostra.
Per questo motivo, la storia del locale che all'epoca fu il salotto buono della cucina siciliana, racconta oggi un tipico ed ancora attuale spaccato della contraddittoria società palermitana; e così, i fasti - rappresentati dalle due stelle Michelin ottenute nel 1974, diventate una nel 1980 sino al 1994 - e gli scadimenti, legati pure a tristi vicende giudiziarie.
Il "Charleston" prese nome dalle vetrate in stile "Liberty" che facevano da esclusivo ingresso all'interno del ristorante. 
Divenne famoso nei primi anni di attività per quello che sarebbe diventato il "Piatto del Buon Ricordo": gli involtini di pesce spada, la cui ricetta - secondo una "vulgata" mai smentita - sarebbe stata ideata proprio all'interno delle sue cucine.


Nell'anno in cui il locale ottenne le ambitissime due stelle, il menù comprendeva pure i "cannolicchi Favorita", la "frittella siciliana", le "pappardelle alla monrealese" ed il "parfait di mandorla", oltre a piatti non autoctoni come il "filetto al whisky" o gli "hamburger alla tirolese".
Nel pieno rispetto della tradizione siciliana, insieme a pregiate etichette francesi la cantina offriva invece una collezione di bottiglie di "Marsala" e di bianchi e rossi isolani.
La storia del "Charleston" di piazzale Ungheria - che nel periodo estivo apparecchiava i suoi tavoli sulla terrazza dell'Antico Stabilimento a Mondello ( le luci serali sull'acqua mostravano allora il passaggio di branchi di pesci ) - è stata anche quella dei suoi abili chef, maitre e sommelier: da Antonio Guddo a Francesco Sammarco, da Nino Ferro a Carlo Hassan e Giorgio Dragotta.
La chiusura del "Charleston" di piazza Ungheria rappresenta oggi solo uno dei tasselli nella storia della ristorazione scomparsa a Palermo.
Basti ricordare gli esempi del "Gourmand's" o del "Rooney", in viale della Libertà, o dei tanti locali che hanno proposto le specialità di mare in via Messina Marine e Romagnolo: i famosi "Spanò"  e "Renato" e i meno blasonati "Di Filippo" e "Santo Palato".



   

domenica 11 marzo 2018

L'EREDITA' COLLETTIVA NELL'ARCHITETTURA DELLE MADONIE

Architettura urbana a Petralia Soprana
in una fotografia di Josip Ciganovic.
L'immagine è tratta dall'opera "Sicilia"
edita nel 1962 dall'Istituto Geografico De Agostini e da Sansoni

"E bisogna dire - scrisse nel 1962 il narratore pisano Giovanni Guaita riguardo i paesi delle Madonie - che l'insieme edilizio di un paese come Ganci o Geraci o Polizzi o Isnello, per non citare che i centri minori, impressiona per la sua bellezza, per una sua coerenza stilistica.
Anche se si tratta di una bellezza più simile a quella di una conchiglia, o di una qualche forma di vita naturale, che non a quella di un'opera d'arte.
E' il prodotto di un continuo lavoro di una collettività nei secoli, le ultime case costruite ieri vestono di embrici e di pietre una struttura che fu identificata e scelta secoli prima, da coloro che stabilirono in quale luogo fondare il paese.
Numerose opere d'arte testimoniano di un antico rigoglio culturale, a volte si tratta di opere di grande finezza.
Ma raramente questi elementi culturali, per lo più aristocratici, sono acquisiti e fatti propri dalla nuova società che si sviluppa: i vecchi castelli in gran parte cadono con la crisi delle maggiori famiglie feudali, sorgono palazzotti seicenteschi e settecenteschi di una aristocrazia paesana, ma poi anche questa entrano in crisi cosicché raramente li si trova oggi in perfetto stato di conservazione.
Tutto ciò dimostra come in questi paesi dove apparentemente non accade nulla, in questa società che per secoli respinge tutto ciò che è nuovo e sembra non abbia storia, una sorda pressione degli inferiori per sollevarsi nella scala sociale provoca continui franamenti al vertice, anche se ciò avviene attraverso i secoli ed ha l'andamento dei fenomeni geologici più che la relativa rapidità delle vicende umane.


Perciò più che rammaricarci del non infrequente stato di abbandono in cui si trovano certi monumenti antichi si dovrebbe ammirare il modo con cui la ferita si è cicatrizzata e l'unità del tessuto urbano si è ricostituita, almeno là dove questo è avvenuto.
Sono strade strette e serrate, disposte secondo un tracciato intelligente sulla originaria impraticabilità della collina; un corso pianeggiante o comunque più largo ed agevole si apre al centro del paese, salotto della collettività.
Le case sono spesso disadorne, ma di una nudità sincera e civile, l'erosione del tempo e la unicità del materiale impiegato hanno creato una uniformità di tono che non dispiace, ogni tanto le decorazioni di un arco catalano, col loro rigoglio simile a quello di una cosa vegetale, o un terrazzo settecentesco con l sua ricca ringhiera in ferro tutta aperta come un fiore al paesaggio cittadino, dimostrano un'antica dignità di vita locale.
Niente stona o offende l'occhio, se non in qualche raro caso, e allora si tratta sempre dell'impresa edilizia di qualche ente statale, grossi edifici dal pretenzioso e squallido aspetto se ne stanno lì da estranei, quasi a ricordarci come malamente si sia inserito lo Stato italiano su questa società, così particolare e così indurita dai secoli di difficoltà..."




venerdì 9 marzo 2018

UNO SBARCO DI MARINAI TEDESCHI A SFERRACAVALLO DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Barche siciliane.
Le fotografie sono di ReportageSicilia
Luogo cruciale nelle vicende del secondo conflitto mondiale - lo sbarco alleato, nel 1943 - la Sicilia è invece rimasta estranea alle tragiche vicende della guerra 1914-1918.
Come sottolineato da Francesco Renda in "Storia della Sicilia" ( Sellerio, 2003 ), l'Isola e le sue coste non furono teatro di battaglia, né oggetto degli interessi militari delle nazioni coinvolte nel conflitto: 

"Di tale scenario la Sicilia fu partecipe con la sola particolarità di non essere zona di operazioni militari.
Quando al resto, subì le conseguenze della guerra come ogni altra regione italiana.
Ma di quella condizione non rimane memoria.
La storiografia non ama parlare della Sicilia in guerra, ed è anche assente la memorialistica autobiografica di quanti ( non pochi ) furono al fronte e conobbero di persona la vita delle trincee...
In letteratura, non ci sono romanzi o racconti di scrittori siciliani, che narrano la guerra, e nemmeno poeti che la glorificano o che la rifiutano.
Solo con riferimento al senso di devastazione e di disorientamento del dopoguerra si ha la commedia di Pirandello 'Sei personaggi in cerca di autore ( 1921 ), che giustamente viene ricordata come eloquente espressione della condizione spirituale europea..."

E' quindi difficile trovare un riferimento alle vicende di quel tragico primo conflitto mondiale nelle cronache della Sicilia del tempo.
Uno dei pochi episodi di cui rimane oggi vaga memoria fu l'inaspettato sbarco di una trentina di militari tedeschi sulla costa di Sferracavallo.


  
Accadde il 28 aprile del 1915, quando a distanza di poche ore l'uno dall'altro due piccoli pescherecci spagnoli a vela latina approdarono sul litorale del palermitano: la Germania era già allora fra le nazioni belligeranti, mentre l'Italia si apprestava ad essere coinvolta nel conflitto.
Sembra che il gruppo di tedeschi indossasse divise della marina militare; e che le loro imbarcazioni - cariche di bagagli - fossero partite due settimane prima dalle coste spagnole.
L'inaspettato arrivo dei trenta tedeschi provocò grande curiosità fra i palermitani, accorsi in porto dopo che i presunti marinai della Marina Militare vennero trasferiti da Sferracavallo a Palermo.
L'episodio venne così descritto il 29 aprile dal "Corriere della Sera":

"Stamane, col direttissimo Palermo-Messina, sono partiti i tredici tedeschi giunti ieri con una bilancella sulla spiaggia di Sferracavallo.
Per ordine del prefetto, i tedeschi sono stati scortati sino a Messina, avendone la nostra Questura ordinato il rilascio dopo un interrogatorio a mezzo d'interprete.
Il questore stesso ha interrogato un certo Alberto Bredfeldt, da Amburgo, capitano mercantile, il quale sembrava il condottiero dei misteriosi navigatori.
Egli ha raccontato di essere stato catturato, assieme ai compagni, al principio della guerra dai francesi e quindi di essere riuscito con loro a fuggire dalla Francia e riparare a Barcellona ove, acquista l'imbarcazione e fattisi vidimare i passaporti dal console italiano, salparono diretti all'Italia , volendo ritornare in Germania,
Il viaggio ebbe la durata di quattordici giorni; i fuggiaschi approdarono in Sicilia, desiderosi di proseguire il viaggio per terra, temendo la cattura da parte delle navi anglo-francesi che incrociano nel Mediterraneo.


Si è notato che i tedeschi vestono elegantemente e si mostrano accorti e dotati di buona istruzione: nessuno porta in viso le caratteristiche della gente di mare , ma sembra che qualcuno sia stato riconosciuto dai nostri cocchieri come persona indossante la divisa di ufficiale di marina quando la squadra tedesca è venuta l'ultima volta nel nostro porto.
All'ultimo momento si informa che un'altra imbarcazione, con a bordo quattordici tedeschi e segnalata dal semaforo è stata rimorchiata dalla capitaneria e assoggettata a disinfezione, provenendo dal porto infetto di Barcellona.
Anche i nuovi venuti, interrogati, hanno dichiarato di trovarsi nelle medesime condizioni dei precedenti: hanno aggiunto che desideravano recarsi in Germania per prestarvi servizio militare.
Sembra che, come i primi, verranno fatti partire anche i nuovi venuti"

martedì 6 marzo 2018

LO SCONGIURATO SCEMPIO DI UNA RAFFINERIA A CASTELLUZZO

Il rilievo trapanese del monte Cofano,
lungo la costa fra Castelluzzo e Macari.
Le fotografie del post sono di ReportageSicilia


La costa trapanese fra Scopello e il rilievo di monte Cofano è ancora oggi uno degli scenari più affascinanti ed integri dell'Isola.
E' nota la mobilitazione ambientalista che, agli inizi degli anni Ottanta, salvò dalla costruzione di una strada e dall'inevitabile lottizzazione il litorale della Riserva dello Zingaro ( da allora periodicamente devastata dagli incendi dolosi ).
Meno noto - perché più lontano nel tempo - è ciò che rischiò di accadere un decennio prima lungo la costa compresa fra la piana di Castelluzzo e monte Cofano: un golfo in seguito miracolosamente scampato alle speculazioni edilizie ed oggi considerato come uno dei pochi "fiori all'occhiello" del paesaggio marino siciliano. 
Avvenne che agli inizi degli anni Settanta, nell'ultima fase di massiccio  sviluppo dell'industria petrolchimica, l'ISAB ( Industria Siciliana Asfalti e Bitumi ) fece richiesta alla Regione Siciliana ed allo Stato per impiantare in quel tratto di costa una raffineria ed un centro siderurgico.
L'iniziativa, come quelle già attuate in altri siti siciliani, avrebbe potuto contare sulla disponibilità dei fondi agevolati della Cassa per il Mezzogiorno.



Il progetto - destinato a trasformare in quadrato il triangolo industriale isolano costituito dagli impianti di Gela, Augusta e Milazzo - prevedeva la costruzione di una raffineria con una capacità di lavorazione annua di oltre sette tonnellate di greggio. 
L'ISAB - fondata dagli armatori genovesi Cameli e poi ceduta a Riccardo Garrone - aveva in precedenza installato in Sicilia il polo industriale di Marina di Melilli.
La creazione di quegli impianti stravolse in pochi anni il volto ambientale locale, sino ad allora consegnato a mal sfruttate risorse agricole e ad una natura incorrotta.
Pochi mesi dopo, un'inchiesta della Procura di Siracusa mise sotto accusa la regolarità di una variante al piano regolatore industriale del sito; furono chiamati in causa per l'elargizione di tangenti dirigenti aziendali e politici regionali di vari schieramenti.
La costruzione del nuovo impianto di Castelluzzo - secondo l'ISAB - avrebbe dovuto impiegare sino a 2500 unità lavorative, per due o tre anni; in seguito, i cicli di produzione avrebbero assicurato lavoro a 300 dipendenti, con stipendi e salari annui stimati in un miliardo e mezzo di lire.


La torre della tonnara del Cofano,
una delle testimonianze architettoniche
di Castelluzzo che corse il rischio
di essere inglobata dalle strutture del petrolchimico



L'industria ligure assicurò che la vista dello stabilimento sarebbe stata coperta da un rimboschimento e che gli impianti sarebbero stati dotati di dispositivi di depurazione, limitando così l'inquinamento terrestre e marino del golfo del Cofano.
Le preoccupazioni ambientali dell'ISAB furono in realtà strumentali. 
Seguirono infatti una campagna di stampa regionale e nazionale che evidenziò i rischi arrecati dalle annunciate attività del petrolchimico in una delle più integre zone della Sicilia.
L'impatto sul territorio di Castelluzzo sarebbe stato mortale e avrebbe avuto conseguenze su più larga scala: gli oppositori al progetto sottolinearono infatti che le correnti marine della zona di Capo San Vito, muovendosi da Ovest verso Est, avrebbero potuto trasportare gli elementi inquinanti sino alla provincia di Palermo.
Sull'onda poi dello scandalo giudiziario di Marina di Melilli, contro l'installazione della raffineria a Castelluzzo si pronunciarono in sede di governo sia il partito comunista che quello liberale.
Il senatore Ludovico Corrao presentò un'interrogazione ai ministri della Pubblica Istruzione e della Marina Mercantile.
Nel documento si ricordava anche che il presidente della vicina Tunisia, Habib Burghiba, aveva rinunciato alla progettazione di impianti petroliferi costieri, considerando l'ambiente ed il turismo più redditizi rispetto a qualsiasi altra attività economica.
A difesa del territorio di Castelluzzo si esposero poi le voci della cultura.
Cesare Brandi,  storico dell'arte e dirigente di "Italia Nostra", scrisse sul "Corriere della Sera":


"I comuni di San Vito lo Capo e Custonaci che si rallegrano, sono i tapini di questo cavallo di Troia che verrebbe ad essere introdotto in tale zona vergine e splendente; ne uscirebbe invece che il benessere, proprio come dalla pancia del cavallo funesto, la distruzione, e certo si inserirebbe un nuovo elemento di fascino per chi, affacciandosi dal belvedere di Erice, potesse scorgere una nuvola giallo-rossastra come quella che staziona a Marghera e invia i suoi profumi a Venezia..."




Sulle colonne del "Giornale di Sicilia", Giuseppe Quatriglio analizzò invece così la questione:


"Impianti petrolchimici e complessi alberghieri e residenziali certo non vanno molto d'accordo insieme nonostante tutti gli accorgimenti che la moderna tecnica consente di mettere in atto per ridurre al minimo l'incidenza degli inquinanti.
Sono prospettive davvero poco allegre non soltanto se si vuole puntare sul turismo, ma anche per l'attuale economia della zona.
Proprio lungo l'arco di costa adiacente all'area della progettata raffineria, ha avuto inizio uno sviluppo turistico modesto, in tono minore ma non meno gradito.
Sono sorti ristoranti noti per il pesce fresco che viene portato giornalmente dalle barche, ed è stato impiantato qualche albergo in attesa di iniziative di ricettività turistica di più vasto respiro.
Purtroppo, abituati come siamo a non dare il giusto valore al nostro patrimonio, non ci rendiamo spesso conto del bene costituito da un angolo di territorio suggestivo aperto a prospettive meno oscure e drammatiche di quelle che l'umanità sta predisponendo altrove.
Lasciamo perciò che sia uno straniero sensibile, lo storico inglese Steven Runciman, autore della 'Storia delle Crociate', a ripeterci che 'poche isole sono state favorite dalla natura come la Sicilia'.
Con tenacia continuiamo ad alterare l'armonia delle coste, a distruggere gli antichi equilibri e le testimonianze del passato, a pretendere insediamenti industriali nelle zone archeologiche, vedi il caso della penisoletta di Magnisi, nella baia di Augusta, sede della preistorica colonia di Thapsos"


Grazie a quel movimento d'opinione - e nella sopravvenuta considerazione che la redditività dell'industria petrolchimica era ormai in via di esaurimento - il progetto dell'ISAB a Castelluzzo rimase inattuato.
Oggi il golfo del Cofano conserva così quella bellezza che è stata cancellata in tutti i luoghi costieri siciliani sacrificati negli anni Cinquanta e Sessanta da un temporaneo e devastante modello di sviluppo economico del territorio.




A distanza di mezzo secolo dall'ipotesi della creazione di una raffineria a Castelluzzo, rimane fortunatamente attuale la descrizione di quei luoghi contenuta nella "Guida alla Natura della Sicilia" di Fulco Pratesi e Franco Tassi ( Arnoldo Mondadori, 1974 ):
  
"Di tutto il promontorio di San Vito, il luogo più suggestivo dal punto di vista panoramico, anche senza presentare eccezionali valori naturalistici, è la solitaria pianura che da Castelluzzo scende in lievissimo pendio a mare.
Un triangolo erboso, del tutto privo di insediamenti umani, chiuso a Sud-Ovest dalla austera mole del Monte Cofano, , in cui l'unica presenza è data da greggi pascenti sullo sfondo del mare lontano e da qualche averla o grillaio in attesa sui fili del telefono"