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domenica 28 aprile 2019

GLI ULTIMI CARBONAI DELLE MADONIE

Fotografie
ReportageSicilia
I tre fratelli portano avanti un lavoro secolare ed un tempo - sino all'immediato secondo dopoguerra - molto diffuso  nelle Madonie: quello del carbonaio, la cui opera era fondamentale per garantire alle popolazioni locali combustibile essenziale per il riscaldamento delle case e la cottura dei cibi.
Damiano, Pietro e Mario Carrubba raccolgono legna nei boschi delle Petralie, trasformandolo in carbone con la stessa sapienza e la stessa fatica che furono del nonno e del padre.




In un angolo di bosco non lontano da Petralia Sottana, accatastano in queste settimane rami e ceppi di quercia, faggio e leccio, formando cumuli - i "fussuni" - circondati da pietre e percorribili sino alla cima grazie ad una scala in legno.
Le piramidi vengono poi coperte con terra e fogliame; quindi, per 5 giorni e 5 notti, i Carrubba innescano all'interno il fuoco che trasformerà il legno in carbone.




Al termine della preparazione e lavorazione nei "fussuni" fumanti - attivati con la speranza che non arrivi inattesa pioggia - si raccolgono i ciocchi di carbone.
Il modo per controllare la loro buona qualità è affidata ad una prova sonora: battendoli l'uno sull'altro, devono risuonare con il tintinnio di una campana.
Il carbone prodotto dai fratelli Carrubba equivale a circa il 30 per cento della legna bruciata e viene venduto a ristoranti o privati che preparano la brace con un prodotto di qualità: il loro lavoro rimanda ad un sapere secolare, quando il bosco era fonte di mestieri e di ricchezza per le comunità locali.




Oggi i Carrubba si considerano gli ultimi veri carbonai delle Madonie.
I registri conservati nell'Archivio Storico Comunale di Petralia Sottana indicano che alla fine dell'Ottocento l'attività di questi lavoratori era diffusa in tutte le Madonie, soprattutto a Castelbuono, Geraci, le Petralie e Polizzi Generosa.
Decine sono i nomi e cognomi dei carbonai citati in quei documenti: Gugliuzza, Mazzola, Pappalardo, Abbate, Alfonso, AjelloFirrera e molti altri di "padroni" e lavoranti che raccoglievano e bruciavano la legna nei periodi fra aprile e giugno, e fra settembre e la fine di ottobre.
Il lavoro era portato avanti da squadre di una decina di carbonai e seguiva precise e rigorose regole imposte dai Comuni.



La scelta dei luoghi dove raccogliere la legna era affidata ai guardiaboschi, che, almeno sulla carta, avevano un ruolo di controllori. 
Era lui ad indicare quali alberi potevano essere tagliati, ed a ritirare la concessione nel caso in cui i carbonai mettessero a bruciare rami da destinare invece alla costruzione di aratri o di altri oggetti di uso lavorativo.
In un registro datato 1881, si apprende inoltre che ogni squadra di carbonai era obbligata a cedere 4 salme di carbone al Comune che aveva loro assegnato il bosco destinato a produrre il carbone.



Dai vecchi documenti consultati all'interno dell'Archivio Storico Comunale di Petralia Sottana si ricostruisce un pezzo insomma non secondario di storia economica e di cultura delle Madonie del passato.
Fra le tante informazioni, non mancano le curiosità: quella ad esempio che alla fine dell'Ottocento le attuali piste da sci di Piano Battaglia ospitavano un "giacimento" di querce e lecci ambito da decine di carbonai.
  


lunedì 8 aprile 2019

LA BOMBA MAFIOSA CONTRO LE INCHIESTE DE "L'ORA"

Il cratere formato dall'esplosione
dell'ordigno mafioso che nell'ottobre del 1958
danneggiò la tipografia del quotidiano "L'Ora".
La fotografia è tratta dal "Giornale di Sicilia"
del 20 ottobre del 1958
Poco prima delle 5 del mattino del 19 ottobre del 1958 un boato svegliò i residenti nel pieno centro di Palermo, tra la via Mariano Stabile e piazza San Francesco di Paola.
Un ordigno esplosivo confezionato all'interno di un contenitore di latta per pomodori esplose nel porticato al di sotto del quale, in via Mariano Stabile, si trovata la tipografia del quotidiano "L'Ora".
La deflagrazione infranse decine di vetrate di palazzi, ad una distanza di centro metri, e devastò i locali di un negozio di elettrodomestici. 
Sul marciapiede si creò una voragine; il crollo dei detriti danneggiò le rotative ed altri macchinari per la stampa. 
Non ci furono vittime o feriti, ma l'attentato rappresentò un chiaro attacco contro quella parte di stampa cittadina più impegnata in inchieste antimafia.
Già nel 1948, la sede del giornale palermitano fondato dai Florio - nell'adiacente palazzetto di piazza Francesco Napoli - era stata oggetto di un primo attentato, attribuito alla banda Giuliano.
Dieci anni dopo, l'episodio dinamitardo ebbe una matrice per certi versi più feroce. 
Immediatamente, si capì che il mittente dell'ordigno esplosivo non poteva che essere quel clan di cui "L'Ora" stava tracciando da mesi un chiaro identikit: quello corleonese di Luciano Liggio, che da lì a pochi decenni avrebbe utilizzato a Palermo il tritolo anche contro i magistrati.

"La bomba del 19 ottobre del 1958 - ha scritto Vincenzo Vasile in "La corsa de L'Ora" ( a cura di Franco Nicastro, Navarra Editore, 2018 ) - rappresenta e racchiude l'unicità del giornale di Vittorio Nisticò.
In altre parole, è vero - è storicamente vero, significativamente vero per chi volesse studiare la storia dell'informazione in regime di mafia, anzi la storia dell'informazione in Italia - che gli altri... no, gli altri giornali non aprirono un conto con la mafia in quegli anni, e che per molti, moltissimi anni ancora, il giornale L'Ora - il nostro Giornale - si trovò da solo su questa barricata.
Per gli altri non fu così. Gli altri, no.
La bomba del 19 ottobre del 1958 esplose puntuale, dunque, sul bersaglio annunciato.


Fotografia di Giusto Scafidi
tratta dal supplemento "Mafia"
de "L'Europeo" pubblicato nel 1962,
a cura di Renzo Trionfera
Non perché l'attentato fosse stato preceduto da minacce o avvertimenti ( non ve ne è traccia nelle cronache dell'epoca, e 'l'avvertimento', la prima intimidazione era proprio l'attentato ), ma perchè il panorama generale era segnato da silenzio e omertà.
Sono taglienti e poco diplomatiche le parole di Nisticò, che - nel ringraziare altri colleghi e testate giornalistiche per le espressioni di solidarietà - ammonisce:

'Gliene siamo grati, ma riteniamo di muoverci nel giusto se ai nostri colleghi e alle altre testate della stampa isolana esprimiamo l'auspicio che non ci si lasci soli nella lotta ingaggiata...
E' ora di finirla con certe carenze e con certi silenzi che sono in ogni caso colpevoli anche quando sono dettati dalla comprensibile preoccupazione di non alimentare le montature a carattere giallo con cui a Roma e Milano si finisce con lo screditare il prestigio della nostra gente...'

Carenze, silenzi, così li chiama eufemisticamente Nisticò: 


'e siete pregati di non andare più appresso all'accusa di screditare i siciliani, quando si parla - quando noi parliamo - di mafia'

ammoniva nella sua maniera brusca"

domenica 7 aprile 2019

L'INQUIETA DEVOZIONE DINANZI LA LAVA DELL'ETNA

Nel novembre del 1950, un gruppo di donne di Milo
invoca l'intervento di sant'Andrea per fermare la lava dell'Etna.
Le fotografie riproposte da ReportageSicilia
sono tratte da un reportage pubblicato nel dicembre del 1950
dal settimanale "L'Europeo"
"In quella primavera una fiumana infuocata scese per i fianchi del vulcano, come altre volte.
Devastò le campagne e laggiù ricordano un'altra eruzione avvenuta cinquant'anni prima; anzi, se ne ricordano tre da che la Sicilia è abitata dai greci..."

Così è ricordata l'eruzione dell'Etna del 425 avanti Cristo dallo storico ateniese Tucidide, che forse vi assistette personalmente; delle altre tre a cui fa riferimento, quella del 475 è descritta da Eschilo e da Pindaro, le altre due risalgono a quattro secoli prima.
Dai secoli più remoti nella storia delle sue eruzioni, l'Etna suscita insomma le attenzioni dei cronisti, calamitati sin alle pendici del vulcano dall'affascinante e pauroso spettacolo di uno dei più violenti fenomeni naturali, cui la tecnologia umana può ancor oggi contrapporre solo una rete di semplice vigilanza.
In tempi più recenti, le eruzioni dell'Etna ( e le devastazioni provocate al territorio ) sono diventate motivo di puntuale spettacolarizzazione mediatica.


La circostanza si verificò anche nel lontano 1950, quando - a partire dalla sera del 25 novembre e sino alla metà del gennaio del 1951 - una violenta eruzione creò serio allarme lungo il versante Nord Est del vulcano.
Per molti giorni, gli abitanti delle frazioni di Milo, Fornazzo e Rinazzo furono costretti a sfollare in 5 tendopoli.
Le pendici del vulcano diventarono così il set di numerosi reportage giornalistici, destinati a cogliere anche gli aspetti del secolare rapporto fra le popolazioni locali e la forza incontrollabile dell'Etna.


Di questo legame, nel dicembre del 1950 l'inviato de "L'Europeo" Tommaso Besozzi colse l'impaurita ed a volte risentita reazione devozionale in occasione di un evento che mise a rischio l'incolumità di abitazioni ed attività economiche:

"La storia dell'Etna, che fu per il mondo greco il vulcano per eccellenza, è disseminata fin dalla remota antichità di superstizioni; la differenza principale tra le leggende e i riti esorcistici dell'antichità greco-romana e quelli dell'era cristiana, è nel fatto che nei tempi pagani le eruzioni del vulcano hanno per protagonisti delle entità divine o semidivine la cui ira e il cui capriccio è da sedare coi riti esorcistici, mentre nei secoli cristiani il dramma delle popolazioni sub-etnee minacciate dalla collera del vulcano ha come personaggi i santi il cui intervento contro la forza diabolica o di natura si ottiene, o meno, coi riti propiziatori e col merito dei fedeli.
Ad ogni nuova eruzione, si assiste all'uscita delle statue variopinte dei santi, che o su carri o a spalla vengono portate verso il fonte della colata di lava.
Le immagini atteggiate con enfasi ingenua all'estasi o al martirio sostano circondate dai fedeli tesi nell'aspettativa, che nel prolungarsi del pericolo può mutarsi in esigenza imperiosa e poi in delusione collerica.
San Giuseppe col bastone fiorito, santa Lucia cieca che ostenta in una coppa i suoi occhi strappati, san Biagio con piviale e mitra, san Rocco col cane, sono acclamati o insolentiti.

Salvataggio di botti di vino
prima dell'arrivo della lava
Durante l'eruzione del 1928, gli abitanti di Puntalazzo e quelli di Mascali portarono in processione le statue dei rispettivi protettori, san Vito e san Leonardo.
Puntalazzo si salvò, Mascali scomparve per intero.
La statua di San Leonardo fu lasciata a bruciare dalla lava.
Vi fu un vero esodo di fedeli dal partito dell'uno al partito dell'altro santo.
In un gruppetto di profughi una donna chiamava inutilmente suo marito a pochi passi di distanza, "Nardu, Nardu!".
Il marito per un poco fece il sordo, poi si voltò incollerito:
"Chi chiamavi, a mia? Io nun mi chiamu chiù Nardu, mi chiamu Vitu. Vitu!"