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domenica 27 febbraio 2022

L'ASPRA E QUASI SCONOSCIUTA ATTRATTIVA DI CAPO ZAFFERANO

Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Ai piedi del Catalfano, e unito a questo da una penisoletta poco elevata, sorge il capo Zafferano, roccioso, conico, bellissimo, alto 223 metri, in aspetto quasi di isola, con un faro in basso, e davanti un grande scoglio detto l'Isolotto..."

Così la Guida Rossa della Sicilia edita nel 1919 dal Touring Club Italiano - la prima dedicata all'Isola dal TCI - descrisse capo Zafferano, un promontorio tirrenico palermitano vittima di uno dei tanti paradossi ambientali isolani. Pur vantando un'importanza paesaggistica e naturale di grande rilievo, capo Zafferano non viene infatti quasi mai citato dalle moderne guide dedicate alla Sicilia. Le solitarie pareti di natura calcarea e dolomitica a picco sul mare ed i profondi fondali arricchiti dall'apporto di sorgenti d'acqua dolce sembrano non interessare palermitani e turisti. La disaffezione si spiega forse con le difficoltà di balneazione di questo promontorio - che pure nasconde alcune calette smeraldine, rese terse da fondali di ghiaia - la cui asperità fece scrivere nel 1584 a Camillo Camilliani:

"E di quivi si cominciano ad innalzarsi le rupi, che sono eminentissime, quali formano un altissimo monte, spiccato intorno, detto il Capo di Zaffarana..."



Aspro e restio ad accogliere bagnanti ed escursionisti - un sentiero che conduce in cima, dove rimangono poche tracce di una plurisecolare torre di avvistamento, presenta notevoli difficoltà di percorrenza - capo Zafferano è anche un millenario luogo di transito lungo le coste siciliane. I pescatori di Aspra, Porticello e Santa Flavia ne conoscono bene i rischi di navigazione:

"All'interno del golfo - ha scritto a questo proposito Orietta Sorgi in "La pesca e i suoi numi tutelari. Il culto di Maria Santissima del Lume a Porticello" ( in "Santi a mare. Ritualità e devozione nelle comunità costiere siciliane", Soprintendenza del Mare di Sicilia, 2009 ) - costituisce la sicurezza ed il sicuro rientro in porto. 



Ma all'esterno, la presenza dei venti maestrale e ponente, o peggio dello scirocco, rendono alquanto insicuro il suo attraversamento, tanto più che a largo affiorano le secche delle Formiche, ulteriore elemento di pericolo a mare, perché sono poco visibili a chi non una certa esperienza e conoscenza di quei fondali..."    

mercoledì 23 febbraio 2022

IL SOMMO SACERDOTE DI MOZIA SCOPERTO SUI FONDALI DELLO STAGNONE

Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"C'erano stagioni - ha scritto la giornalista, saggista e pittrice Gaia Servadio nel suggestivo "Mozia. Fenici in Sicilia" ( Feltrinelli, 2018 ) , narrazione non accademica e brillante di un "popolo misterioso perché perdente" -  nelle quali lo Stagnone pullulava di imbarcazioni. Quando Mozia contava una popolazione di quindici-sedicimila persone, è ragionevole pensare che almeno mille di loro, essendo gente di mare, possedessero una barca da pesca anche di piccola stazza, oppure una grande per uscire da Capo Boeo. La laguna a volte accoglieva la flotta cartaginese che perlustrava l'alto mare per tenerlo libero da pirati e nemici. Le navi commerciali arrivavano da Utica e Malta, da Solunto e Palermo, da Gades e dalle Baleari; l'impero fenicio-punico ( se di impero possiamo parlare ) era immenso. Grandi e piccole, le navi approdavano quindi a Mozia per molte ragioni: per rifornirsi di cibo, per essere riparate o per un cambio di equipaggio; le più grandi rimanevano ancorate al largo... Dentro e attorno alla laguna di Mozia c'è un vero e proprio cimitero di navi puniche. Oltre cinque secoli di attività marinara significano un gran numero di naufragi: difatti sono state ripescate dal mare statue puniche, persino fenicie, alcune in pietra, altre in bronzo. Fortunatamente, i manufatti fenici e punici si sono salvati dalla pesca clandestina perché sono meno ricercati di quelli greci o romani..."



Una delle statue rimaste nascoste per secoli nei bassi fondali dello Stagnone di Mozia fu scoperta e riportata alla luce il 13 luglio del 1933. Quel giorno, alcuni operai impegnati nella riparazione di un imbarcatoio in legno in contrada Spagnola - ad 800 metri di distanza dalla caserma della Regia Guardia di Finanza di Salina Infersa - si accorsero della presenza sul fondo di un grosso masso, parzialmente coperto dalla sabbia. Decisero di rimuoverlo per evitare danni alle imbarcazioni; per asportarlo più agevolmente, cominciarono a praticare tre fori con una mazza in ferro. Smisero di lavorare quando fu evidente che quella grossa pietra in calcarenite locale era il torso maschile di una statua acefala. La parte non protetta dalla sabbia - soprattutto il lato anteriore - era ricoperta da uno spesso strato di incrostazioni marine. Solo un lungo lavoro di restauro rivelò i dettagli della statua, la cui altezza originaria è stimata in almeno due metri e venti centimetri. Il torso nudo presenta un gonnellino di tipo egiziano retto in vita da una cintura. Il braccio destro è teso lungo il fianco, la mano chiusa regge nel pugno forse un rotolo. Tre profondi solchi indicano le dita, mentre la gamba sinistra è leggermente protesa in avanti. I tre fori praticati all'epoca del rinvenimento dagli operai hanno lasciato evidenti tracce soprattutto all'altezza dell'ombelico.


 

L' esame stilistico indica che la statua - custodita dapprima all'interno del Municipio di Marsala e poi al Museo "A.Salinas" di Palermo - è un esempio di arte fenicio-cipriota di età arcaica del VI secolo avanti Cristo. Non esistono certezze sull'identificazione del personaggio scolpito nella calcarenite. Potrebbe trattarsi di un personaggio di spicco della società di Mozia, forse un sommo sacerdote il cui ruolo è stato così descritto da Gaia Servadio:

"Il sommo sacerdote, che apparteneva alla nobiltà, e i due vicari gestivano i templi principali e uno stuolo di contabili, musicisti e persino barbieri per rasare la testa di penitenti e sacerdoti..." 

domenica 20 febbraio 2022

MALESSERI E SODDISFAZIONI DELLA VITA TRAPANESE

Abbraccio in curva Sud
allo stadio di Trapani 
durante un derby con il Siracusa.
La fotografia di Eugenio Nacci
venne pubblicata il 23 novembre 1965
dalla rivista "Il Mondo"


"Fuori dalla Sicilia abbiamo sempre sentito dire di Trapani come della punta avanzata dello stivale d'Italia, pur non essendo per la verità posta a minore distanza dalle ultime propaggini costiere africane di quanto non lo siano diverse altre città o località isolane. Eppure, qui si respira davvero tutta un'atmosfera che si potrebbe cogliere in qualsiasi città dell'Africa settentrionale, a Tripoli per esempio. E le ragioni, quelle piccole e spesso insignificanti cose che appunto contribuiscono a quella atmosfera generale, si riallacciano a tempi ormai andati, a tradizioni e costumi oggi in declino o addirittura in disfacimento; quanto ai giovani, poi, non li conoscono neppure. Prima fra tutte, più importante per molti versi, è la tradizione del mare che va scomparendo poco a poco e che in passato ha fornito copiosamente i valori essenziali al significato che qui si dava alla vita, anzi alla ragione di vivere...

Fino a venti, trent'anni fa tutto a Trapani si basava sulla pesca, sulle saline di qui e su quelle che le più antiche famiglie trapanesi si tramandavano in Somalia, in Tunisia, in Libia, e sui floridissimi commerci con l'Africa e con l'Oriente asiatico. La sua posizione geografica nel cuore del Mediterraneo, affacciata sul Canale di Sicilia, in quel tempo contribuiva in larghissima misura al continuo incremento delle attività di Trapani. Da qui prendevano il mare i bastimenti dei Florio alla volta di paesi lontanissimi donde tornavano carichi d'ogni bene... La flotta dei pescherecci era assai ricca e solida, per numero e per le sue attrezzature, e faceva buon conto su una marineria che si dice niente avesse da temere al confronto con le più abili e smaliziate d'Europa.



Parlando con alcuni trapanesi di non giovane età, ci pare quasi di ravvisare in essi una malcelata malinconia, una sorta di apprensione. Ma è una realtà, questa di Trapani, che s'aggiunge per intero a quella siciliana e con essa diventa dura, difficile, acquista appieno il diffuso stato di malessere esistente: principalmente chiede d'essere affrontata con coraggiosa sollecitudine. Malgrado tutto, qui è ancora la miseria che prevale: il benessere è da venire, a Trapani..."

Il giornalista Antonio Ravidà così testimoniò le sue impressioni su Trapani in un reportage pubblicato nel marzo del 1963 dalla rivista "Viaggiare", edita a Palermo dalla Società per l'Incremento Turistico. A distanza di quasi sessant'anni, Trapani continua ad essere una città con irrisolte ambizioni di crescita economica. E se agli occhi di molti italiani e stranieri si rivela un luogo perfetto per qualità di vita - un clima mite, l'accoglienza delle persone, la buona cucina, l'assenza del caos urbano di Palermo o Catania, i riflessi del sole sulle Saline, le vicine attrattive delle Egadi e di Erice, un  favorevole costo della vita - per molti trapanesi permane ancora il rammarico per ciò che il loro luogo di origine non offre: migliori infrastrutture, una vita culturale più attiva, più lavoro legato alle potenzialità turistiche offerte dall'intera provincia. 



Come accade in tutte le altre maggiori città siciliane, anche il gioco del pallone a Trapani diventa l'espressione di un più ampio malessere. Relegato ai margini del così detto "calcio che conta" - rappresentato da società il cui blasone sportivo maschera sempre più a fatica i bilanci in dissesto - identifica le speranze tradite della città. O, se vogliamo ribaltare questo giudizio negativo, il buono dell'arte di accontentarsi di ciò che si ha: un'esistenza monotona, "provinciale" - lo stesso nome dello stadio di Trapani - ma senza le complicazioni e le ambiguità della vita brillante.

giovedì 17 febbraio 2022

LE GIMKANE DEGLI AGRIGENTINI SULLA SPIAGGIA DI PORTO EMPEDOCLE

Spiaggia di Porto Empedocle.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Livornese, assiduo frequentatore dell'isola d'Elba, classe 1920, Carlo Laurenzi è stato saggista, romanziere e giornalista. Ha pubblicato i suoi reportage ed elzeviri su "La Stampa", "Il Mondo", "Corriere della Sera" e infine "Il Giornale", di cui fu tra i fondatori. Fra i giornalisti più capaci di raccontare costumi e distorsioni della società italiana del secondo dopoguerra, Laurenzi - come ha ricordato Gian Carlo Benzing - "amava il mare, il gatti e l'astronomia". Agli inizi degli anni Sessanta gli capitò di viaggiare in Sicilia, imbattendosi in un costume che sembra essere tuttora diffuso a Porto Empedocle, così come dimostrato dalla fotografia realizzata qualche giorno fa da ReportageSicilia

"Nessun bagnante - scrisse Laurenzi in un reportage pubblicato dal secondo volume dell'opera "Sicilia", edita nel 1961 da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini per la collana "tuttitalia" - s'illuderà di frequentare la spiaggia di San Leone o quella di Porto Empedocle con lo stato d'animo, la serena ottusità d'un bagnante a Viareggio. Il sole di Agrigento è come una torrida, gialla ruota in un cielo nero per esuberanza di azzurro.


 

Sono gialle le sponde. Il mare, per lungo tratto, è giallo, finché molto lontano, in una striscia non raggiungibile, trascolora in turchese abbagliante... E' curioso il modo col quale gli agrigentini stanno sulle loro spiagge, delle cui attrattive sono fieri. Non si sdraiano al sole, ovviamente, e di rado si bagnano. Piuttosto, quasi a imitazione dei granchi, corrono... Chi dispone di una bicicletta, di una motocicletta, di un'automobile la spinge senza timore, vola sulla battima come lungo una pista, sollevando spruzzi, aprendo mulinelli di schiuma. Non esiste nulla, per un bagnante tradizionalista, di meno distensivo. Ritengo che nessuna legge locale vieti queste gimkane: una delle automobili che correvano che correvano sul lido di Porto Empedocle, l'ultima volta in cui vi sostai, aveva la targa dei carabinieri. 



A un certo punto la macchina si fermò, e quattro giovani carabinieri ne scesero. E improvvisamente dettero inizio a un trastullo balneare di strana semplicità: si disposero in circolo, lanciandosi l'un l'altro una grossa pietra di pomice, come fosse una palla. Erano molto giovani, dicevo; stavano a torso nudo, con i loro calzoni con le bande rosse. Non ridevano, ma sembravano intenti, preda di una noia gioiosa...

venerdì 11 febbraio 2022

IL VOLTO LIGURE E TOSCANO DI SCIACCA DEL PASSATO

Il quartiere portuale di Sciacca.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Un'enclave della penisola italiana in Sicilia; così, a partire dai secoli XII e XIII, doveva essere Sciacca, dove mercanti toscani, liguri e veneti - grazie alla presenza di un caricatore portuale - crearono piccole colonie cittadine legate al commercio di frumento, orzo e formaggi. Tanti furono i genovesi - come argomentato in M.Gerardi-A.Scandaliato in "Genovesi a Sciacca ed Agrigento", in "La Fardelliana", Trapani, 1991 - ed i pisani, dopo che la loro città subì il potere di Firenze.


 

Pisano - ha scritto Gioacchino Mistretta in "La chiesa di Santa Caterina dei Cavalieri di San Lazzaro nel contesto storico del Belìce" ( Lithos Edizioni, 2021 ) - era frate Ranieri che risollevò le sorti della chiesa di Santa Maria delle Giummare. Tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo conosciamo i nomi di alcuni toscani presenti a Sciacca, quali Argomento, De Giovanna, Fiorentino, Lucchesi, Tusco..."


   

giovedì 10 febbraio 2022

LO SBARCO DELLA MERCEDES A PALERMO ALLA CONQUISTA DELLA TARGA FLORIO

L'arrivo di una delle Mercedes 300 SLR
al porto di Palermo in vista della Targa Florio del 1955.
Le foto riproposte da ReportageSicilia
furono pubblicate dal "Giornale di Sicilia"
il 3 ottobre di quell'anno


Il 2 ottobre del 1955 il porto di Palermo fu teatro di un singolare sbarco. Una nave proveniente da Napoli consegnò ai presenti una testimonianza di teutonica efficienza; sul molo Santa Lucia venne scaricata un'argentea Mercedes 300 SLR imbragata su una sinuosa mono bisarca di colore blu. A ricevere il prezioso carico fu un gruppo di meccanici con indosso candide ed eleganti tute bianche.  I mezzi erano stati spediti in Sicilia dalla Germania in vista della partecipazione alla Targa Florio in programma il 16 ottobre di quell'anno: una gara decisiva - l'ultima della serie - per l'assegnazione del Campionato Mondiale Sport e che vide la casa tedesca schierare al via le coppie Moss-Collins, Fangio-Kling e Titterington-Fitch. Con l'obiettivo obbligato di conquistare i primi due posti sul tortuoso circuito delle Madonie - unico risultato utile per superare la Ferrari nella classifica finale del Campionato - la Mercedes raggiunse il suo intento; quella siciliana, fu la prova di un'impressionante capacità tecnica ed organizzativa. La squadra tedesca, guidata dal direttore sportivo Neubauer, provò a lungo il percorso nei giorni precedenti la gara, alla ricerca della migliore messa a punto delle proprie vetture. Non furono risparmiate le spese per l'alloggio dei piloti e di uno stuolo di meccanici e dirigenti; per l'assistenza delle 300 SLR impegnate in gara, la Mercedes si "impadronì" di una villa sul lungomare di Campofelice di Roccella e di un vicino magazzino rurale. Tornando alle fotografie dello sbarco della 300 SLR al porto di Palermo - immagini pubblicate all'epoca dal "Giornale di Sicilia", che definì quel carico "merce di lusso" - colpisce l'eleganza della bisarca utilizzata per il trasporto della vettura da gara. Il mezzo, ideato dalla Mercedes per trasferire rapidamente le singole auto sui circuiti di tutt'Europa, era in grado di viaggiare ad una velocità di 170 chilometri orari. Per la bellezza delle sue forme e per le raffinate caratteristiche tecniche, quella mono bisarca  aveva preso il soprannome di "Portento Blu". Il reparto corse della casa tedesca lo aveva munito dello stesso potente motore della 300 SLR, depotenziato di pochi cavalli: piloti e tecnici avevano così la possibilità di disporre in anticipo dei propri bolidi da gara per i collaudi pre-gara. Fu grazie a questo sforzo organizzativo che la Mercedes piazzò Moss-Collins e Fangio-Kling ai primi due posti di quella edizione della Targa Florio, battendo la Ferrari e vincendo così il Campionato del 1955.


 

La dimostrazione di forza della casa tedesca messa in mostra sulle Madonie fu così commentata da una cronaca sportiva del tempo:

"E' amaro dover constatare che la supremazia delle macchine italiane, fino a poco tempo fa incontrastata, è tramontata per il poderoso incalzare della tedesca Mercedes. Comunque è bene guardare in faccia la realtà senza tentare di mascherare la situazione venutasi a creare in campo automobilistico e possibilmente correre ai ripari. Ciò non sarà facile perché la nostra industria a carattere artigiano non possiede i grandi mezzi della marca di Stoccarda che può permettersi di spendere centinaia e centinaia di milioni per le corse avvalendosi inoltre di un complesso industriale formidabile..."           

domenica 6 febbraio 2022

I SANTI SALVATI IN MARE DEI PESCATORI SICILIANI

Il molo di Porticello, nel palermitano.
La fotografia attribuita a "Foto Randazzo"
venne pubblicata dal mensile
"Panorama" nell'aprile del 1964


Fu nel corso del secolo XVIII - ha scritto Orietta Sorgi in "Santi a mare. Ritualità e devozione nelle comunità costiere siciliane" ( Soprintendenza del Mare di Sicilia, 2009 ) - che il culto di Maria Santissima del Lume si diffuse tra i pescatori palermitani di Porticello. La diffusione di questa devozione, secondo una tradizione orale diffusa tra gli stessi pescatori in contrasto a fonti d'archivio parrocchiali, riconduce ad un evento drammatico del lontano passato. Durante una tempesta o a seguito all'abbordaggio da parte di un legno di "turchi", un vascello fu costretto ad alleggerire il proprio carico; in mare, sarebbe finito anche un dipinto su ardesia della Madonna del Lume, poi recuperato dai pescatori e diventato così oggetto di culto per la borgata di Porticello.

La storia di questa devozione rimanda a quella di molte altre comunità di pescatori siciliani, spesso legata al recupero in mare di oggetti poi diventati materia di venerazione. Ha scritto a questo proposito l'antropologo culturale Giampiero Finocchiaro nell'introduzione al saggio fotografico di Giuseppe Viviano "Terramare, storie di luoghi, di cose e di uomini" ( FLAG, Golfi di Castellammare e Carini, 2018  ):  

"Nonostante l'insularità, la propensione della Sicilia verso il mare è sempre stata un'oscillazione, un sentire pentito o semplicemente inibito dalla paura dell'inoltro senza ritorno. Vi è un verso di un proverbio tradizionale che chiarisce:

"Cui pò iri pri terra, nun vaja pri mari", "Chi può andare via terra, non vada per mare"



... I siciliani si sono rivolti al mare là dove la terra si mostra arcigna ed ingrata, là dove le rocce e la selva degli impedimenti sociali, negava ipotesi differenti ed occasioni alternative... Le comunità marinare si sono così strette a figure di santi miracolosamente trovati a mare, resuscitati dai fondali, ma che viaggiavano per raggiungere una terra, fortunatamente restituiti dalle onde e il rito celebrativo, pagano un tempo e cattolico dopo la disciplina della Chiesa, sempre ne ha ricordato l'unicità irripetibile per dare un senso ad una vita dura e ingrata. Il mare, cioè, nella simbologia della festa marinara ha solitamente portato a terra qualcosa, un sembiante dell'aldilà, una voce superiore, come se il mare fosse ventre cosmogonico e la terra sua fatale epifania. Perché nell'universo delle rappresentazioni collettive, il mare dei siciliani è luogo ostile e pauroso...



Della Sicilia, il mare è, appunto, un destino. Ne segna i confini, ne dischiude gli orizzonti ma ne inasprisce la condizione di isola, ne salta le forme ma ne acceca lo splendore, ne conserva la storia ma ne segna il futuro. Il mare è quel brodo primordiale in cui si genera il caos della vita senza misura, fonte di tutte le contraddizioni del continente siciliano. Un pezzo di "terra a mare" che da secoli, millenni, se ne sta in disparte, restio ai trascinamenti, diffidente ai passaggi, poco incline agli entusiasmi. La Sicilia, dentro al suo mare, semplicemente sta..."


giovedì 3 febbraio 2022

SCIASCIA E L'ACQUA ARABA DI SICILIA

"U canali",
fontana nel centro storico
di Petralia Sottana.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Nel 1844 - ha scritto Leonardo Sciascia  ( in "Perché la Sicilia soffre la sete", Corriere della Sera del 12 luglio 1983 )  Palermo aveva quotidianamente 165 litri di acqua per abitante. C'è da credere che esulterebbe, ad averne oggi altrettanti. Londra ne aveva allora 132, Dublino 115, Genova 74, Vienna 65. Soltanto Parigi, Glasgow, Digione e Roma ne avevano di più ( Roma tanto di più: 1000 ). All'aumento della popolazione non ha corrisposto la ricerca e l'adduzione di altre acque, di cui il territorio intorno è ricchissimo. In certi paesi della Sicilia è avvenuto addirittura il contrario: la dispersione o privatizzazione di quelle che già per uso pubblico c'erano. Con notevole approssimazione al vero, si può affermare che dalla dominazione araba ai nostri giorni una ricerca delle acque sotterranee non è stata più fatta in Sicilia. E sono quasi tutti nomi arabi, infatti, quelli delle sorgenti e delle contrade in cui si trovano..."