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domenica 28 giugno 2015

RICORDI PANTESCHI RACCOLTI DA BEPPE FAZIO

Un reportage del giornalista de "l'Ora" pubblicato cinquant'anni fa dalla rivista "Sicilia" svela le memorie di antica vita quotidiana a Pantelleria

Scena di vita estiva a cala Gadir, a Pantelleria.
Le fotografie del post sono tratte
dalla rivista "Italia", edita dall'ENIT
nell'ottobre del 1968
  
"Questa baia di Gadir invita a fantasticare.
Nere di lava e bianche di calce le case scendono giù verso il mare che ribolle di sorgenti calde; i crostacei che vi incappano si cuociono diventando rossi.
Una barca approda e ne scendono gitanti che si fermano per arrostire sulla brace il pesce appena pescato.
Un asino passeggia solo e libero sulla spiaggia, con un passo di ballerina sulle punte.
Tutto è come amalgamato dal sole, che invita a bagni memorabili in queste mitiche acque non turbate ancora dalla speculazione e dalla folla dei turisti di professione"

Poche pagine superstiti di uno squinternato numero della rivista "Sicilia" restituiscono un reportage che il giornalista de "l'Ora" Beppe Fazio scrisse tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni del decennio successivo ( nell'articolo, intitolato "Pantelleria", si fa riferimento ai voli dell'ATI sull'isola ).

Il centro di Pantelleria
con la struttura del castello Barbacane,
opera citata

Il racconto di Fazio - di cui Piero Violante ha ricordato di recente un ricettario di cucina povera siciliana pubblicato sulle stesse pagine di "Sicilia" ( in "Swinging Palermo", Sellerio, 2015 ) - è ricco di testimonianze di vita pantesca raccolte allora fra gli isolani:

"Si susseguono i piatti locali di pesci e di frutti di mare e il sindaco calmo e solenne come un re dei Feaci ( non senza una certa ironia siciliana da attore che recita bene la sua parte ) racconta storie della sua terra: dei pirati musulmani che rapivano le donne di Pantelleria, per cui le case si facevano tutte con le aperture rivolte verso l'interno per non mostrare le luci.
Qualcuno dei più vecchi anzi ricorda rapimenti avvenuti nella sua parentela.

Cala Cinque Denti,
lungo la costa nord-orientale dell'isola,
opera citata

Ma in realtà la distinzione tra pirati e commercianti arabi era incerta fino a un secolo e mezzo fa e a Pantelleria ritrovi spesso l'Africa vicina, in alcuni vocaboli, in alcune abitudini.
Il sindaco ricorda i tempi dell'isolamento quasi totale, quando i battelli toccavano l'isola, sì e no ogni quindici giorni e l'approdo era molto rischioso.
La notizia della morte di Umberto I si seppe con tanto ritardo che si dovettero annullare varie sentenze e ordinanze emanate in nome del defunto re"

E poi, altri ricordi popolari di eventi legati alla dimensione isolana di Pantelleria:

"Si racconta delle grandi pesche miracolose e delle grandi mangiate ancor più miracolose, del vento che porta di notte il suono delle orchestrine delle navi che passano al largo"

"Negli anni di siccità si sfruttava persino il vapore endogeno.
Gli abitanti di Pantelleria mettevano dinanzi ai getti di vapore ( le 'favare' di Recale ) delle frasche e poi si utilizzavano le gocce di acqua che vi si raccoglievano sopra.
Per questa straordinaria gente è stato uno dei tanti modi di amare la vita, di non scoraggiarsi, di continuare a lottare nella propria terra, prima che arrivassero le comodità più essenziali della vita"

Il lago di Venere
in una giornata di bonaccia,
opera citata


Fazio illustra l'architettura dei "dammusi", suggerendo di cercarli non nel centro di Pantelleria, deturpato dalle bombe della guerra e dall'edilizia moderna, ma fra le piccole comunità di contadini e pescatori: a Scauri, a Kamma, a Tracina.
Questa descrizione delle tradizionali abitazioni pantesche è fra le più appropriate e complete nella vasta pubblicistica dedicata all'isola: 

"Il cubo dell'abitazione mediterranea ne è la base plastica, ma la casa si organizza in un insieme coerente di parallelepipedi che seguono il declivio.
Tutto è vivificato dal variare delle quote, dalle costruzioni esterne, come i servizi, forni, cucine all'aperto, scalette incorporate nell'edificio o scavate nella roccia, dalle terrazze e dai 'giardini' circolari, e su tutto, come nota dominante e straordinariamente musicale, la cupola ribassata delle coperture senza tegole, che si ripete su ogni vano, liscia e viva come un dorso di carne, alle volte con un lieve disegno di striature nere di pece, altre volte di un bel colore rosa pallido.
L'acqua, il più prezioso elemento dell'isola, vi scorre sopra e poi si raccoglie nelle cisterne per l'estate.
E' una fase di quella tenace e ingegnosa ricerca dell'acqua che crea questa tipica forma strutturale"

Pescatore a cala Gadir,
opera citata


Nel suo reportage, Beppe Fazio ricorda la data del 17 ottobre 1891, giorno dell'ultimo evento vulcanico che testimonia la natura di Pantelleria.
Nel ricordo del remoto episodio, Fazio diventa cronista del passato:

"Al largo dell'isola un fuoco misterioso sorgeva dalla profondità subacquee, un fuoco che il mare non spegneva.
Dalla costa Nord-Ovest di Pantelleria gli abitanti del luogo e i pochi detenuti a domicilio coatto sostavano sulle nere scogliere.
Illuminati dai bagliori dell'eruzione si indicavano l'un l'altro, sbigottiti, lo strano fenomeno.
Blocchi di lava incandescente, dopo un volo di alcuni metri, ricadevano sulla superficie marina, fischiando e lanciando vapori rossastri, alcuni rimanevano a galleggiare per un pò e poi scoppiavano in una densa nube di fumo e faville.
Per Pantelleria fu l'ultima eruzione"

Raccolta di zibibbo,
opera citata


In questa isola forgiata dal fuoco, della quale Fazio elenca le aspre rocce di cossiriti, trachiti, rioliti, pomici, ossidiane e basalti, è possibile ammirare le virtuosistiche creazioni della natura.
Un mondo che Beppe Fazio descrive con ammirazione e che lo spinge a concludere il suo reportage con un invito rivolto ai lettori:

"L'isola riposa, in una sonnolenza olimpica, nella distesa d'azzurro.
Il mare ha ripreso il sopravvento sul fuoco. Ma Pantelleria è pur sempre un vecchio vulcano spento ed è questa sua natura ignea che la caratterizza.
una montagna di rocce effusive in mezzo al mare, a metà strada tra Africa ed Europa, una montagna coi suoi fiumi antichi e recenti di lava, col suo complesso di 'cuddìe' - le piccole colline vulcaniche - con i suoi laghi di cenere o i suoi crateri trasformati in laghi - il delizioso Bagno dell'Acqua - con le sorgenti calde e i getti di vapore, e con quella variatissima gamma di colori che roccia e fuoco riescono insieme a creare.
Un'isola lontana e fascinosa a un'ora di volo dalla Sicilia resiste ancora alla falsa civiltà dei juke-box.
Avviciniamola col rispetto e l'amore che compete alle cose autentiche"



    


venerdì 26 giugno 2015

LINEAMENTI ESOTICI PALERMITANI PRIMA DELLA GUERRA

Immagini del complesso di San Giovanni degli Eremiti nelle locandine promozionali pubblicate nel 1938 dall'ENIT in due numeri della rivista "Travel in Italy" 


Le due locandine turistiche riproposte da ReportageSicilia risalgono ad un periodo di poco precedente l'inizio del secondo conflitto mondiale; furono infatti pubblicate nei numeri di aprile e in un "numero speciale" autunno-inverno del 1938 della rivista "Travel in Italy", edita dall'ENIT.
I soggetti raffigurati fanno parte del più classico repertorio monumentale siciliano: la chiesa ed il chiostro normanni di San Giovanni degli Eremiti, a Palermo, le cui cupole, opera di maestranze islamiche, suggerirono allora agli strateghi della promozione turistica lo slogan "Palermo lineamenti esotici".
Nella fotografia che riporta questo richiamo - scattata probabilmente da una finestra del vicino palazzo dei Normanni - colpisce il profilo regolare della bassa edilizia residenziale palermitana del tempo, cinta in lontananza dal rilievo orientale dei monti della scomparsa "Conca d'Oro".
Due anni dopo, con l'inizio della guerra, il fine promozionale di quelle locandine sarebbe venuto meno e l'architettura di Palermo avrebbe pagato un duro prezzo all'azione distruttiva delle bombe alleate.



L'area circostante San Giovanni degli Eremiti - ovvero il cuore del centro storico cittadino - non venne risparmiata delle incursioni aeree, unici devastanti viaggi di lingua inglese verso la Sicilia di allora.
Nella notte fra il 29 ed il 30 giugno del 1943 l'ennesimo bombardamento anglo-americano danneggiò palazzo dei Normanni. 
Solo per poche centinaia di metri insomma le bombe alleate non cancellarono il monumento visitato nel 1907 dai Reali d'Inghilterra e in seguito scelto dall'ENIT per rappresentare l'esotismo palermitano.


   


    
    


mercoledì 24 giugno 2015

SICILIANDO














"Qualcosa, in Sicilia, che per la coloritura violacea riflessa dall'acqua, sembrava una grande troffa di buganvillea pendente sulla linea dei due mari, brillò per un attimo dal mezzo della nuvolaglia, poi il brillio cessò e lo seguì un risplendere breve breve e bianco di pietra, e allora, nel momento in cui spariva la fumèa, riconobbe lo sperone corallino che dalla loro marina s'appruava, quasi al mezzo, come per spartirli, fra Tirreno e Jonio" 
Stefano D'Arrigo

UNA FALSA FOTOGRAFA HIPPY TRA I MAFIOSI DI LINOSA

Nel 1971 l'attrice Gina Lollobrigida fotografò in incognito i boss al soggiorno obbligato nell'isola delle Pelagie: fu così che Angelo La Barbera finì nelle patinate pagine del libro "Italia mia" commissionato dall'editore AMPHOTO per la rivista "Life"

Il boss palermitano Angelo La Barbera
accende una sigaretta ad un carabiniere
tra i muretti di pietra lavica di Linosa.
Le fotografie del post furono scattate nell'estate del 1971
dall'attrice Gina Lollobrigida
e pubblicate nel libro "Italia mia",
pubblicato l'anno successivo dall'editore AMPHOTO

In una mattina di estate del 1971 una donna vestita con un giaccone hippy sbarcò a Linosa, l'isola delle Pelagie che solo da pochi anni aveva cominciato ad accogliere visitatori e turisti partiti la sera prima da Porto Empedocle
Il suo aspetto, malgrado le movenze agili e disinvolte, non permetteva facilmente di indovinarne l'età.
Il viso era quasi nascosto da una folta capigliatura nera; grandi occhiali da vista dalle lenti molto spesse coprivano metà del volto, le cui guance apparivano stranamente gonfie, quasi bitorzolute.
La donna portava con sé un bagaglio minimo: una borsa di paglia ed una macchina fotografica 35mm corredata da parecchi rullini.
Lo scopo della sua visita a Linosa era infatti quello di realizzare il maggior numero di scatti possibili ad un gruppo di ospiti particolari della piccola isola: i 16 boss di Cosa Nostra che la mattina del 18 marzo di quell'anno avevano iniziato il loro soggiorno obbligato in quel pezzo di terra, a metà strada fra Sicilia ed Africa.
Quella fotografa dall'aspetto un po' bizzarro era arrivata in incognito: la fitta capigliatura era in realtà una parrucca, gli occhiali erano posticci e il gonfiore delle guance era provocato dalla sistemazione in bocca di due grossi bottoni.
Tolto quel travestimento, tutti - anche i mafiosi che ora si prestavano quasi per gioco agli scatti di quella donna dall'aspetto hippy - avrebbero potuto riconoscerla in Gina Lollobrigida
L'attrice laziale - insieme alla Loren, icona internazionale del cinema italiano di quegli anni -  si era spinta quasi ai limiti geografici dell'Italia per assecondare una recente passione per la fotografia, presto trasformata in impegno professionale.
Gli scatti realizzati a tu per tu con i mafiosi siciliani - personaggi che sui giornali dell'epoca occupavano ben altre pagine di giornali e rotocalchi - sarebbero infatti serviti ad illustrare un libro commissionato dalla rivista americana "Life".



Il volume venne pubblicato da Gina Lollobrigida nel 1972 con il titolo "Italia mia" per AMPHOTO e con una prefazione di Alberto Moravia.
Insieme alle tre fotografie dei capimafia al soggiorno obbligato a Linosa, le altre 197 immagini del libro testimoniano il via vai della Lollobrigida lungo la penisola: un reportage per immagini durato tre anni destinato ad offrire uno spaccato della società italiana del periodo.
I mafiosi siciliani al soggiorno obbligato nella piccola isola agrigentina furono così rappresentativi di un Paese che la Lollobrigida rappresentò anche nelle catene di montaggio della Fiat, negli "scugnizzi" di Napoli, negli operai delle cave di marmo di Carrara e nei ritratti di Guido Carli, Federico Fellini e Giorgio De Chirico.


La scelta di Gina Lollobrigida di ritrarre i boss della mafia a Linosa nacque sulla scia dell'interesse che molti giornali italiani e stranieri dedicarono alla vicenda.
Il trasferimento venne deciso dal ministro dell'Interno Restivo, dal capo della polizia Vicari e dal comandante dei Carabinieri Sangiorgi dopo l'omicidio a Palermo nel maggio del 1971 del procuratore Pietro Scaglione e del suo autista, Antonio Lorusso.
Salvatore Zizzo, Rosario Di Maggio, Damiano Cumella, Calogero Migliore, Mariano Licari, Giovan Battista Vitale, Mariano Pizzo, Vincenzo Nicoletti, Rosario Mancino, Diego Plaja, Francesco Gambino, Rosario Riccobono, Giuseppe Sirchia, Vincenzo Sorce, Salvatore Gnoffo e Angelo La Barbera appartenevano al gruppo di imputati del processo di Catanzaro, alcuni dei quali sottoposti già al soggiorno obbligato fra Veneto, Piemonte e Marche.
Il trasferimento a Linosa venne giudicato la scelta migliore per tagliare loro i contatti con altri mafiosi: mare permettendo, l'isola si poteva raggiungere soltanto dopo una nottata di traversata con la motonave "Vittorio Carpaccio".
Inoltre Linosa non era ancora coperta dal servizio di teleselezione: per chiamare un'utenza, occorreva fare la fila al posto pubblico, dare il nome ed il numero di telefono ed aspettare la chiamata, confidando nel buon funzionamento del ponte radio.



Nel loro nuovo luogo di residenza - in verità non troppo impermeabile ai contatti esterni - i mafiosi potevano inviare e ricevere lettere, incontrare parenti e sconosciuti, pescare e fare il bagno; la libertà di movimento era limitata dai divieti di rincasare oltre un certo orario serale, di uscire la notte o di utilizzare barche.
La maggior parte dei 16 boss scelse di vivere in piccoli gruppi in alcune delle 136 casette dell'isola, pagando un affitto variabile fra le 500 e le 1000 lire al giorno; gli altri - fra questi anche il capomafia più in vista, Angelo La Barbera - dopo un primo periodo di utilizzo delle abitazioni scelse di soggiornare all'interno delle aule delle scuole elementari.
Dopo un primo periodo in cui i coatti esibirono una grande disponibilità di denaro - esaurendo le scorte di sigarette e prodotti alcolici nelle poche rivendite isolane - alcuni mafiosi iniziarono a non pagare più la pigione; altri, invece, cominciarono uno sciopero della fame ( in realtà, solo formale ) stazionando dinanzi la caserma dei Carabinieri.
I boss giustificarono il loro atteggiamento lamentando l'impossibilità di pagare le spese degli affitti perché disoccupati; inoltre, contestavano le dure condizioni di vita a Linosa, dal clima torrido di giorno e umido la notte. 
In realtà, lo scopo di queste proteste e la decisione di non pagare i proprietari delle case fu quello di creare tensioni nell'isola, costringendo il governo a trasferire in loro soggiorno obbligato in località per i mafiosi meno disagevoli. 
Così, a fine agosto Pasquale Bonadonna, maestro elementare e rappresentante del Municipio di Lampedusa, dopo avere inutilmente aspettato risposte dalla Prefettura di Agrigento si dimise dal suo incarico.
Il malcontento dei linosani venne in parte alleviato dalla decisione, pochi giorni dopo, di trasferire alcuni mafiosi in altre isole.
Plaja, Pizzo e Sanfilippo furono spediti in tutta fretta all'Asinara ( e ci fu chi spiegò il loro allontanamento con le tensioni interne nel gruppo dei 16 boss ); altri, come il temuto Angelo La Barbera, finirono addirittura ai confini opposti dell'Italia, a Trento.

Gli scatti realizzati in incognito dalla Lollobrigida a Linosa raffigurano proprio La Barbera, reduce da un precedente soggiorno obbligato a Cingoli, nelle Marche.
In un primo piano del boss, si coglie un che di beffardo e insieme di spaesato nell'espressione di un uomo che un decennio prima veniva considerato il "volto nuovo" della mafia palermitana, protagonista dell'assalto del cemento che stava travolgendo l'aspetto della città.
Insieme al fratello Salvatore - vittima di lupara bianca nello scontro con i Greco di Ciaculli - La Barbera abitava allora in un elegante condominio di via Veneto, porta a porta con alti burocrati della Regione e amministratori del Comune.
Con loro, concordava il via libera alle concessioni edilizie e l'assunzione di questo o quell'impiegato vicino alla famiglia mafiosa di Palermo centro.
A Linosa faceva ora vita appartata rispetto agli altri mafiosi, retaggio di un prestigio criminale ormai tramontato da tempo.


Scene di vita quotidiana di Linosa
nei mesi di soggiorno obbligato dei boss

Solitario e sprezzante, il 47enne schivò anche i tanti giornalisti che cercarono di incontralo durante il suo soggiorno nell'isola; uno di loro, Nicola Adelfi, lo definì "un piccolo Napoleone in una piccola Sant'Elena".  
Vestiva in maniera elegante; durante le giornate di caldo africano indossava magliette a collo alto, forse per nascondere i segni delle ferite di arma da fuoco al petto. 
Per due volte - nel 1963 - Angelo La Barbera era scampato al fuoco dei sicari, a Palermo e Milano.
Quattro anni dopo essere stato il bersaglio fotografico della finta donna hippy a Linosa, La Barbera avrebbe finito col pagare il vecchio conto rimasto in sospeso con i Greco.


Un autoritratto fotografico di Gina Lollobrigida.
L'immagine è tratta dal sito http://www.ginalollobrigida.com/

Il 28 ottobre del 1975, tre sicari palermitani come lui detenuti nel carcere di Perugia, la "banda dei Giuseppi" - Giuseppe Rizzo, Giuseppe Ferrera e Giuseppe Privitera - lo raggiunsero indisturbati armati di coltello all'interno dell'infermeria: l'ex confinato di Linosa venne raggiunto da undici fendenti, uno dei quali al cuore.
Qualche giorno dopo, l'ex potente della "nuova mafia" di Palermo tornò dai suoi familiari su una bara caricata su un treno merci. 
Le cronache del tempo ricordano che la salma di quell'uomo immortalato con l'inganno nell'Italia fotografica di Gina Lollobrigida a stento trovò un prete disposto a benedirla.




da consultare

http://www.ginalollobrigida.com/


     






  

giovedì 18 giugno 2015

DISEGNI DI SICILIA


Manifesto promozionale dell'ENIT, 1920 (?)

mercoledì 17 giugno 2015

LA TENDA CON VISTA DEL VILLAGE MAGIQUE DI CEFALU'

Pubblicata con un errore di grafica sulla rivista dell'ENIT "l'Italia" nell'agosto del 1954, una fotografia del villaggio turistico di Santa Lucia ne ricorda lo spettacolare sguardo sulla rocca del paese


"Alfonso entrò in un giardino semibuio, rischiarato qua e là da fioche lampade, nascoste fra i cespugli, lungo i viali di ghiaia.
La musica di un'orchestrina si diffondeva per l'aria, tra gli ulivi e le palme.
Odori insinuanti di fiori, gelsomino, di natura serpeggiavano nell'aria tiepida della sera.
Alfonso si diresse verso il centro, dove si scorgeva una luce più intensa e da dove sembrava venisse la musica.
Si trovò davanti uno spazio ammattonato, una pista da ballo circolare, attorno alla quale erano disposte in semicerchio e in più file delle sedie a sdraio.
L'orchestra, nascosta in un angolo, suonava una musica lenta e, sulla pista, due o tre coppie di ballerini, strettamente allacciati, strascinavano sulle mattonelle i piedi scalzi.
Alle sdraio sembrava che non ci fosse nessuno ma, a ben guardare, si scorgevano teste appaiate, mani, braccia, gambe che si contorcevano; si udivano bisbigli, sospiri, risolini sommessi.
Alfonso, smarrito, tirò un sospiro di sollievo.
Benedì quel semibuio che in qualche modo lo metteva a suo agio.
Poi scorse il bar, in fondo, in una sorta di capanno di frasche.
Lì si diresse. Aveva deciso di bere qualche alcolico per darsi un po' di coraggio.
La musica cessò e luci forti, a giorno, si accesero di colpo.
"Whisky doppio" ordinò Alfonso. Bevve d'un fiato. Sembrava lì attorno fosse avvenuta la resurrezione della carne.
Sorsero dalle sdraio come dalla terra, sbucarono dagli angoli bui donne e uomini nudi, abbronzati.


Le donne meravigliose con qualche pezzo di stoffa addosso a coprire qua e là qualcosa; gli uomini, alti, magri, aitanti, con i pantaloncini a fiori o con una tovaglia colorata attorno alla vita.
Alle Hawaii sembrava di essere. 
E tutti erano accoppiati, a due a due.
L'orchestra attaccò un shake e tutti furono sulla pista a contorcersi, e a ballare l'una di fronte all'altro con quelle movenze di canagliesca grazia, di sfacciata e di allusiva oscena espressività"

Nel racconto "La prova d'amore" pubblicato nell'opera postuma "La mia isola è Las Vegas" ( Mondadori, 2012 ), Vincenzo Consolo ha ricostruito l'atmosfera di sfrenata sensualità che ha accompagnato la storia ( e le tante leggende ) riguardanti il Village Magique di Cefalù.
Già in passato, ReportageSicilia ha ospitato alcune immagini poco note della tendopoli realizzata a partire dal 1950 su un pianoro digradante sul mar Tirreno di contrada Santa Lucia.
L'accoglienza era spartana, ma la vista sulla rocca di Cefalù era la migliore allora offerta dalle strutture turistiche del paese.
Il villaggio venne ideato su iniziativa dell'editore della rivista francese "Elle"; sembra che la scelta del sito siciliano sia stata suggerita a Paul Morihien dal poeta e romanziere Jean Cocteau.


Il successo del Village Magique di Cefalù, frequentato soprattutto da cittadini francesi e scandinavi, è testimoniato dai numeri: nel 1951 i visitatori furono 41.000, che diventarono 70.000 nel 1957.
L'immagine riproposta  da ReportageSicilia venne pubblicata nell'agosto del 1954 sulla quarta di copertina della rivista dell'ENIT "L'Italia"; riaffiora adesso grazie alla preziosa disponibilità documentaria di Michele Di Pietro, uno dei curatori della biblioteca dell'ENIT a Roma
Come tutti i cefaludesi contesteranno, lo scatto - attribuito al fotografo Teegen - venne in origine stampato al contrario.
Così, la rocca di Cefalù è posta a sinistra rispetto al punto di vista di chi la osserva dalla zona di Santa Lucia: un errore grafico che poco toglie all'atmosfera di primitiva bellezza di questo angolo di costa palermitana di sessant'anni fa.

     


 



domenica 14 giugno 2015

LE DRAMMATICHE E TENERE MERAVIGLIE PALERMITANE DI CARLO LEVI

La città del 1962 al passaggio incompiuto fra vecchio e nuovo nelle pagine di un racconto che seguì la pubblicazione di "Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia" 


Rivendita di polli e uova fresche
in una bottega sul piano stradale dell'aristocratico palazzo Scavuzzo,
in piazza Rivoluzione, a Palermo.
La fotografia di Josip Ciganovic è tratta dal I volume
dell'opera "Sicilia", edita nel 1962 da Sansoni
e dall'Istituto Geografico de Agostini.
Da quell'opera, ReportageSicilia ripropone
un racconto palermitano dello scrittore Carlo Levi


Lo scrittore e pittore Carlo Levi http://www.carlolevifondazione.it/ è stato uno dei più sensibili osservatori della realtà siciliana del secondo dopoguerra.
L'autore di "Cristo si è fermato a Eboli" visitò l'isola più volte, stringendo rapporti di amicizia e di ispirazione letteraria con alcuni fra i protagonisti della cultura isolana di quegli anni.
Uno di questi fu il giornalista e saggista Mario Farinella, compagno di reportage di Levi nella Sicilia del feudo, delle lotte contadine e nelle denunce sulla miseria nei borghi rurali e nei quartieri più poveri di Palermo.
L'intimo rapporto fra lo scrittore torinese e l'isola è così testimoniato dalla prefazione scritta nel 1966 dallo stesso Carlo Levi al libro di Farinella "Profonda Sicilia", edito da Libri Siciliani:

"Mario Farinella è tornato, ancora una volta, nella profonda Sicilia interna, nell'oscuro paese dei contadini, nel cuore antico dove la storia dei secoli è un groppo, un complesso, una condizione ineffabile di dolore.
E noi torniamo con lui, in queste sue pagine.
Mario Farinella mi aveva accompagnato in qualcuno di quei miei viaggi, che non erano soltanto per me, la scoperta di una Sicilia vera, degli uomini nuovi che andavano creando un mondo nuovo, ma la scoperta di una parte di me, la più autentica e legittima, che in quegli uomini, in quelle terre, si ritrovava..."

L'opera che riassume l'indagine di Levi sui travagli e sul desiderio di riscatto della Sicilia all'epoca della riforma agraria - un libro ricco di testimonianze su luoghi e persone simbolo ancora attuale dei mali dell'isola e del loro persistere - è "Le parole sono pietre. Tre giorni in Sicilia", edito da Einaudi nel 1955.
Sette anni dopo, Carlo Levi pubblicò sul I volume dell'opera "Sicilia" edita da Sansoni e dall'Istituto Geografico de Agostini, un nuovo scritto dedicato al capoluogo isolano, intitolato "Palermo, chiuso segreto di dolore e di amore"


Scena di vita cittadina sullo sfondo
della chiesa dell'Olivella.
Fotografia di Josip Ciganovic, opera citata

Il reportage di Levi fu scritto in un periodo cruciale nella storia sociale e urbanistica cittadina, di transizione fra vecchio e nuovo e del loro mischiarsi  in un destino di inestricabile contraddizione.
Lo scrittore piemontese - dopo essere atterrato nel nuovo e sciagurato aeroporto di punta Raisi - descrisse una Palermo ancora animata dalle narrazioni dei cantastorie e dal passaggio dei carretti variopinti; una città ancora abbellita dalla verdeggiante edilizia del viale della Libertà e dalla dorata spiaggia di Mondello, odorosa di ricci di mare; una Palermo ancora capace di suggerire il ricordo delle strade percorse dai garibaldini, ma dove "accanto ai modi più moderni e avanzati di vita civile e di cultura permangono costumi e sentimenti arcaici e istituzioni feudali", e in cui prosperano i clan che in quegli anni stavano trasformando le cosche rurali in moderna mafia urbana, a stretto contatto con i politici e burocrati locali.


Vigile urbano con impeccabile divisa
ed edicola ambulante in piazza Vigliena.
Fotografia di Josip Ciganovic, opera citata


Insieme al racconto palermitano di Carlo Levi del 1962, ReportageSicilia ripropone da quel volume  dieci fotografie che mostravano la città del periodo: un racconto per immagini della "drammatica e tenera meraviglia di Palermo" su cui si appuntarono, affascinati e turbati, gli occhi e la scrittura di Levi.  

"L'ingresso a Palermo, da qualunque parte avvenga, con qualunque mezzo, in qualunque stagione dell'anno, ora del giorno o della notte, è sempre un avvenimento, un trovarsi, improvviso o variamente preparato, nel cuore di un mondo, nel chiuso segreto di una nozione di amore di dolore e di dolcezza, come per un insetto che vola il trovarsi d'un tratto nell'ombra fresca del calice d'un fiore.


Tendoni dei venditori ambulanti
e moto Ape in piazzetta del Garraffo, alla Vucciria.
Fotografia di Josip Ciganovic, opera citata

Ora il nuovo aeroporto è lontano dalla città, a punta Raisi, e bisogna percorrere un gran tratto di costa, tra le montagne e il mare, e lasciarsi a sinistra l'Isola delle Femmine, deserta, e attraversare paesi salmastri e bruciati, intatti nel loro costume e nelle regole segrete, una zona campestre che diventa sempre più cittadina, fino alle spiagge dorate di Mondello, al profumo dei ricci di mare, all'apparizione di Santa Rosalia sul suo grande monte Pellegrino, africano e dirupato, e alla città che si apre di qui, elegante, coi giardini della Favorita, e la via verdeggiante della Libertà.
Prima, si calava dal cielo, dopo essersi librati come falchi in un giro che sfiorava i dossi eccelsi e voraginosi delle montagne bizzarre, quasi nel centro della città, a Boccadifalco.
Di qui si scendeva una lunga strada dritta, popolare e gremita di una sua vita di miseria e di energia brulicante, si passava una porta antica, e si era, in un momento, dal cielo all'ombra di palazzo dei Normanni, alla cattedrale, all'architettura splendida di Arabia, ai giardini che conservano il verde e l'intimità saracena, dove, sotto una palma, il cantastorie ripete la sua antica epoppea di paladini e di battaglie.


Una insolita veduta di Palermo dalla Cattedrale.
In primo piano, la cuspide di una delle quattro torri
dell'edificio di epoca normanna.
Fotografia dell'Assessorato al Turismo, opera citata

Se arrivi con la nave, tutta la città appare, appoggiata alla sua conca e ai suoi colli, e una folla nera e agitata è in attesa sulla banchina, perchè il breve viaggio è tuttavia un ritorno, nell'isola chiusa, da paesi che sono di là dal mare, lontani e diversi; e quando sei sceso, e hai lasciato la gente che si abbraccia le vere lacrime, ti perdi nei vicoli della Kalsa, oscuri corridoi della fame e della vitalità turbolenta.
Se arrivi col treno sei già preparato dal lungo viaggio su una costa varia e miracolosa: montagne deserte e divine, nuovole, città, distese di feudi e fiorire di aranci; il treno ti lascia nel centro, davanti alla strada che taglia dritta la città e nasconde da ogni lato i cortili dei poveri.
Ma se arrivi a Palermo dall'interno, dalle vie della terra, con una macchina, o su un carro dipinto, o a piedi, e ti affacci dall'alto sostando a guardare in uno qualunque dei punti della grande cerchia dei monti, e la città ti appare di sotto vicina e luminosa sul fondo azzurro del mare, allora la senti davvero come un luogo di arrivo, un centro di vita, una persona da capire e conquistare, un luogo attivo di passione nel centro di un deserto di pietra, di costume immobile, di incomunicabile solitudine.


Uno dei grandi "ficus" del giardino Garibaldi,
in piazza Marina.
Fotografia di Josip Ciganovic, opera citata

Da qualunque parte tu venga, è la strada di Garibaldi, che gira tutto attorno come se da ogni parte volesse scrutare la città desiderata. 
Risali da Partinico, attraverso gole feroci di pietra e di solitudini, propizie al brigante padrone della montagna, e puoi volgerti a sinistra scendendo rapido da Pioppo verso Monreale, arabesco avamposto da cui puoi calare rapidissimo in città.


Sosta selvaggia di Bianchine, Fiat Seicento e Cinquecento
in piazza San Domenico.
Fotografia senza attribuzione, opera citata

Ma se volgi a destra, e segui i lunghissimi crinali dei sentieri garibaldini, ti sembra che quella città, là in basso, sia un miraggio nel deserto, che si può toccare con la mano e si allontana ad ogni passo di più; finchè, se da Misilmeri risali a Gibilrossa, di lassù, nel vento del colle, tra le erbe e i finocchi selvatici, e la ragnatela dei sentieri che serpeggiano lunghissimi, irraggiandosi come vene da un cuore lontano sei spinto a scendere con il passo allegro di chi corre a una conquista fraterna, giù verso il ponte dell'Ammiraglio e la porta e l'antica città.
La città è la capitale di una nazione vivente, autonoma e individuata dentro e a fianco della nazione italiana: di una nazione o di un popolo costruito nei millenni dagli elementi più vari, diversi e contraddittori, fusi insieme, ma tuttavia riconoscibili, secondo i loro geni diversi, in ogni atto, momento e gesto del presente.


Una delle banchine del porto di Palermo.
Fotografia senza attribuzione, opera citata

Una unità fatta di differenze, che conserva oggi, in modo attuale, tutta la memoria del passato, e l'eredità, le speranze, le ricchezze e i problemi, tutte le situazioni e le condizioni umane; sicchè, in ogni momento della vita pubblica e privata, dagli atti importanti a quelli quotidiani, permane una tensione, un dramma interno non risolto, un dividersi di parti come in un continuo dialogo teatrale, un salto interno, una differenza di potenziale, che fa di ogni momento un problema, di ogni sguardo una domanda, di ogni espressione un gesto che oscilla tra il più nero silenzio e la più generosa apertura: sì che la vita appare tutta tragica, fragile e sublime.
E ogni cosa si accosta al suo contrario, in se stessa, non soltanto di fuori, non soltanto nella vicinanza delle classi più estreme, delle condizioni umane più evidentemente caratterizzate, della maggiore ricchezza e della maggiore povertà, dei palazzi più antichi e splendidi e dei tuguri più sordidi, dove non pare possibile la vita degli uomini, ma nelle singole cose, oggetti e persone, che quanto più brillano tanto più sembrano chiudersi in opaco rifiuto, tanto più sono viventi quanto più ostentano i segni della morte.


Barche di pescatori nel vecchio porto della Cala.
Fotografia di Josip Ciganovic, opera citata

La morte sta nella nobiltà, nella vita, nelle scale cadenti dei palazzi sontuosi, nelle lapidi delle chiese dove si erano battuti i primi partigiani della libertà, nell'antico cimitero dei Cappuccini, con le sue file agghiaccianti di scheletri così simili nei gesti e nei volti ai viventi, nelle abitudini popolari e familiari dei pasti tombali nel giorno dei morti.
Sotto questa presenza spagnola e controriformistica della morte, sotto la protezione pagana della Santa, a cui si accendono a migliaia i lumi dei poveri, e per cui si alzano al cielo i fuochi, effimere meraviglie, la vita si manifesta in ogni suo momento, nel bene come nel male, con una energia sempre estrema, che va al di là del suo oggetto, che è motivo di se stessa, spettacolo e fine, inesauribile fluire di dolcezza e violenza e follia e saggezza e vitalità.
Così tutti i problemi dell'uomo e della società pare che qui prendano un singolare rilievo, dove i tempi più remoti drammaticamente coesistono.
Accanto ai modi più moderni e avanzati di vita civile e di cultura permangono costumi e sentimenti arcaici e istituzioni feudali.
Dove per tanti secolo lo Stato fu straniero, e inesistente o ostile, accanto al coraggio dei popolani di luglio, accanto agli istituti recentissimi dell'autonomia, del governo e del parlamento regionale, che trovano qui il loro centro vivo di passione politica e di capacità amministrativa autonoma, permane e si rafforza, adattandosi ai tempi, l'antica piaga della mafia, figlia degli anacronismi economici e sociali.
E se taluno dei luoghi della destituzione ( come il Cortile Cascino, famoso per i digiuni di Danilo Dolci, e il Pozzo della Morte ) sono stati, in parte, distrutti o risanati, permane l'altra antica piaga della miseria, accampata nei vicoli e nei cortili, sotto le sterminate bandiere di stracci appesi.


Raccolta di acqua da una fontana
in un quartiere cittadino del centro storico.
Fotografia di Josip Ciganovic, opera citata

In questo contrasto continuo, ogni luogo della città è un luogo vero di storia e di presenze. Ogni strada porta oggi il segno dei passi antichi, delle storie trascorse, delle rivolte popolari, dei tentativi secolari di individuazione e di libertà.
Chiese, musei, palazzi, monumenti, arricchiscono ad ogni momento, negli stessi luoghi, sulle stesse pietre, una storia illustre, nobile e popolare, mai interrotta nella sua spinta vitale in tutti i secoli, sotto tutte le dominazioni: testimonianze del passato molteplice.
La Martorana, lo Steri, sono di oggi, come di oggi è la Vucciria, rutilante di luci, di colori e di voci, e il profumo dei gelsomini che avvolge di dolcezza le lunghe sere.
Dal balcone del mio albergo vedo, di là della fila dei caffè domenicali, affollati di gente seduta a conversare davanti ai gelati di gelsomino, e del viale dove corrono le automobili, davanti al palazzo Trabia, sullo spiazzo vago del mare, di dove partono i fuochi la sera di Santa Rosalia, nell'ombra che scende, le tende di un accampamento di zingari.
Una zingara giovinetta balla da sola, davanti alla tenda, nell'oscurità calda della notte.
Lontano, sul mare liscio, brillano i lumi delle navi, e altri lumi brillano sul lungo arco della costa, verso il profilo diruto di monte Pellegrino da un lato, e la serie quasi ininterrotta di paesi dall'altra, fino a Bagheria e alle rocce dell'Aspra.
E altre stelle brillano in cielo; e il velluto della notte è simile a quello degli occhi degli uomini che incontri fuggevoli per via, alla struggente, oscura dolcezza dei cuori, all'incanto arcano della bellezza, al mistero dei destini, alla drammatica, tenera meraviglia di Palermo" 





mercoledì 10 giugno 2015

VIAGGIO ISOLANO TRA GLI ANIMOSI VINI SICILIANI

Vecchie impressioni enologiche in un reportage del giornalista e scrittore Flavio Colutta, autore nel 1972 per Longanesi del saggio "Guida alle bottiglie d'Italia"


Bottiglie di vino siciliano dei nostri giorni.
La fotografia è di ReportageSicilia.
L'autore ringrazia per la collaborazione al post
 l'Enoteca "Il Grappolo" di via R.Malatesta 64, a Roma

Secondo il giornalista e scrittore Stefano Malatesta, fra i "residui arcaici" che la Sicilia ha cancellato negli anni Novanta vi è stato quello del vino di cattiva qualità; argomento che, in passato, ha orientato negativamente gran parte dei giudizi di enologi e bevitori dinanzi alle bottiglie di produzione isolana.
La questione è stata così illustrata da Malatesta nel saggio "La pescatrice del Platani e altri imprevisti siciliani" ( Neri Pozza, 2011 ):

"Inutilmente ad alta gradazione alcolica troppo pesante, troppo denso, troppo liquoroso, troppo profumato, eccessivo in tutto e inadatto ad un palato moderno, ( il vino siciliano, ndr ) aveva tutte le caratteristiche del fossile vivente...
Nel lontano passato erano state queste sue caratteristiche di ruvidezza e di grossolanità ad averlo reso famoso, impedendogli di trasformarsi subito in aceto, come faceva la maggior parte dei vini antichi...
Il vino aveva il potere di annullare quasi tutto l'aspetto gastrointestinale dei pasti, di far dimenticare la necessità biologica di rifornire continuamente la macchina umana.
E i cibi, sospinti da quella irrequietezza degli umani che tendono a trasformare tutto in mito, si alzavano dalla tavola e s'involavano come mongolfiere.


Sopra e sotto, i vini di Sicilia
secondo il saggio di Colutta,
pubblicato 43 anni fa 

Ma in Sicilia, un'isola particolarmente adatta per impiantare vigne, si continuava a produrre il vino di sempre, che veniva esportato a prezzi ridicoli come vino da taglio e sbarcato a Sete, un porto della Francia meridionale, insieme ai vini pugliesi e maghrebini.
Da qui, prendeva la strada delle cantine dei grandi Bordeaux, dove finiva per diventare una componente essenziale dei grandi crus, straordinari per gusto, retrogusto e tutto il resto...
I primi segni di un cambiamento cominciarono ad essere avvertiti dodici o quindici anni fa, non sarei troppo sicuro sulle date.
stavo andando da Palermo a Sciacca, lungo la strada di fondovalle che per costruirla ci sono voluti trent'anni, grossomodo lo stesso tempo impiegato dagli antichi egiziani per tirare su la Piramide di Cheope e con minore spesa.



Arrivati al bivio di Sambuca, mi ero accorto che l'abituale giallo, il colore che nell'isola faceva da fondale al paesaggio, era scomparso lasciando posto al verde...
I campi ben tenuti, l'orto dietro la casa, il piccolo vigneto al fianco, stavano a dimostrare che anche in Sicilia esisteva una cultura contadina di grado elevato, che tentava di non aspettare solo provvidenze, ma di vivere con i prodotti della terra, anche a rischio di grandi sacrifici..."



Del carattere forte del vino siciliano, della sua storia e delle sue varietà di quarant'anni fa scrisse diffusamente il giornalista Flavio Colutta, autore di un libro intitolato "Guida alle bottiglie d'Italia" ( Longanesi, 1972 ). 
Il saggio di Colutta - in precedenza autore di numerosi reportage nell'isola pubblicati dalla rivista "le Vie d'Italia" del TCI - è oggi un'interessante documento su caratteristiche e qualità dei vini siciliani del tempo.
Alcuni non vengono più prodotti ( forse senza troppi rimpianti ); altri, invece, hanno beneficiato di quei miglioramenti qualitativi che li pongono oggi alle attenzioni dei cultori del buon bere.
Le pagine di Colutta - insieme alle notizie mitologiche sulla diffusione dei vitigni locali ( "una leggenda ellenica parla di un Bacco adolescente, in cammino attraverso la terra sicula. A un certo punto il dio giovinetto si ferma, accasciato sotto il sole, in un luogo che ha nome Naxos, non lontano da Taormina. Per ristorarlo, miracolosamente spunta la prima vite, dai grappoli si strugge l'esilarante bevanda; quella bevanda che, nella grande estate della civiltà ellenica, avrebbe stupito i colonizzatori di oltre Ionio. Così, il primo documento sulla coltura della vite in Sicilia - un bel grappolo d'uva - appare nelle monete di Nasso, la più antica colonia greca nell'isola..." )- si fanno leggere con gusto anche perché contengono notazioni e considerazioni su persone, luoghi e umori siciliani negli anni Settanta: nel post, ReportageSicilia ripropone stralci di quel viaggio enologico e alcune fotografie di bottiglie allora segnalate dal giornalista.


Sopra e nelle fotografia che seguono,
sette etichette di vini prodotti nell'isola
pubblicate nella guida di Colutta


"Seguendo la costa verso il Faro - scrisse Colutta dando inizio al suo viaggio da Messina - davanti al mare blu dello Stretto sempre decorato di spume bianche agitate dalle furie del vento, traverserete le contrade collinose a cui è legato il faro rosso: un vino color rubino, asciutto, profumato, dal gusto sapido, generoso, degnissimo con gli arrosti e la cacciagione.
La principale ragione del nostro sostare a Milazzo, sulla strada di Palermo, per un giorno, fu un vino del posto, il milazzo bianco.
Avevamo nel corpo la gravezza del pescespada a ghiotta, in salsa di cipolla e pomodoro con contorno di patate, olive, capperi, sedano.
Nella bella sera siciliana il pesce fu sopraffatto da quel vino portentoso.
Seduti sotto le prime stelle, contemplavamo le Eolie, alte, velate dalle nubi della sera.
L'indomani eravamo là, sulle isole del vento e del fuoco, per guastare quella loro dolcissima malvasia...



Gli isolani seguitano a produrla con buona tecnica. Ci dissero che le uve sono essiccate parte sulla pianta parte sui graticci che la notte vengono ricoverati sotto delle tettoie.
Il mosto quindi viene fatto fermentare entro piccole botti, chiamate pipe, dove poi si conserva. L'imbottigliamento avviene dopo un anno".
Ricordato anche il mamertino di Castroreale Bagni ( "a Giulio Cesare, che lo ricorda nelle Epistole, piaceva berlo specialmente nei banchetti ufficiali. Se hai la fortuna di mettere le mani su una bottiglia, nulla di meglio per disporre le ore della notte, dopo una lauta cena" ), Flavio Colutta si sposta in provincia di Catania, oggi prolifica di preziosi vitigni.
Qui - nell'apoteosi etilica di una fornita cantina - le bottiglie si incrociarono con i palazzi barocchi e con i paladini di un puparo:

"I vini sono fatti con le uve della zona media dell'Etna, da Biancavilla a Paternò, a Nicolosi, ad Acireale, a Giarre, fino a Linguaglossa, a Castiglione, a Randazzo.
La prima bottiglia con la quale ci incontrammo fu di un etna bianco.
E' una bevanda di molte virtù, di un bellissimo color giallo paglierino, di delicato profumo, sapore secco, campione da pasto e da pesce.
Nella stessa zona si producono anche altri bianchi: il ciclopi, il ragalma, lo sparviero, il villagrande.
Essi ci rimango associati nel ricordo a una serata passata in casa di un amico, Turi Pistarà di Acireale, città di vita nobile nota per il bel barocco siciliano: un signore che aveva radunato in casa sua in nostro onore un coro di gente per farci ascoltare le storie di re e di guerrieri del più celebre burattinaio siciliano, Oreste Macrì.



E il nostro amico con una premura unica andava e veniva, portando sempre nuove bottiglie a noi e al burattinaio, magnificando quella sua terra, quei suoi vini che riandavano l'opulenza luminosa della vendemmia su per le pendici dell'Etna.
Ma poi si fini tutti quanti in cantina, e la moglie del nostro ospite era scesa tra noi, a offrire olive e etna rosso ( c'è anche un tipo rosato ), secco e gustoso, un vino da arrosti che può competere con i migliori succhi europei"

Visitando il siracusano, Colutta non manca di notare "il raptus industriale piombato sulla provincia", conseguenza del pesante innesto territoriale dell'industria chimica e petrolchimica ad Augusta.
In altre zone, invece, rimane l'aspetto di una "Sicilia sassosa, una pianura ondulata e avara che ricorda la Terrasanta", e dove i vigneti continuano a ricoprire la valle del fiume Anapo.
Qui, si produce un vino da pasto bianco, "destinato ad antipasti, piatti freddi, frutti di mare, ostriche, e che provoca uno straordinario sviluppo del buonumore".



Siracusa è invece la patria del moscato albanello e naccarella, "erede diretto del pollio dei greci antichi, un signor vino dal color dell'oro antico, forte, delizioso, profumatissimo, di sapore dolce, gradevole, in cui vanno annegati con delizia, dolci, gelati e frutta, non certo i formaggi".
Colutta spiega così il metodo di produzione:
"Qui si aspetta, per la vendemmia, che gli acini quasi diventino vizzi, pieni non più di un liquido, ma di una pasta zuccherina.
Quindi il mosto viene messo a fermentare dentro piccoli fusti, che ricordano le antichissime anfore greche".
A Pachino, la scelta va dall'eloro, "generoso, ricco, caldo, di un esemplare rosso rubino, vino regale" ed il pachino, "rosso pure lui, vino non da bottiglia o da boccale, ma da taglio, una specie di barletta forte e ruggente, asciutto, lievemente profumato, sui 17 gradi, signori miei, una bevanda per uomini veri".
Noto è il luogo dove barocco e pasticceria offrono esempi di gusto nobiliare; il moscato locale non è da meno, visto che Colutta lo definisce "vino meraviglioso, che riscalda la schiena, dal colore di un bel giallo oro, con riflessi madreperlacei. Profuma di mandorlo in fiore e di zagara d'arancio. Il gusto è sapido e vellutato. Lentamente bevendolo, confessammo che aveva un che di festivo e di sacro, di giardini e di mare. Fu allora che uno dei presenti, cortese amico, mescendone dell'altro, ci disse che lo fanno diversamente dal moscato di Marsala. L'uva viene raccolta subito, ancora fragrante e veemente di gioventù. Poi si passa alla fermentazione. A un dato momento, la arrestano, secondo un'antica legge, con l'aggiunta di alcool di vino. Il processo di maturazione continua in botte per alcuni mesi. Ma è bene che il vino venga imbottigliato entro l'anno. E l'amico, bevendo, si illuminò"

Terra deserta e cielo, e provincia della città greco-romana di Camarina, dove le monete di bronzo venivano coniate con l'incisione di grappoli d'uva, segno della millenaria presenza di vigne sugli Iblei: Ragusa ha nell'ambrato di Comiso "dal colore ambrato con preziosi riflessi d'oro e miele, corposo, di grado cospicuo, 14 e anche più, una nobile ambrosia che usa come avanguardia degli antipasti".



La vigne del cerasuolo dominano però la produzione del ragusano, "un succo rosato carico, tendente a un rosso tenue, una tinta da far inebriare l'occhio di chi di vini se ne intende. il bello è che subito che si sia fermentato, questo cerasuolo ha la proprietà di acquistare un delizioso profumo di frutta. E non è finita con le sorprese. Bastano pochi mesi di botte, perchè riveli quel certo bouquet che è una caratteristica dei rossi vecchi d'anni.
Con gli arrosti - conclude Colutta - è una scelta felice, lo giuro"

Ad Enna, un cameriere stappò una bottiglia di val di lupo, unico vino all'epoca prodotto in quella provincia che già da allora, secondo Colutta, "è stata chiamata la capitale dell'Italia depressa".
"Le vigne crescono sulle colline a nord di Enna, tra Leonforte e Calascibetta. Il vino che questi grappoli sprizzano, parliamo del nero, è un succo da pasto dall'aroma vinoso, e dal bouquet tenue e caratteristico. Bellissimo anche il rosato, che si distingue per il colore ambrato, il profumo floreale, per ripetere un'espressione del nostro cameriere di Enna, il sapore fresco, delicato, gradevole.
Perfetto è il bianco, un vino color giallo paglierino che sa di frutta"


"Dal punto di vista economico - continua il racconto di Colutta - gli agrigentini debbono combattere contro un terreno duro, argilloso, su cui allignano colture che non possono essere considerate colture industriali, l'ulivo, il mandorlo, il ficodindia".
La provincia offre, fra MenfiSciacca, un vino, "il melfi, di colore fra l'ambra e l'arancione, asciutto, sapido, di 13 o 15 gradi, facile a invecchiare".


Sopra e nelle due immagini che seguono,
altre bottiglie siciliane dei nostri giorni.
Fotografie di ReportageSicilia

Sotto Ribera, fino a Siculiana, Realmonte e Agrigento si produce l'akragas, "un vino da pasto di color giallo paglierino, asciutto di sapore, sapido".
"A Canicattì - in una delle ultime notti trascorse da Colutta nell'isola - "ci dette un grato piacere un belice bianco che, sebbene fossero passati alcuni anni da quando era stato imbottigliato, aveva serbato un colore di pergamena e un sapore di marsala. Questo succo ci fece passare una deliziosa mezz'ora. Il vino ci fluiva nelle vene un dolce sonno, quel sonno che spesso tarda a venire, e che il belice, con le sue proprietà, affrettava"


Nel reportage di Flavio Colutta, quelle dedicate alle produzioni vinicole nel palermitano sono forse quelle più ricche di impressioni personali sulla Sicilia e sui siciliani.
"La natura, è tutta un'altalena fra paesaggi sublimi, sassaie deserte e monti solitari: vale la pena di viverci, piena di fascino com'è. ecco che cosa suggerisce questa terra. Non ci annoia mai, se si fa la vita dei siciliani".
La prima tappa in provincia è a Casteldaccia, "nota per gli splendidi vigneti, dai quali nasce un vino forte, il corvo, bianco e nero. Sono vini di pulitissimo colore, secchi, asciutti, aromatici, dalla temeraria potenza" .
Fra Montelepre, Partinico ed Alcamo, Colutta si imbatte nel "partinico bianco, sui 16 gradi, dal colore dell'oro, vino da taglio; ma i tipi meno alcolici vengono venduti come vini da pasto: e hanno, vivaddio, più odore di terra che di vino".
Infine, dopo una puntata a Carini - "si può far finta di dimenticarsi dei cibi, e dei dolci di zucchero e mandorle, per lo straordinario profumo genuino dello zucco, glorioso di aromi, colore dell'oro colato, superiore, per quello che noi preferiamo, a tutti i vini aromatici d'Europa" - il giornalista si spinge ai confini della provincia di Palermo, verso Caltanissetta.



"Andammo dunque a Sclafani Bagni, che è un paese costruito su una vetta inaccessibile, vigiliato da due torri, e ci volle poco a farsi portare innanzi un paio di bottiglie di quel regaleali, deliziosamente delicato e asciutto, che nasce lì accanto, nelle tenute dei conti Tasca d'Almerita: il regaleali bianco, che ricorda i migliori chablis, e un rosso color rubino che non esitiamo a collocare tra i migliori vini da pasto del Sud d'Italia"

"Forti e animosi", così Colutta definisce i vini della provincia di Trapani, all'epoca coltivata a vigneto per un totale di circa 100.000 ettari, in grado di produrre 80.000 quintali di uva per vini da pasto e da taglio.
Il bianco d'Alcamo è diffuso sino a Castellammare del Golfo, Calatafimi, Gibellina e altro comuni del palermitano.
"Gli intenditori - sottolinea il giornalista - sostengono che una curiosità di questo vino è che di ammarsala invecchiando e che ubriaca a tradimento".
Il capo boeo bianco invece si produce fra Trapani, Marsala, Mazara del Vallo e Castelvetrano, possiede "un leggero colore giallo paglierino" ed un prepotente profumo marsaleggiante.
Proprio il marsala ( "o la marsala, se dobbiamo porgere l'orecchio ai puristi" ) merita le attenzioni di una lunga visita ai principali stabilimenti di produzione, che nel 1972 cercava di risollevarsi da un lungo periodo di crisi commerciale.



Colutta illustra così la sua genesi, precisando che ne esistono diversi tipi ( "vergine, secco ed extrasecco, di un bell'oro antico, gusto generoso, caldo e morbido; quello superiore, che si chiama SOM ( Superior Old Marsala ), ed è abboccato o dolce ma che con l'aggiunta di mosto cotto acquista un grazioso amaro di caramello; il marsala fine, color rosso carico, amarognolo" ):
"Il marsala è prodotto pigiando insieme uve diverse, con predominanza di quella chiamata grillo, bianca e dolce, che allevano su terreni caldi, aridi, esposti ai venti di scirocco che spirano dai vicini deserti sahariani, ma che devono la loro fortuna alla mitezza del clima temperato del mare. E' un vino conciato; ossia, per portarlo a punto, vi aggiungono mosto cotto e mosto fresco di uva passa addizionati ad alcool o acquavite di vino".
Acceso dalle ricche degustazioni di marsala, Colutta esplora altri vigneti e gusta altre bottiglie della provincia:
"Due magnifici vini da pasto, il grecanico e il damaschino, figli entrambi delle pianure, delle sciare rosse della Sicilia meridionale, africana, tufacea e calcarea.
Il grecanico è un bianco che scende giù per lo stomaco con grato tormento, ti si mostra di un bel bianco paglierino brillante dai riflessi verdolini, e i nostri dotti amici lo consigliano con il pesce. Il damaschino, il beldi del Nord Africa, sapete, è bianco anch'esso, delizioso, profumato"

L'ultima tappa del tour enologico di Flavio Colutta lo porta a Pantelleria, l'isola del moscato e dove le viti "sono domate per sottrarle alla furia dei venti, e quando è tempo di vendemmia si vedono le zocche di uva stese nei campicelli al sole; c'è da sognare ad occhi aperti".
L'entusiasmo di Colutta per l'isola, con le sue "piccole case colorate" e le "centinaia e centinaia di poderi", è incondizionato.
"E adesso immaginate la nostra emozione quando, sedendo alla tavola ospitale di un amico, a due passi dal porto, all'aria aperta, alla luce di poche candele, dopo una cena coi fiocchi, venne in tavola l'uva zibibbo, aromatica, calda, dai grandi acini ovali verde biondo e splendidi grappoli. E fra i dolci, i molti dolci e i pasticci, così buoni, comparve finalmente il moscato di Pantelleria, la gloria maggiore di quest'isola lontana.
Questo nettare è notoriamente un passito; dicono che mescolano una parte di uva fresca e una parte di uva secca; poi al mosto aggiungono l'alcool: ed ecco il moscato; che è d'oro, oro brillante, oro di spighe, oro di sole vicino al tramonto.
Ma oltre al colore, il profumo, che sa di fiori, è la cosa più piacevole di questa bevanda, amici, che tiene a galla il corpo e l'anima..."