Il latifondo siciliano. La fotografia è tratta dall'opera di Ferdinando Milone "Sicilia. La natura e l'uomo", edita nel 1960 a Firenze da Bollati-Boringhieri |
Esistono giornalisti capaci di esprimere un sicuro talento letterario, oltre le imprecisioni, i vizi di forma ed i limiti di documentazione che accompagnano il mestiere quotidiano di molti cronisti. Uno di questi giornalisti di talento del Novecento italiano è stato il brianzolo Luigi Gianoli, che nel secondo dopo guerra fu un'apprezzata firma della "Gazzetta dello Sport": "l'unico là dentro - ha scritto nel 2024 Franco Bonera in "Pezzi di colore", Ultra Editore, Roma - a potersi fregiare a buon diritto del titolo di scrittore".
Ai colleghi più giovani, spiegava che "divertirsi mentre si scrive è il vero segreto per scrivere bene". Fu proprio l'applicazione di questo insegnamento che negli anni Ottanta gli valse il riconoscimento di un "Premio Sain Vincent" e di "Una penna per lo sport".
Gianoli - che fra i suoi estimatori ebbe Gianni Brera, Dino Buzzati, Mario Soldati e Gianni Mura - scrisse soprattutto di cavalli e di ippica: una vocazione giornalistica e saggistica legata alla qualifica di ufficiale del Reggimento di Cavalleria Savoia rivestita durante la campagna di Russia. Per la "Gazzetta dello Sport" pubblicò a suo nome anche articoli dedicati alla Targa Florio. Fu probabilmente in quelle occasioni che Gianoli ebbe modo di scoprire la Sicilia: Messina, Ganzirri, Aci Trezza, l'Etna, Agrigento, Cefalù e Palermo, così come è testimoniato da un reportage pubblicato nel settembre del 1965 dalla rivista "Sicilia", edita dall'assessorato regionale al Turismo.
In quelle pagine, il giornalista monzese così descrisse l'Isola delle province più interne, riarsa dal sole e con un paesaggio che gli richiamò l'aspetto dei deserti:
"E il paesaggio dell'interno? Onde d'un mare rappreso, quasi del colore della sabbia, senza un albero, sovente senza una casa, dove s'ergono improvvisi picchi montani, come immense conchiglie abbandonate dal diluvio. E si continua a camminare, ad andare, forse perché presentiamo che, una volta fermi in un luogo, non avremmo più la forza di ripartire..."