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domenica 29 dicembre 2019

LE PERDUTE CROMIE DI SICILIA

Edilizia a Palermo.
Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia

"La Sicilia - ha scritto lo scrittore, drammaturgo ed ex direttore regionale dei Beni Culturali Aurelio Pes, nell'articolo "Filosofia del colore" ( in "Sicilia dei colori", edito da Biblioteca centrale della Regione siciliana, Palermo, 2002 ) - vantava in passato una sua particolare tavolozza, ricavata da secoli di scambievoli influssi fra Oriente e Occidente, fra toni caldi e freddi.
Un archivio cromatico vastissimo che procedeva dalle più antiche tradizioni, non penetrate però nella nostra esperienza moderna, la quale, anzi, costituisce la resa più ampia allo strapotere dell'industria e al suo linguaggio meramente produttivistico.
Una valanga di nuove cromie ha così sepolto una sapienza fatta di attente combinazioni e vagli fini, azzerando un costrutto che ha resistito sino ai primi decenni del Novecento.
Da quel periodo infatti cemento e colori sintetici, con figure e modalità elaborate altrove, hanno spazzato l'arcaica civiltà ancor prima della Seconda Guerra mondiale, al cui termine ecco affiorare ignobili periferie, disprezzo per la natura, consumi vistosi e demolizione dei centri urbani.
Il tutto adulterato dal degrado delle coste, dal proliferare di una edilizia priva di campiture, dall'introduzione incolta d'essenze arboree..."

venerdì 27 dicembre 2019

LE MURA DI GELA DISSEPOLTE DALLE DUNE DI SABBIA

Un tratto delle mura di Gela
riemerse dalle dune di sabbia fino al 1952.
Le fotografie sono tratte da "Guida di Gela",
opera citata

Costruite con blocchi di calcare perfettamente squadrati nella parte  inferiori e mattoni quadrati di argilla cruda seccata al sole nella parte superiore, le mura greche di Gela costituiscono una delle più importanti testimonianze di architettura militare antica del Mediterraneo.
La storia della loro scoperta è stata riassunta nel 1958 in "Guida di Gela" ( Pleion, Milano ) dai due archeologi che qui vi hanno  condotto fondamentali campagne di scavo: il parmense Piero Orlandini e il romeno Dinu Adamesteanu, che nello stesso anno di pubblicazione della guida inaugurarono a Gela il nuovo Museo Archeologico.

"Fino al 1948 - si legge nella loro "Guida di Gela" - la zona di Capo Soprano era ricoperta, nella sua estremità occidentale, da una serie di dune mobili, alcune delle quali alte 12 metri.
Sotto queste dune giaceva sepolto uno dei monumenti più importanti che l'antichità ci abbia lasciato, vale a dire un lungo tratto delle mura greche di Gela, riemerse dopo 2300 anni in splendido stato di conservazione.



E' interessante notare che nel 1941, prima dello sbarco alleato in Sicilia, sulle dune che ricoprivano le antiche mura venne costruita una serie di fortini in cemento armato: la linea di questi fortini ripeteva esattamente la linea della fortificazione greca. Quest'ultima venne scoperta casualmente cinque anni dopo, nel 1948.
Dopo una serie di saggi condotti fino al 1952, le mura furono completamente scavate fra il 1953 ed il 1954 con fondi straordinari concessi dalla Cassa per il Mezzogiorno.
A tale scopo fu necessario un colossale lavoro di sbancamento calcolato in 200.000 metri cubi di sabbia..."



giovedì 26 dicembre 2019

PANAREA PITTORESCA IN UNA GUIDA DEL 1966

Scena di vita quotidiana a Panarea.
Le fotografie riproposte da ReportageSicilia
sono tratte da "Le isole Eolie", opera citata

Le fotografie di Panarea riproposte da ReportageSicilia illustrarono nel 1966 la guida "Le isole Eolie", curata da Carmelo Cavallaro e Vittorio Famularo per conto dell'Ente Provinciale per il Turismo di Messina.
Il piccolo volume rientra in quel vasto numero di pubblicazioni promozionali che gli enti al turismo della Sicilia stamparono soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, con un corredo fotografico che testimonia oggi le trasformazioni - e, spesso, lo stravolgimento - del paesaggio dell'Isola.


In questa guida, Panarea appare ancora lontana da quella "continentalizzazione" di uomini e costumi che la rende da qualche decennio più lontana per costumi e cultura dallo spirito primordiale delle Eolie ( una trasposizione cinematografica di questo clima è visibile in un inconsistente film del 1997, intitolato semplicemente "Panarea" ).


Nella guida scritta 31 anni prima da Cavallaro e Famularo si legge:

"Panarea è un'isola molto scenografica, una delle più incantevoli dell'arcipelago.
Il paese è sparso pittorescamente sulle falde orientali con le sue candide casette attorniate da oliveti e da rupi ciclopiche.
Le abitazioni sono raggruppate in tre contrade che assumono rispettivamente i nomi di Ditella, S.Pietro e Drautto.
Eseguendo una gita in barca attorno a Panarea, sfilano, dinanzi allo sguardo meravigliato, panorami sui generis: colossali blocchi arrotondati o tagliati a prismi, isolati nel mare, scogliere coronate da alti pinnacoli e incantevoli insenature come la famosa cala Junco..." 

mercoledì 25 dicembre 2019

L'ALBERO "CRUCI CRUCI" DEL NATALE SULLE MADONIE

Uno dei trenta "abies nebrodensis"
presenti nel territorio
fra Polizzi Generosa e Piano Battaglia.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

I botanici lo definiscono "l'albero di Natale forse più antico al mondo", perché la sua origine risale a circa 10.000 anni fa.
L'"abies nebrodensis" è un singolare e raro endemismo presente in una valle remota delle Madonie - il vallone Madonna degli Angeli, a Nord del monte Scalone, fra Polizzi Generosa e Piano Battaglia - ad un'altezza compresa fra i 1400 ed i 1600 metri.
Fra questi boschi, da qualche anno raggiungibili grazie ai fuoristrada dell'Ente Parco delle Madonie, nel 1957 un gruppo di botanici scoprì 30 esemplari di abete.
Fino ad allora, questa pianta era stata ritenuta quasi del tutto estinta, a causa del sistematico taglio dei suoi fusti.
Il legno dell'"abies nebrodensis" - leggero e facilmente modellabile - venne infatti utilizzato sin da tempi remoti per costruire tetti e capriate di case e chiese; pare che nel secolo XII sia stato scelto dai carpentieri fatimiti a Palermo per allestire il virtuosistico soffitto ligneo della Cappella Palatina.



Questo singolare albero - una delle tante risorse naturali nascoste fra le montagne madonite - lega la sua storia anche ad una vecchia credenza popolare.
Definito "arvulu cruci cruci" per la forma a croce dei suoi rametti, veniva esposto sui portoni delle abitazioni per tenere lontano il maligno ed il malocchio.
Da qualche mese, questo antichissimo testimone della ricchezza botanica della Sicilia è al centro di un progetti ed iniziative che intendono salvaguardarne la sopravvivenza e la conoscenza.
Uno studio del CNR, delle Università di Palermo e di Siviglia, della Regione Sicilia e dell'Ente Parco delle Madonie ha avviato un piano di impollinazione manuale e la creazione di una criobanca dei semi.
A Polizzi Generosa, dallo scorso luglio un'ala dell'ex complesso dei Gesuiti - oggi adibito a Comune - ospita un Museo dell'"Abies nebrodensis", particolarmente adatto alla didattica ambientale per bambini e ragazzi.




lunedì 23 dicembre 2019

LA FUGA DI BACH SULLA SPIAGGIA DI GLIACA DI PIRAINO

Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Poco prima del tramonto, il vento leggero rimanda lungo la spiaggia semideserta di Gliaca di Piraino la risacca sonora di una fuga di Bach.
Seduti sulle sdraio affossate sulla sabbia granulosa, marito e moglie si godono la quiete del momento.
L'uomo - un medico genovese concentrato sulle corde della sua chitarra classica - regala così a sé ed a quest'angolo di costa messinese attimi di impagabile suggestione.

domenica 22 dicembre 2019

UNA PAGINA DI GUTTUSO SULL'ARTE PRIMITIVA DELLO SCEMPIO EDILIZIO A BAGHERIA

Renato Guttuso,
"Paesaggio di Bagheria", 1951

Già alla fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo, il territorio agricolo di Bagheria cominciò ad essere assediato da quella confusa espansione edilizia che nel 1965 fu oggetto di una commissione d'inchiesta del partito comunista guidata da Giuseppe Speciale.

"Dopo avere indagato con scrupolo per mesi - scriverà Dacia Maraini in "Bagheria" ( Rizzoli, 1993 ) - compila una serie di relazioni davvero angosciate e allarmanti in cui si denunciano, con nomi e cognomi, coloro che hanno contribuito allo sfacelo del primo e del secondo polmone verde di Bagheria per favorire quelli che a Roma si chiamano 'palazzinari', con la complicità a volte sfacciata, a volte sorniona e nascosta degli uomini del governo locale: sindaci, consiglieri comunali, assessori, tecnici eccetera".

Quattro anni prima dell'inizio delle attività di quella commissione, Renato Guttuso avrebbe fatto cenno allo scempio ambientale ed architettonico di Bagheria, paragonando l'aspetto della cittadina ad un'opera di Jean Dubuffet, il pittore e scultore francese fondatore dell'arte grezza o primitiva.


   

"La terrazza della mia casa di Bagheria - scrisse Guttuso in  "Uno sguardo da Gibilrossa", in "Sicilia" edito nel 1961 da Sansoni e Istituto Geografico De Agostini per la collana "Tuttitalia" - guardava, a ponente, su un mare di agrumi e oliveti.
Era uno scenario chiuso dai monti, da quei monti che si tuffano nel mare dove si erge la mole calcarea del Pellegrino.
Qui ogni sera potevo assistere a uno spettacolo di colori: il cielo si faceva porpora, ceruleo, vermiglio, arancione o giallo tenue.
Fu questa la mia vera scuola.
Quell'immenso fondale cangiante poté insegnarmi molte cose sulla pittura, sul rapporto tra ciò che si è e ciò che si vede.
Era continuarmi nel cielo: sentivo crescere e disfarsi dentro di me quei colori e quelle forme.
Bagheria era allora un grosso paese a forma di chitarra; ma oggi quell'antica pianta appare deformata dall'espansione edilizia, i suoi contorni sono tremolanti e resegati, un pò sgangherati e mostruosi, come quelli di una chitarra di Dubuffet"




domenica 8 dicembre 2019

L'ESTENUANTE RICCHEZZA DELLA SCRITTURA DI STEFANO D'ARRIGO

Mare e pescatori di pescespada
sullo Stretto di Messina.
Le fotografie sono di Alfredo Camisa
e vennero pubblicate in
"Lo Stretto di Messina e le Eolie" ( LEA, 1961 )
Pinnacoli lessicali ed ardite costruzioni linguistiche intessute in una sterminata serie di personaggi, visioni e figure simboliche.
La scrittura di "Horcynus Orca" di Stefano D'Arrigo - 49 episodi racchiusi in 1257 pagine - costò all'autore oltre un decennio di febbrili ripensamenti e correzioni, alla ricerca del perfetto cesello di una lingua "unica nella inesauribile proliferazione delle sue invenzioni e, al tempo stesso, totalmente realizzata nelle sue potenzialità di comunicazione e di espressione" ( così si legge  in un pieghevole allegato alla I edizione del romanzo, pubblicata da Arnoldo Mondadori nel gennaio del 1975 ). 
La sua eccezionale genesi creativa rende la lettura di "Horcynus Orca" un impegno faticoso e necessariamente diluito nel tempo.
Chi non abbia la tempra necessaria per sottoporsi all'impresa, può ripiegare sulla lettura dei singoli capitoli, gustando a piccole dosi il linguaggio ricco di contaminazioni e neologismi.
Il lettore avrà così modo di diluire il vertiginoso scorrere di invenzioni stilistiche e i sorprendenti recuperi filologici presenti nell'opera.



Sin dalle prime pagine del romanzo, D'Arrigo dimostra la sua scrittura di smagliante densità: 

"Qualcosa, in Sicilia, che per la grande coloritura violacea riflessa dall'acqua, sembrava una grande troffa di buganvillea pendente sulla linea dei due mari, brillò per un attimo dal mezzo della nuvolaglia, poi il brillio cessò e lo seguì un risplendere breve breve e bianco di pietra, e allora, nel momento in cui spariva la fumèa, riconobbe lo sperone corallino che dalla loro marina s'appruava, quasi al mezzo, come per spartirli, fra Tirreno e Jonio"

sabato 30 novembre 2019

L'ARTE CASEARIA DEI "MURRITI" A CASTEL DI LUCIO

Statuette di animali
realizzate con formaggio caciocavallo
a Castel di Lucio, nel messinese.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

"Più studiamo il mondo rurale del passato - ha scritto Giuseppe Licitra in "Storie e paesaggi dell'arte casearia, il Ragusano" ( Federico Motta Editore, 1999 ) - più ne restiamo affascinati, proprio perché riscopriamo, oltre che l'infinità di sacrifici affrontati dai contadini, in silenzio, giorno dopo giorno, l'incredibile competenza tecnica che ha permesso di affrontare problematiche anche più grandi di loro, con assoluta serenità, basandosi sull'esperienza fatta di piccoli gesti maturati in decenni, a volte in secoli di tradizioni"




Fra i molti "piccoli gesti" frutto di una conoscenza maturata nel tempo, alcuni anziani pastori di Castel di Lucio - il paese del messinese disteso  sulle ultime propaggini dei Nebrodi, prima che le montagne prendano il nome di Madonie - tramandano quello che permette loro di modellare e dar forma al formaggio caciocavallo: dalle loro mani, nascono statuine di cavallucci, gallinelle, capre ed altri animali che, a livello locale, prendono il nome di "murriti".




La denominazione di questi oggetti - sino a qualche decennio fa ancora diffusi fra i pastori ed i casari dei Nebrodi, delle Madonie e dei monti Sicani - deriva da "murritiare" ( verbo che può essere interpretato nel senso di ingegnarsi con le mani per risolvere un problema, quindi per creare qualcosa con abilità ).
Descritte negli studi etnografici di Giuseppe Pitré e di Antonino Uccello, le statuine di formaggio fecero la loro comparsa ufficiale sulla scena delle tradizioni popolari regionali nel 1892, in occasione della Mostra Etnografica Siciliana allestita durante l'Esposizione Universale di Palermo.





Modellati con rapidissima manualità, i "murriti" castelluccesi venivano in passato regalati ai bambini: erano i loro preziosi giocattoli, in tempi in cui le famiglie dei pastori e dei casari   non potevano permettersi di acquistare doni per i propri figli.
Fra i più abili modellatori di "murriti" - quasi tutti uomini - figurano, tra pochi altri, i fratelli Soccorso e Giuseppe Iudicello.
I pochi giovani di Castel di Lucio, pressati dall'esigenza di trovare un'occupazione, scelgono intanto la via dell'emigrazione; è dunque facile prevedere che tra qualche anno questi singolari prodotti di arte casearia entreranno a far parte del patrimonio di artigianato popolare tramandato solo dalla memoria.


venerdì 22 novembre 2019

JULIAN BARNES E L'ELOGIO DELL'IGNOTO MARINAIO

"Ritratto di ignoto marinaio",
l'opera di Antonello da Messina
conservata al Museo Mandralisca di Cefalù.
La foto del post è di Ernesto Oliva-ReportageSicilia

"Ho trascorso in Sicilia l'ultima vacanza con mia moglie ( Pat Kavanagh, agente letterario, scomparsa nel 2008, ndr ).
Ricordo quella luce di maggio, i fiori di campo, un raduno di appassionati in sella alle loro vespe e quel piccolo museo con il 'Ritratto d'ignoto marinaio' di Antonello da Messina.
Non ho trovato nulla di simile altrove"

Intervistato a Londra da Dario Pappalardo per "Robinson", ( il bel supplemento de "la Repubblica" ) pubblicato lo scorso 19 novembre, lo scrittore e saggista inglese Julian Barnes ha così espresso la sua ammirazione per il Museo Mandralisca di Cefalù
L'indicazione di Barnes - cultore d'arte e abituale frequentatore dei musei nei tanti Paesi da lui visitati - è un tributo ad una di quelle attrattive siciliane che noi siciliani dimostriamo di non sapere proteggere e valorizzare.
Il sorprendente apprezzamento riservato da Barnes al "Ritratto d'ignoto marinaio" di Antonello da Messina - l'opera più nota fra quelle conservate dal museo cefaludese - è infatti emerso pochi giorni dopo la notizia che la Regione ha ridotto i suoi finanziamenti al Mandralisca, sino a sollevare i timori di una sua possibile chiusura.
Certo, il problema della penuria dei fondi da destinare alla gestione dei beni culturali riguarda molti altri musei ed aree archeologiche dell'Isola; tuttavia, proprio l'opinione di Julian Barnes rilancia vecchi dubbi e nuove recriminazioni sulla gestione delle risorse economiche operata in Sicilia negli ultimi decenni.



Sui tanti milioni di euro - e prima ancora, sui miliardi di lire - impegnati cioè in progetti fallimentari e/o clientelari, estranei a quel tessuto di risorse ambientali, culturali e turistiche che ancor oggi compone la trama identitaria siciliana.
In ultima analisi, ci voleva un'intervista realizzata a Londra per ricordarci quanto ancora nell'Isola rimane di memorabile agli occhi dei non siciliani, e per sperare che i siciliani possano smettere di essere i peggiori nemici delle proprie risorse e di sé.    

sabato 16 novembre 2019

FOLCO QUILICI FRA LE "BALZE SOMMERSE" DELL'ISOLA FERDINANDEA

Disegno dell'isola Ferdinandea
eseguito l'undici agosto del 1831
dal professore Carlo Gemellaro

Non-luogo per eccellenza nella geografia vulcanica della Sicilia, l'isola Ferdinandea - sorta dal mare dinanzi Sciacca tra il 10 e l'11 luglio del 1831 e scomparsa agli inizi di dicembre dello stesso anno - è motivo di attrazione per esperti subacquei.
Dopo una traversata fra la costa saccense e Pantelleria, i suoi resti - spesso al centro di forti correnti - si trovano a circa 7 metri dalla superfice dell'acqua. 
Il fascino di ciò che rimane di un isolotto che per qualche settimana suscitò una contesa territoriale fra governo borbonico ed Inghilterra ha colpito anche l'esploratore del mare, scrittore e documentarista Folco Quilici.
La testimonianza di questo interesse è contenuta nelle pregevoli pagine di "Tutt'attorno la Sicilia. Un'avventura di mare", edito da UTET ( 2017 ), pochi mesi prima la scomparsa dell'autore:



"L'immersione alla Ferdinandea la feci, in un giorno d'estate e di relativa calma, dopo aver conosciuto un sub di nome Stefano, offertosi di guidarmi in quel banco semiaffiorante.
Dopo scrupolosa preparazione dell'attrezzatura, aver atteso una previsione meteo favorevole e firmato un congruo assegno per Stefano, con la motobarca necessaria a condurci, lasciammo il porto di Marettimo, al primo chiarore del giorno, ed entrammo in acqua a sole sorto da poco.



Tra ombre dominanti, aiutati dai fasci di luce delle nostre lampade subacquee, penetrammo nelle fessure tra massi granitici, rifugi di una fauna stanziale presente in quantità e varietà.
Nessun sistema di pesca poteva turbare più di tanto chi viveva in un simile intreccio di asperità e caverne: aragoste apparivano tra le rocce; murene, cernie, corvine non temevano intrusioni, lasciandosi fotografare a un palmo di distanza.
Un cefalo argenteo, gigante per la sua specie, accettò il boccone che offrivo, proveniente dalla cucina del ristorante di Marettimo dove avevo cenato la sera prima.
Il gestore, incartando il cibo di scarto, aveva borbottato:

'L'isola Ferdinandea non è più in superficie.
Ma a qualche decina di metri i suoi abitanti si dimostreranno accoglienti, se lei si affaccerà alle loro tane con i dovuti omaggi'

Nello spazio d'acque dove la Ferdinandea era scomparsa in un mosaico irregolare di ombre e luci, pareti rocciose offrivano riparo da impetuose correnti che costringevano i sub a fatiche da alpinisti in quota, alla ricerca di anfratti per proteggersi dalle raffiche d'una bufera.
Nei giorni lontani dei miei trent'anni e di quella mia immersione, con un riflettore ben stretto nelle mani sfiorai quelle balze sommerse.



Tra i quaranta e i cinquanta metri, raggiunsi una cavità dove mi azzardai ad entrare.
Mi rassicurava la tranquillità della guida al mio fianco che, facendo segni con la mano, mi invitava a seguirlo dove la sua lampada illuminava labirinti popolati di vita come nessun'altra grotta subacquea m'aveva mai offerto, dentici e muggini di dimensioni colossali"


mercoledì 13 novembre 2019

RAGIONAMENTI SULLA POSSIBILE FORMA DI TRAPANI

La scala elicoidale della torre
del complesso religioso della chiesa di San Domenico.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Fra tutte le grandi città della Sicilia, Trapani è l'unica ad  essere descritta con una precisa forma, identificata già in tempi remoti dalla morfologia del suo territorio: quella della falce lucente che Cerere avrebbe perso in mare, durante le ricerche della figlia Proserpina.
Il racconto di quell'episodio ha influenzato generazioni di viaggiatori e geografi, al punto che qualsiasi moderna guida turistica, nella sommaria descrizione della città, non sfugge al millenario riferimento mitologico.
Nel suo recente "Gomito di Sicilia" ( Editori Laterza, 2019 ) il giornalista Giacomo Di Girolamo prova invece a descrivere Trapani in maniera diversa, nel tentativo anche di superare altri luoghi comuni che accompagnano la narrazione delle sue vicende.
Alla fine dell'analisi, Di Girolamo propone tre riferimenti per definirne la forma; un'ala spiegata sul mare, un apostrofo o - l'ultimo paragone possibile - una lente concava: uno specchio di inganni cioè che impedisce di identificare con chiarezza un qualsiasi luogo condizionato dal comportamento degli esseri umani.
Oltre alle possibili forme cittadine elencate dal giornalista, si potrebbe tuttavia considerare la variabile rappresentata dalla presenza di una elicoide: la scala in pietra arenaria della torre campanaria del complesso della chiesa San Domenico, nel poggio più alto del centro storico. 
Qui, le maestranze locali del passato hanno creato un'opera la cui forma potrebbe a sua volta rappresentare la natura di un'identità cittadina che sembra avvitarsi su sé stessa, alimentando i dubbi di chi voglia capire la natura più nascosta della città.
Alla fine dell'elicoide, comunque, la vetta della torre mostra Trapani in tutta la sua chiara luminosità: quella stessa che spinse un poeta arabo a descriverla - altra immagine trapanese - come una "città bianchissima come una colomba".  
       
"Impastata di vento, di acqua e di sale - ha scritto Di Girolamo - si dice che Trapani abbia forma di falce.
L'ho sempre considerato un accostamento inopportuno.
Le città hanno una forma che chi vive dà loro.
E poi questo accostamento con la falce ha in sé un'idea luttuosa.
Trapani città falcata, come la Nera Signora, dove tutto è oscuro, misterioso, funebre.
A me, vista dall'alto, Trapani sembra bella e lunga come un'ala spiegata.
Se proprio una forma dobbiamo darle, Trapani ha forma di apostrofo.
E in effetti, tutto sembra essere clamoroso a Trapani, è una città che fornisce sempre nuove narrazioni, iperboli.
Sì, Trapani ha forma di apostrofo.
Ed è anche la sua condanna.
Perché succede anche questo, che ogni narrazione, per il gusto di dover apostrofare, si gonfia, ridonda.
Un funzionario che prende una mazzetta ad Aosta è un pubblico impiegato infedele.
Se lo fa a Trapani, è invece un grande corrotto, al centro di logge segrete, vicino a qualche famiglia mafiosa, segno di una città corrotta e nera.



Ci vorrebbe una sana ribellione, innanzitutto, contro questo racconto che si fa di Trapani, come di una Sicilia irredimibile.
Che non significa sminuire i fatti, la loro gravità.
Significa evitare lenti deformi, con le quali si alterano le cose, con toni da fine del mondo che servono solo a chi, predicando la fine del mondo per ogni cosa che accade in questa parte della Sicilia, ha solo da guadagnarci.
Trapani non ha forma di apostrofo, allora, ma di lente concava, filtro deforme delle cose della vita"   

domenica 10 novembre 2019

TRADIZIONE ED ATTUALITA' DELLA CULTURA DELL'OLIO IN SICILIA

Raccolta di olive di varietà "biancolilla"
a Lucca Sicula, nell'agrigentino.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Punto di riferimento indiscutibile per l'agricoltura dell'Isola, la raccolta delle olive racconta ogni anno una storia millenaria di conoscenze tecniche, saperi e tradizioni.
In alcuni luoghi della Sicilia - ad esempio, a Lucca Sicula, nell'agrigentino -  il ciclo produttivo dell'olio coinvolge ancora l'intera comunità, diventando un rito collettivo che dispensa ruoli e qualifiche indicate con termini di secolare utilizzo: "chiurma"  ( l'insieme dei lavoratori ) "carramaturi" o "cutulaturi" ( abbacchiatore ), "cugghiuturi" ( raccoglitore ), "trappitara" ( chi lavora nel trappeto ).
Specie fra gli anziani, rimane memoria della definizione di oggetti di lavoro che le innovazioni tecnologiche hanno ormai eliminato dai frantoi: il "busunettu", la "scorcia" e lo "scrozzu" ( gli strumenti di latta con i quali si prendeva l'olio dalle tinozze ), la "chinchinara" ( il recipiente di legno usato per conservare i diversi utensili ) o la "scanatura" ( la sgramolatrice ).




Alla tradizione della molitura delle olive appartengono inoltre altre definizioni con un lontano passato: "prima pasta" ( prima macina ), "Re di pasta" ( "seconda macina" ), "Re di nozzulo" ( "terza ed ultima" ), "la chianchera" ( la sansa contenuta nella gabbia ), "l'ogghiu di lu purgatoriu" ( l'olio che rimane nella tinozza mescolato con acqua ).
Un'efficace sintesi della coltura olivicola in Sicilia - un tema che potrà interessare quanti hanno a cuore un consumo di olio acquistato direttamente da un produttore, lontano dalle incognite di un supermercato - è stata così fornita nel 1960 dal geografo Ferdinando Milone, in "Sicilia, la natura e l'uomo" ( Paolo Boringhieri ):
    
"L'olivo in Sicilia è anche più antico della vite.
Sembra che vi sia pervenuto dalle isole dell'Egeo, che sono il suo centro mediterraneo di dispersione, sin dai primi contatti con quel mondo, non troppo lontano neppure quando i battelli erano poco più di un guscio di noce.
Sarebbe stato introdotto, secondo gli archeologi, ancor prima dell'arrivo dei colini greci, i quali, tuttavia, ne avrebbero diffuso la pianta.


Secondo Diodoro Siculo, olio sarebbe stato esportato dall'Isola, ai tempi suoi; e Tucidide, assai prima di lui, ci descrive gli oliveti chiusi da muretti a secco.
L'olivo doveva essere, nell'antichità, uno dei principali elementi del paesaggio siciliano.
Del resto, è così ancor oggi; e caratteristiche sono le frequenti piante secolari dalle verdi chiome sopra colossali tronchi contorti.
La gente del luogo dice saraceni i vecchi olivi secolari, per dirli fuori del nostro tempo e della nostra civiltà, così come, - lo notava il caro Biagio Pace - nei paesi musulmani tutto quello che è antico, dal rudere alla palma in abbandono, è detto, al contrario, dei Rumi, e cioè dei Romani.
Secondo l'Amari, la coltivazione dell'olivo, decaduta, non era neppure rifiorita sotto gli arabi, anche se l'Isola già allora doveva essere, forse, il principale centro di produzione del Mezzogiorno.
Augusto Lizier, più di mezzo secolo fa, affermava che prima del Mille l'olivo doveva essere assai meno diffuso della vite, perché i documenti ne facevano poca menzione, e solo verso la metà di quel secolo il ricordo si fa più frequente.
Del pari, mentre spesso veniva nominato il palmentum per il vino, assai più di rado ricorre il nome del trappetum.
Ne deduce giustamente che la coltura dell'olio dovesse essere molto più scarsa; e lo spiega con l'abbondanza dei maiali o delle greggi che non facevano sentire il bisogno dei grassi vegetali, ma anche con la necessità del lungo anticipo del capitale e del lavoro per il suo impianto..."




Insieme alla sua storia millenaria, i detti di saggezza popolare raccolti nel 1889 da Giuseppe Pitrè ribadiscono l'importanza ( e l'attualità ) dei saperi agricoli ed il ruolo dell'olio nei momenti di festa e di dolore riservati dalla vita e dalla morte:    

"Runca e cuteddu, fannu l'arvulu bellu", "roncola e coltello, fanno l'albero bello"; "cu và a l'olivi travagghia di cori, lu cori e l'arma nni senti piaciri!", "chi va fra gli ulivi, lavora con il cuore, e il cuore e l'anima provano piacere!"; "nun mettiri mazza, ca t'ammazza", "non lavorare con violenza, che ti va contro"; "l'oliva ch'è cugghiuta cu la mazza, ogghiu di mal sapuri porta 'nchiazza", "l'oliva che è raccolta in maniera violenta, olio di cattivo sapore porta al mercato"; "l'oliva, quantu cchiù penni, tantu cchiù renni", "l'oliva, quanto più pende dall'albero tanto più rende"; "tri sunnu li nimici di l'oliva, lu sirracculu, vermi e cattuneddu", "tre sono i nemici dell'oliva, il segaccio, i vermi e la cocciniglia"; "annata d'olivi, si mangia e si bivi", "buona annata di olive, si mangia e si beve"; "mortu e vivu, adduma l'olivu", "alla morte ed alla nascita, accendi l'olio santo".

   

martedì 5 novembre 2019

L'ESTENUANTE PESCA DELLE SPUGNE DEI MARINAI DI MAZARA DEL VALLO

Il porto canale di Mazara del Vallo.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Docente universitario, storico, critico letterario, storico ed intellettuale libero dagli schemi ideologici, Virgilio Titone - nato a Castelvetrano nel 1905, dove morì nel 1989 - nel 1971 pubblicò una raccolta di dieci racconti, intitolata "Storie della vecchia Sicilia"
Titone vi narrò personaggi e vicende legate alla sua formazione giovanile con un riferimento letterario che Indro Montanelli indicò in Giovanni Verga.
In uno di questi racconti - "La pensione" -  Titone rievocò il periodo dei suoi studi ginnasiali a Mazara del Vallo, a partire dal 1920.
La scuola si trovava nell'ex Collegio dei Gesuiti, "un grande e severo edificio che occupava quasi tutto un lato della piazza Mokarta, una delle più belle, ma anche, per i vecchi abbandonati edifici che d'ogni lato la circondano e il colore delle loro pietre, delle più malinconiche piazze che mi sia accaduto di vedere", ricorderà l'ex alunno.
Tra le pagine di questo racconto, Virgilio Titone annotò l'allora diffusa pratica della pesca delle spugne, oggi quasi del tutto scomparsa a Mazara del Vallo:

"Era venuta l'estate, un'estate afosa e pesante.
Nei vicoli deserti l'aria stagnava come un'acqua torpida.
La gente usciva solo la sera, quando si cominciava a poter respirare.
Ma centinaia di pescatori, compresi i vecchi e i bambini, lavoravano sulla banchina del Mazaro per allestire le barche che dovevano partire per la pesca delle spugne.


Questa pesca, che ora si fa solo da due o tre barche di marinai di Lampedusa, era una delle maggiori risorse del paese e lo era ancor di più per la marina trapanese.
Le barche dovevano partire in quei giorni per i banchi di Sfax e sarebbero ritornate dopo due mesi.
Durante tutto quel tempo non entravano in porto, se non quando dovevano rifornirsi di acqua.
Rimanevano ancorate sul posto che si assegnava a ciascuna, ed era tutti gli anni lo stesso.
Là, di giorno e di notte, i pescatori, immersi nell'acqua fino alla cintola, strappavano le spugne dalle rocce che affioravano dal mare.
Era un lavoro estenuante e per il quale occorreva anche un capitale non indifferenze.
Bisognava fornire ogni barca - a questo provvedeva naturalmente l'armatore - non solo di tutto l'occorrente per la pesca, ma anche dei viveri e di quant'altro poteva rendersi necessario per coloro che vi erano imbarcati..."

sabato 2 novembre 2019

I SICILIANI E IL COLPEVOLE CINISMO DELLA RINUNCIA

Quartiere della Kalsa, a Palermo.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

"Un essenziale problema siciliano - ha perfettamente colto nel  cuore del problema Corrado Stajano, in "Patrie smarrite, racconto di un italiano" ( Garzanti, 2003 ) - è la carenza di cultura di uno Stato di diritto moderno, per ragioni storiche, ma anche per la presenza di un cinismo diffuso, non il cinismo esibito da Piero Gobetti, 'il cinismo come difesa contro il sentimentalismo che ripugnava al suo ideale virile', un cinismo, invece, che nasce dalla rinuncia.
Il paese è quel che è; il mondo è quel che è; non è possibile migliorarlo.
Che è poi la più elementare distinzione tra progresso e conservazione.
Ma quel che dovrebbe essere conservato viene impudentemente distrutto - l'ambiente, la natura, le città - ; e viene perpetuato, in altri modi rispetto al passato, il vivere sempiterno e nutrita l'ira sorda contro chi, considerato nemico, cerca di rompere il rito del non fare e battaglia, solitario donchisciotte sovversivo, per cambiare in meglio la vita propria e l'altrui"

mercoledì 30 ottobre 2019

IL MEMORIALE DELLE TRADITE SPERANZE DI ELDA DE MAURO

Elda Barbieri, moglie di Mauro De Mauro.
Le fotografie ed il testo riproposto da ReportageSicilia
sono tratti dalla settimanale "Domenica del Corriere"
pubblicato il 13 giugno del 1972

Il prossimo anno ricorrerà a Palermo il mezzo secolo dalla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro.
Decennio dopo decennio, la verità sulla sorte del cronista de "l'Ora" è precipitata in quel pozzo senza fondo dei misteri carichi di ambiguità di tanta cronaca siciliana.
Di questa circostanza diede già conto Giuliana Saladino, nel saggio "De Mauro, una cronaca palermitana", edito nel 1971 da Feltrinelli.
Dopo avere ricostruito un diario giornaliero dei fatti che anticiparono e seguirono il rapimento, la Saladino concluse il suo libro con questa amara constatazione: 

"Ogni brandello di novità ha gettato nuovo buio sulla vicenda, ogni filo di notizia ha contraddetto e ingarbugliato tutto il resto" 

Fra le persone che più tenacemente hanno cercato la verità sulla scomparsa di Mauro De Mauro vi sono stati, ovviamente, i familiari; e, fra questi - soprattutto - la moglie Elda Barbieri, scomparsa a Roma nel febbraio del 2018.
In questo post, ReportageSicilia ripropone integralmente un suo scritto pubblicato il 13 giugno del 1972 dal settimanale "Domenica del Corriere": una sorta di "memoriale" - così lo presentò allora il periodico - nel quale Elda De Mauro annunciava la costituzione in parte civile, insieme alla figlia Junia, nel processo istruttorio a carico del consulente finanziario e commercialista palermitano Antonino Buttafuoco ( l'anziano professionista che nei giorni successivi alla scomparsa del giornalista si offrì come mediatore per consentire il ritorno a casa del giornalista ).
L'avvocato della famiglia De Mauro, Giuseppe Lupis, chiese allora al giudice Mario Fratantonio un supplemento di indagini con l'audizione di un'ottantina di persone; lista che comprendeva i nomi di alcuni politici regionali, dell'editore palermitano Fausto Flaccovio e di Italo Mattei, fratello di Enrico, morto il 26 settembre del 1962 nell'attentato di Bascapè.
Lo scritto di Elda De Mauro ricostruisce i contatti avuti nei giorni successivi al rapimento con Buttafuoco; un racconto che rivela i sentimenti contrastanti - speranza, attesa, scoramento, paura e incertezza - di una moglie decisa comunque a conoscere la verità sulla sparizione del marito.



Da un lato, il suo testo suggerisce  la speranza di potere ricostruire l'accaduto, grazie a nuovi elementi di conoscenza sul sequestro e sul ruolo in esso ricoperto "da importanti personaggi"; dall'altro, Elda De Mauro - per anni insegnante di educazione fisica a Palermo - non nasconde l'amarezza per l'inatteso trasferimento a Roma deciso dal ministero della Pubblica Istruzione.
Nel suo memoriale, infine, la moglie del cronista de "l'Ora" sottolinea il suo legame con Palermo e con quella Sicilia matrigna che gli ha tuttavia trasmesso - scrive - "la fierezza che porta a non accettare i soprusi".
In nome di quell'orgoglio, Elda De Mauro si dice pure pronta a farsi giustizia da sola contro i responsabili della scomparsa del marito.
Mezzo secolo dopo, la contorta storia del "caso De Mauro" - chiusa da una sentenza della prima sezione penale della Cassazione che nel 2015 ha definitivamente prosciolto Salvatore Riina dall'accusa di essere stato il mandante della scomparsa - dimostra che le speranze coltivate per 48 anni da Elda De Mauro non hanno trovato ancor oggi alcun seguito.

IL MEMORIALE DI ELDA DE MAURO    
   
"A un anno e nove mesi da quella drammatica notte del 16 settembre 1970, in cui mio marito venne rapito e fatto sparire nel nulla, io e mia figlia Junia abbiamo deciso di rompere gli indugi e di costituirci parte civile contro gli sconosciuti autori del sequestro che, come si ricorderà, avvenne proprio sotto le finestre di casa nostra, a Palermo.
Questa decisione è maturata in seguito al desiderio di essere presenti come parti attive in una prevedibile imminente svolta delle indagini, che sarò possibile in base ad alcuni importanti elementi nuovi venuti in possesso nostro e degli inquirenti negli ultimi tempi.



Naturalmente, non posso dire quali siano questi fatti nuovi, perché violerei il segreto istruttorio e recherei danno al proseguimento delle indagini.
Posso tuttavia precisare che si tratta di elementi che potrebbero arrivare a spiegare il perché mio marito è stato sequestrato e che comportano gravi responsabilità per alcuni personaggi molto noti.
E' indubbio, ad ogni modo, che tutto questo si riferisce alle ricerche che mio marito stava facendo per conto del regista Francesco Rosi sulle ultime due giornate di vita in Sicilia del presidente dell'ENI, Enrico Mattei.
D'altra parte, in quel periodo lui non si occupava di nessuna altra inchiesta importante.
Sui traffici della droga non seguiva più niente dal 1968.
E poi si trattava di droga così, per modo di dire.
Anche della mafia, quella tradizionale, non scriveva più da almeno due anni.
Restava, insomma, soltanto il 'caso Mattei', sul quale doveva avere scoperto qualcosa di veramente importante, qualcosa che avrebbe fatto grande scalpore.
Purtroppo, in quel periodo, contrariamente al mio solito, non seguivo il suo lavoro in quanto ero tutta presa dall'insegnamento e dai preparativi di nozze della nostra figlia.
La nostra costituzione a parte civile ha anche un altro scopo, quello di consentire al nostro legale, l'avvocato Giuseppe Lupis, di seguire più da vicino il corso delle indagini, chiedendo la citazione di nuovi testi e un supplemento di interrogatorio di alcuni personaggi, tra cui il procuratore legale Nino Buttafuoco, che finora si sono dimostrati reticenti o contraddittori.
Nei giorni successivi la sparizione di mio marito, Buttafuoco si fece vivo con me, chiedendo notizie di Mauro e rassicurandoci con mezze frasi sulla sua sorte.
In un primo momento, forse anche per lo stato di disperazione e di ansia in cui mi trovavo, credetti molto in lui, anche se quel suo modo di agire lasciava adito a molte perplessità.
E' da tenere presente che non era un amico di famiglia e un intimo di casa, ma soltanto il nostro consulente fiscale, per cui era piuttosto singolare che si interessasse tanto di quello che ci stava succedendo.

GLI STRANISSIMI APPUNTAMENTI

Gli prestai quindi ascolto, nonostante lo strano discorso che mi fece la sera del 20 settembre ( quattro giorni dopo la scomparsa ).

'Non si preoccupi per Mauro' - mi disse - 'forse alcune persone che vengono da fuori Palermo dovranno incontralo e parlargli.
Sa, Mauro non è stato molto attento negli ultimi tempi'

Poi aggiunse:

'Se lei mi avesse avvertito subito, appena è sparito, cinque minuti dopo avrebbe riavuto Mauro a casa'

Rimasi senza fiato.

'Oh Dio' - mormorai non appena mi ripresi dallo stupore - ma perché avrei dovuto avvertire proprio lei?'

Lui non rispose, ma ripeté:

'Se lei mi avesse avvisato, nel giro di cinque minuti Mauro sarebbe ritornato a casa'

Prima di andarsene, però, volle rassicurami:

'Ho incontrato i due amici che mi hanno baciato tre volte e mi hanno detto che faranno tutto il possibile perché l'affare del giornalista abbia buon esito'

E mi chiese se io o la polizia avessimo trovato qualcosa tra le carte di mio marito o comunque fossimo venuti a conoscenza di qualche notizia utile per salvare Mauro.
Naturalmente, avvertii gli inquirenti di questo misterioso atteggiamento del Buttafuoco e venni consigliata di dargli corda, nell'eventualità che lui potesse veramente adoperarsi per il rilascio di mio marito.
Ai quei primi contatti, seguirono altri, per telefono o per stranissimi appuntamenti.
Risulterà poi che tutti i colloqui venivano controllati scientificamente dalla polizia, che seguiva ogni mio spostamento.
Dopo quel primo contatto, Buttafuoco mi telefonò nuovamente che 'con l'aiuto degli esperti, dopo avere guardato la pratica, va tutto bene al 98 per cento'.
In seguito, mi fece sapere:

'Forse, c'è qualcuno che deve parlare con Mauro, ma il posto in cui si trova non è sicuro.
Devo sentire una persona di Palma di Montechiaro, a me molto devota, che mi darà notizie precise'

Dietro mia richiesta, affermò che i rapitori non sarebbero mai stati identificati perché si trovavano molto lontano, avendo già riscosso il compenso pattuito.
A mio cognato Tullio, poi, spiegò:

'Ho letto la pratica e i documenti del vostro affare, ho trovato qualche difficoltà, ma grazie all'aiuto di alcuni esperti, tutto è ormai chiarito.
L'affare si mette bene e si concluderà positivamente al novantotto-novantanove per cento.
C'è un medico che deve venire da fuori per visitare il malato e solo dopo la sua visita si potrà concludere l'affare'

In pratica, per tre settimane noi facemmo tutto quello che Buttafuoco ci chiedeva: prima aveva voluto copia della registrazione di un nastro che era giunto per posta al giornale di mio marito e in cui si ascoltava una voce che diceva:

'De Mauro è vivo, non gli facciamo alcun male.
Speriamo che si arrangi.
Vogliamo solo chiacchieragli bene'

Poi volle la fotocopia della busta entro la quale era arrivato il nastro.
Infine, insistette perché mi recassi dal questore a chiedere informazioni.
Voleva sapere i nomi sui quali indagava la polizia, mentre non gli interessava niente, ad esempio, di quello che facevano i carabinieri.

'Si faccia dare i nomi' - diceva - a lei debbono darli.
Non si preoccupi, vada e chieda i nomi, poi li porti a me.
Si fidi, si fidi'




L'APPELLO ALLA TELEVISIONE

Questo tira e molla, che ora può apparire assurdo ma che allora rappresentava per me l'esile speranza di potere rivedere mio marito sano e salvo, durò fino al 7 ottobre.
La mattina di quel giorno, telefonai a Buttafuoco per accordarmi sul luogo in cui avremmo dovuto vederci, ma non lo trovai.
Il pomeriggio richiamai la sua segretaria e lei mi comunicò il messaggio che lui le aveva lasciato per me.
Diceva:

'La signora vada subito al solito treno'

Purtroppo, non riuscivo a capire che cosa significasse: dovevo andare alla stazione?
Quale treno dovevo aspettare?
Richiamai la segretaria, la quale mi disse di recarmi immediatamente in casa di Buttafuoco.
Vi andai subito, ma lui si dimostrò scostante, nervoso.
Eluse tutte le nostre domande, rimase a lungo in silenzio.
Da quel momento i nostri rapporti si interruppero.
Delusa dal comportamento di colui dal quale avevo sperato la salvezza di mio marito e disperata perché le indagini non progredivano, tentai un'altra carta.
Mi rivolsi al cuore di Palermo, indirizzando una lunga lettera al giornale di Mauro e leggendo un appello alla radio e alla televisione: pregavo chiunque fosse stato in possesso di una qualsiasi notizia utile di fornirla senza indugio alla magistratura.
Purtroppo, anche questo tentativo cadde nel vuoto.
Il 19 ottobre ci fu l'arresto di Buttafuoco.
Durante i lunghi interrogatori, in cui gli vennero contestati questo suo strano modo di agire e le gravi ammissioni fatte, lui si dimostrò abilissimo.
Sostenne di aver agito così per divertirsi, lasciò capire che il suo comportamento era stato dettato dal sadico gusto di vivere da attore un evento così drammatico per Palermo.
Accettò senza battere ciglio il rischio di essere considerato un folle.
Tutto fa pensare che Buttafuoco sia stato costretto a svolgere un gioco per conto di qualcuno.
Secondo me, è stato usato contro la sua volontà, mandato allo sbaraglio da persone molto potenti che volevano essere tenute al corrente di quello che sapevamo sia noi, in famiglia, sia gli inquirenti.
La prima volta che si è fatto vivo, del resto, era sconvolto quanto noi, poi si è ripreso e ha svolto il suo compito come ha potuto.
Alla fine, dovendo giustificare il suo modo di comportarsi senza poter compromettere nessuno, ha dovuto fingere un eccesso di sadismo e di follia, contro il quale invano hanno urtato gli sforzi degli inquirenti per venire a capo di qualche notizia utile.
Così, pur schiacciato da indizi gravissimi, venne rilasciato a piede libero, con la giustificazione della tarda età e della salute malferma, probabilmente nella convinzione che servisse più fuori che dentro.
Ora che ci siamo costituiti parte civile, penso che tutto il suo comportamento di allora potrà essere riveduto.
Anche perché il nostro avvocato chiederà che vengano sentiti nuovi testi, e dovrà essere messo al corrente del punto in cui si trova l'inchiesta.
Avremo, insomma, la possibilità di influire sul corso delle indagini.
Finché sono stata a Palermo, infatti, ero sempre al corrente delle persone che il giudice interrogava e a mia volta fornivo agli inquirenti ogni notizia che ritenevo utile.
E' stato scritto, e molti ancora lo credono, che ci sia stata una specie di sabotaggio nei confronti delle indagini svolte dai carabinieri, il cui rapporto sarebbe stato tenuto in frigorifero dalla Procura della repubblica di Palermo.
In realtà, la supposizione è infondata in quanto il rapporto passò subito all'esame del giudice istruttore.
A Roma, invece, mi sento tagliata fuori e mi sono stancata un pò di questa attesa senza elementi precisi di riferimento.
Tanto più in un momento come questo in cui intuisco che sta per accadere qualcosa di importante.




LA RACCOMANDATA DEL MINISTERO


Il mio trasferimento a insegnare in una scuola della capitale, d'altra parte, è stato un altro motivo di profonda amarezza per me.
Me lo comunicarono il 28 novembre 1971, con una raccomandata del ministero della Pubblica Istruzione.
Così, al trauma della sparizione di mio marito si aggiunsero il trauma di dover lasciare una casa e una città in cui avevo vissuto ventiquattro anni e alle quali ero affezionatissima perché cariche di ricordi e di emozioni che mi ricollegavano a un periodo felice e troncato così tragicamente che quasi ancora non so rendermene conto.
E' difficile da spiegare, ma certe volte, nella nostra casa di Palermo, io riuscivo ancora ad illudermi che mio marito fosse assente per un lungo servizio e che da un momento all'altro sarebbe ritornato.
Qui a Roma è diverso.
Lo spazio delle illusioni si è ristretto.
C'è inoltre la realtà di una vita non certo facile da affrontare.
In pratica, io e mia figlia Junia, a ventun mesi dal sequestro di Mauro, continuiamo a trovarci isolate, disancorate da una realtà che non sappiamo ancora bene quale sia.
L'ultimo motivo di disagio l'abbiamo provato con l'uscita del film 'Il caso Mattei' di Francesco Rosi.
Il regista, che prese visione di tutti gli appunti che aveva raccolto mio marito, non si è neppure sentito in dovere di citare il suo nome nel cast dei collaboratori.
Queste, sia chiaro, non sono accuse.
Il mondo è fatto così, dappertutto.
Io, comunque, non intendo darmi per vinta e ho provato la sensazione che entro breve tempo riuscirò per lo meno a sapere che fine ha fatto mio marito.
Del resto, penso che anche il giudice istruttore, dottor Fratantonio, sia di questo avviso.
Fin dall'inizio dell'istruttoria, mi ha assicurato che non avrebbe guardato in faccia a nessuno, che avrebbe compiuto sino in fondo il suo dovere, a qualunque costo, chiunque vi fosse implicato.
E io gli credo.
Se però mi accorgessi che questo non avviene dichiaro fin d'ora che sono pronta a farmi giustizia da sola.
La Sicilia mi ha tolto il marito, ma dalla Sicilia, io che sono nata a Stradella nell'Olprepò pavese, ho assimilato la fierezza che porta a non accettare i soprusi".