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mercoledì 26 agosto 2020

DONNE ED UOMINI DI ISNELLO E LA LEGGE DI MENDEL APPLICATA AI SICILIANI

Donne ed uomini di Isnello.
La foto riproposta da ReportageSicilia
- attribuita all'Assessorato regionale al Turismo -
venne pubblicata dalla rivista "Sicilia"
nel dicembre del 1956

"Si direbbe che la legge di Mendel - scrisse  Giuseppe Antonio Borgese in una delle prefazioni di "Sicilia", edito dal TCI nel 1933 per la collana "Attraverso l'Italia" - si attui con straordinaria evidenza in Sicilia; più che i tratti fisici, coi quali sarebbe peggio che difficile impossibile o del tutto arbitrario disegnare un ritratto dell'uomo siciliano, della donna siciliana, che li distingua naturalisticamente dalle popolazioni affini, un'espressione solidale, un'aria di famiglia accomuna la gente.


Essa è un'espressione nello stesso tempo risoluta e repressa, vibrante ma non loquace; più facilmente un gesto, un lampo sulle facce mobili, tradisce l'animo, che la parola parlata senza sottintesi lo riveli...




La sonorità della lingua, pronunciata da voci calde, di petto, contiene ampie dittongazioni, acuti iotacismi, che ricordano il greco, e gutturalità da gole arabe; una cadenza elegiaca accompagna solitamente il parlare femminile, anche se esso nelle risse dei cortili palermitani si scapriccia talvolta in stridulità, in dissonanze orientali..."

sabato 22 agosto 2020

LA RISCOPERTA DEL CIMITERO DEI COLEROSI A SALEMI

Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Le settimane che si protrassero da 24 marzo al 4 maggio del 2020 rimarranno nella storia di Salemi: 42 giorni in cui la cittadina del trapanese diventò "zona rossa" in conseguenza della pandemia da coronavirus, emergenza sanitaria fortunatamente ad oggi superata.
Ben diversa fu la situazione che Salemi subì negli ultimi giorni di agosto del 1837, quando un'epidemia di colera sbarcata in Europa con il ritorno in Inghilterra di alcuni soldati impegnati in India, provocò la morte di almeno 475 salemitani.



La storia di quella calamità, durata un paio di mesi, è stata riscoperta nel 2012 da Vito Surdo, un medico ortopedico di Salemi trasferitosi da anni in Veneto e da sempre cultore di storie e tradizioni popolari del suo paese.
Complice la lettura di una raccolta di racconti di Alessandro Catania pubblicata nel 1929 ed intitolata "Gli illusi", Surdo venne a conoscenza dell'esistenza a Salemi di un cimitero di colerosi in contrada Serrone.
Subito iniziò la ricerca di testimonianze orali e scritte; le prime, le trovò dal proprietario di un terreno della zona, le seconde negli uffici del Catasto e negli archivi parrocchiali.


Così, l'area che 183 anni fa accolse in una fossa comune le vittime del colera - un luogo completamente ignoto a tutti i salemitani e frequentato solo dalle pecore - venne individuata sulla base di precise mappe e di resti umani venuti alla luce durante i sopralluoghi.
Successivi documenti hanno permesso di scoprire che almeno sino al 1923, il cimitero era segnalato da una croce in ferro: a rimuoverla, ci avrebbe pensato il podestà locale, per donare quel metallo al regime fascista impegnato a riciclare anche i simboli della religione per farne armi e strumenti di guerra.
Da anni, Vito Surdo ritorna con regolarità a Salemi per rendere omaggio a quella fossa comune rimasta per quasi due secoli dimenticata.
Grazie al suo impegno economico, alla buona volontà di fabbri e muratori locali e all'intervento del Comune, l'area è stata ripulita dalla vegetazione e dotata di un cippo in pietra sormontato da una nuova croce.


L'aspetto del cimitero - un pianoro che guarda l'abitato di Salemi e, a perdita d'occhio, le colline della provincia di Trapani - è volutamente scarno di decori o manufatti.
Accanto al cippo, è stato piantato un unico giovane albero di carrubo.
Intorno, in primavera, in questo luogo di rimembranza di una drammatica epidemia fioriscono spontaneamente asfodeli: i fiori che secondo la mitologia greca rappresentavano i morti vissuti senza meriti e senza colpe.

sabato 15 agosto 2020

IL SOLE A STROMBOLI DI TOGNONI


IL SOLE A STROMBOLI, di Giancarlo Tognoni ( 1956 )

venerdì 14 agosto 2020

STRETTO DI MESSINA, FRA I TANTI PROGETTI ANCHE UNA TELEFERICA SOTTOMARINA

Attraversamento dello Stretto di Messina su un traghetto.
La fotografia è di Patrice Molinard
ed è tratta dall'opera "La Sicile"
edita nel 1955 a Parigi da Del Duca per la collana
"Couleurs du Monde"

L'argomento torna di attualità di tanto in tanto, come un logoro esercizio di discussione su un tema che ha finora prodotto costosissime consulenze e progetti, annunci e pareri di primi ministri, ministri e sottosegretari di tutti i partiti e movimenti succedutisi sulla scena politica italiana dell'ultimo mezzo secolo.
Parliamo ovviamente del ponte sullo Stretto di Messina: cinque parole messe in fila, che, l'una dopo l'altra, designano una mitologica ed astratta presenza edilizia sul tratto di mare - nel punto più stretto, appena 3416 metri - che separa la Sicilia dal resto d'Italia.
L'ultima dissertazione sul tema ha rilanciato la possibilità di creare il collegamento tramite un tunnel sottomarino, soluzione già più volte prospettata in passato.
In attesa di una prossima riproposizione del tema "ponte sullo Stretto di Messina", si può ricordare che l'argomento del collegamento fra Sicilia e Calabria ha prodotto anche il singolare progetto di una complessa  teleferica subacquea.
Accadde durante gli anni della seconda guerra mondiale, quando le esigenze strategiche spinsero il regime fascista a progettare in tutta fretta un'opera rimasta anch'essa sulla carta:

"La necessità urgente e assoluta di unire l'Isola al Continente per motivi bellici - si legge in "L'attraversamento elettrico dello stretto di Messina" della Società Generale Elettrica della Sicilia ( Libreria DEDALO, Roma, 1958 ), spinse allora le autorità militari a tentare un collegamento subacqueo di carattere teleferico.
Detto collegamento venne studiato dal prof.Zignoli e rappresenta una soluzione quanto mai originale di un problema bellico.
il collegamento fra le due sponde sarebbe stato effettuato fra punta Pezzo e Ganzirri, in prossimità della soglia, mediante una teleferica subacquea dotata di una fune traente continua chiusa ad anello, sostenuta a profondità adatta da tanti piccoli sommergibili dotati di riserva di spinta sufficiente a mantenere i due rami a profondità diversa per evitare intralci e abbastanza forte per evitare l'avvistamento da parte degli aerei.


Prima dell'immersione era prevista la pesatura dei vagoncini sommergibili per assicurare ad essi la riserva di spinta calcolata tarando il loro peso con aggiunta d'acqua.
Avviato poi il vagoncino sulla rotaia di agganciamento, esso si sarebbe immerso con questa fino a raggiungere la traente alla quale si sarebbe agganciato automaticamente; con procedimento inverso, sarebbe emerso sull'altra sponda.
Il progetto fu studiato in tutti i dettagli, ma non venne eseguito per il precipitare degli eventi bellici..." 


   

lunedì 10 agosto 2020

IL "LIOTRU" E LA DIFFICILE VITA DEI VERI ELEFANTI A CATANIA

L'obelisco con la statua dell'Elefante in piazza Duomo,
a Catania.
La foto è tratta dal numero speciale "Sicilia oggi"
pubblicato dalla rivista "Illustrazione Nazionale"
nel maggio del 1959

"L'ipotesi che noi crediamo più attendibile - ha scritto Santi Correnti a proposito dell'origine e del significato dell'elefante di pietra lavica in piazza Duomo ( il "liotru", simbolo della città ) -  è la quinta, espressa dall'insigne archeologo sicilianio Biagio Pace.
Il quale - ha scritto Correnti in "Leggende di Sicilia" ( Palumbo, Palermo, 1993 ) - basandosi sulle descrizioni del geografo arabo Idrisi, che viaggiò in Sicilia nel periodo 1145-1154, per ordine del re normanno Ruggero II, ne ha accettato l'interpretazione, confermando che si tratta di una statua magica, cioè di un vero e proprio talismano, costruito in età bizantina, e posto fuori le mura della città, per difendersi dalle offese dell'Etna.
Ma perché i catanesi vollero scegliere proprio un elefante come loro simbolo?
La ragione profonda è insita nella coscienza popolare, che ha creato la leggenda antica da noi già ricordata, secondo la quale un elefante avrebbe messo in fuga tutti gli animali nocivi alla nascente Catania.
E i catanesi vollero addirittura avere sotto i loro occhi il talismano: nel dodicesimo secolo, secondo la testimonianza di Idrisi, la statua fu trasportata dentro la città; nel sedicesimo secolo, e precisamente nel 1508, secondo la testimonianza dello storico catanese G.B. De Grossis, fu posta nel lato ovest del palazzo municipale, allora completato in piazza Duomo, e sofferse molto nel catastrofico terremoto dell'undici gennaio 1693, che distrusse quasi completamente Catania e fece circa 18.000 vittime su 27.000 abitanti; si spezzarono infatti la proboscide e le gambe anteriori del pachiderma, che furono rifatte in occasione della sistemazione vaccariniana del 1735-37...
Circa il nome popolare della statua, Liotru o Diotru, possiamo dire che anch'esso è legato alla storia di Catania, perché questo nome altro non è che la corruzione dialettale di Eliodoro, descritto dal grandissimo storico siciliano come Michele Amari come 'nobile uomo, candidato una volta alla sede vescovile, poi molesto nemico di san Leone, i cui partigiani lo dissero poi discepolo degli ebrei, negromante e fabbro di idoli'.
Tra le arti magiche attribuite ad Eliodoro, ci fu anche quella della costruzione dell'elefante di pietra, e il popolo favoleggiava che Eliodoro fosse solito cavalcarlo per i trasferimenti necessari alla sua attività di mago..."



Il legame fra i catanesi ed il simbolo civico della città è indiscutibile, tanto che molti di loro si autodefiniscono ironicamente "marca elefante".
Malgrado questo orgoglio ( a Catania il comune porta in nome di palazzo degli Elefanti, l'università e la squadra di calcio ne hanno fatto il proprio simbolo ed in passato è stato celebrato un festival della canzone che assegnava "l'Elefante d'oro" ) il rapporto fra Catania ed i veri elefanti non è stato però troppo fortunato.
Proprio per il fatto di essere rappresentata da questo animale, nel corso dei decenni la città ne ha ricevuto in dono almeno tre esemplari.
Il primo di cui si abbia memoria, nel 1890, fu "Menelicche", regalo spedito dal negus d'Etiopia Menelik ad Umberto I, che subito lo destinò a Catania.
Qui, l'animale - un elefantino di razza nana - visse per pochi anni segregato con una catena ad una zampa in un fossato di villa Bellini; finì imbalsamato, ad eternarne la triste storia.
Un secondo elefante, di nome "Remo", fu omaggiato nel 1955 dal comune di Roma, ma arrivò a Catania già morto. 
Non più fortunata fu "Tony", nome dato ad un'anziana e malata elefantessa che il circo di Darix Togni decise di lasciare in città nell'agosto del 1965.
Durante il tragitto fra il tendone, allestito nell'area del porto, e piazza Duomo, il pachiderma sfuggì al controllo di Togni.
Seminando il panico fra i catanesi e danneggiando un paio di autovetture, "Tony" riuscì a tornare nel recinto che ospitava gli altri elefanti del circo.
Solo dopo essere stata  sedata, venne definitivamente trasferita all'interno di villa Bellini; vi morì un paio di anni dopo, trascorrendo forse giorni meno infelici rispetto a quelli sofferti dal povero "Menelicche".    

sabato 8 agosto 2020

SIRACUSA, CONFUSA TRA L'ANTICO ED IL MODERNO

Un vicolo di Ortigia.
Le fotografie del post, dell'archivio Farabola,
illustrarono un reportage di Giuseppe Tarozzi,
opera citata

All'ottobre del 1961 risale un reportage su Siracusa pubblicato dalla rivista del Touring Club d'Italia ed intitolato "Il volto di Siracusa".
All'epoca della pubblicazione, la città contava 62.000 abitanti. 
Lo sviluppo industriale dell'intera provincia, favorito dalla creazione di giganteschi impianti del petrolchimico lungo la fascia costiera dello Jonio, stava in quei mesi trasformando ( a lungo termine, con più guasti che benefici ) l'economia e l'urbanistica di Siracusa.



Di questi cambiamenti diede conto nell'articolo Giuseppe Tarozzi, cronista milanese più volte inviato in Sicilia dal TCI per scrivere di luoghi e personaggi isolani. 
Passate in doverosa rassegna le testimonianze archeologiche ed ambientali - a cominciare dal teatro greco e dal Ciane, con i suoi papiri - Tarozzi colse il peso dei cambiamenti sociali in corso, sottolineando che "anche da queste parti è scoppiato il fenomeno dell'urbanesimo che vede sempre più deserte le campagne e sempre più abitate le città".



La Siracusa visitata allora dal giornalista è ancora "luogo tranquillo e provinciale", ma con una confusione fra antico e moderno resa sempre più evidente da quella "travolgente espansione edilizia" che, in quegli anni, determinò la cancellazione di molta preziosa architettura storica:
"Il primo aspetto è quello di una città moderna, pulita e tranquilla.
Una città dove si respira un'aria decisamente provinciale, ma con molto gusto, e decoro e misura.
Apparentemente si potrebbe quasi dire che Siracusa è divisa in tre parti: una è quella che chiamano la città moderna, che occupa l'isola Ortigia e che si unisce al retroterra con un ponte.
E però, questa parte non ha nulla di veramente moderno, sì bene è la tipica e vecchia città mediterranea.
Moderna, invece, e nel vero senso della parola, è la seconda parte, quella che iniziando dentro l'isola Ortigia, discende al ponte, lo valica e si espande sul litorale, sino a creare una sorta di estesa intercapedine prima della terza parte, che nasce ancor più all'interno, e che è la città archeologica.
Ma, a dir proprio, queste divisioni sono arbitrarie, sommarie e si fanno solo per comodo.
In questa città l'antico ed il nuovo sono dovunque confusi, e la travolgente espansione edilizia, questo continuo progresso, contribuisce e confonderli ancora di più..."