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mercoledì 31 dicembre 2014

GLI ULTIMI EPIGONI DEL CARRETTO

In un libro del 1959 dello studioso catanese Salvatore Lo Presti le immagini di cinque artigiani di una forma d'arte allora ormai al tramonto

L'intagliatore Ignazio Russo mentre rifinisce
un mascellaro di carretto.
Le fotografie del post vennero pubblicate nell'opera
dello studioso catanese Salvatore Lo Presti
"Il carretto", edita da Flaccovio a Palermo nel 1959

Uno dei primi organici saggi dedicati al carretto ed ai suoi artefici - carradori, intagliatori, pittori, fabbri ferrai, costruttori di finimenti e bardature - si deve all'opera dello studioso catanese Salvatore Lo Presti.
Il libro si intitola semplicemente "Il carretto" e venne pubblicato nel 1959 da Flaccovio a Palermo con una tiratura limitata a 2500 copie, mille delle quali numerate a mano e destinate "ai prenotati".
Proprio per il numero ridotto di copie prodotte, "Il carretto" è oggi un'opera piuttosto rara a trovarsi.
Chi volesse gustarne i contenuti, può contare sulla disponibilità di poche biblioteche pubbliche o sull'acquisto on-line del libro di antiquariato. 
Nel post, ReportageSicilia ripropone cinque fotografie che illustrarono le pagine di Lo Presti.

Il carradore Salvatore Quartarone,
in un'immagine firmata Consoli di Catania

La scelta - non facile, visto l'interesse e la bellezza di molte delle 84 immagini - ha privilegiato gli scatti che hanno ritratto in quegli anni l'attività degli ultimi artisti del carretto: l'intagliatore Ignazio Russo fotografato mentre rifinisce un mascellaro, il carradore Salvatore Quartarone dalle enormi mani e il pittore Salvatore Lombardo - tutti catanesi - e gli altri pittori Nunzio Pellegrino e Domenico Ducato, di Castelvetrano e Bagheria

Il pittore di Castelvetrano Nunzio Pellegrino,
in un'immagine firmata Foto Varvaro
    
Il libro offre una rassegna completa della storia del carretto in Sicilia, analizzando, provincia per provincia, le differenze stilistiche del gruppo di artigiani ed artisti che hanno concorso alla costruzione di un'opera di abilissima manualità e divenuta negli ultimi decenni solo un semplice simbolo del folclore isolano nel mondo.
Sintesi di quell'arte è stata, per Lo Presti, un carretto realizzato nel 1956 nel catanese da un gruppo di "valentissimi artigiani":

"Il carradore Salvatore Chiarenza di Belpasso, i fabbri ferrai fratelli Concetto e Vincenzo Santapaola di Catania, lo scultore Ignazio Russo, pure di Catania, e il pittore Antonino Liotta di Paternò, morto alcuni mesi dopo ultimata la sua opera.
Ognuno di essi ha dato il meglio della propria arte, per la goia di un agricoltore di Borrello ( frazione di Belpasso ), il signor Giuseppe Apa, che ha speso oltre un milione, e per la maggior gloria dell'artigianato isolano". 

Il pittore Salvatore Lombardo,
in una fotografia firmata Nasca


Nella breve prefazione, Salvatore Lo Presti dedicò la sua opera a Ettore Li Gotti e Antonio Daneu, studiosi, ricercatori e collezionisti dell'arte popolare siciliana scomparsi poco prima della pubblicazione del volume.
Citando entrambi come maestri del suo studio, Lo Presti ha consegnato alla saggistica dedicata a questi mezzi di trasporto trasformati in opera d'arte un libro ricchissimo di informazioni.
Gli eccessi lirici a volte pesano sulla narrazione e sul rigore filologico dell'autore, come nell'introduzione:

"Il carretto siciliano: un'orgia di colori, una scia d'oro. 
Le strade, al suo passaggio, s'illuminano.
Sole, zolfo, arance, limoni, cielo, mare, campagna verdissima, melloni di fuoco, fichidindia e lava dell'Etna.
C'è tutta la Sicilia - dalla 'cassa' agli 'sportelli', dalle ruote alle aste - tutta la Sicilia con i suoi panorami asprigni, le sue lontananze, i profumi misteriosi che le giungono dall'Oriente.
Gelsomini d'Arabia e 'balaco', garofani incantati e gigli di Sant'Antonio, nella mescolanza salsojodica dei venti del Mediterraneo.
La Primavera sorride sul cammino dell'Eternità..."

Il pittore Domenico Ducato
mentre completa i pannelli che raffigurano
il Sultano Saladino che riceve i prigionieri
e l'ingresso di Rinaldo e delle sue truppe a Montalbano.
La fotografia è di Giovanni Coglitore


Infine nell'analisi storica della secolare storia del carretto manca la percezione del tramonto di questo mezzo di trasporto e dell'imminente scomparsa dei suoi artefici.
Nel 1959 - anno di pubblicazione del libro - anche in Sicilia l'avvento della motorizzazione cominciava a mutare gusti e bisogni di commercianti e contadini.
Al signor Giuseppe Apa di Borrello - capace di spendere un milione di lire per la commissione di un carro a "maggior gloria dell'artigianato isolano" - si sostituirono centinaia di clienti di furgoni o Fiat 500 e 600 acquistate con le cambiali.
Così, l'affascinante lettura de "Il carretto" appare oggi un tributo ad un mondo rurale ed a vecchi mestieri già all'epoca diventati il passato dell'isola. 

  
  



martedì 30 dicembre 2014

SICILIANDO














"Non capisco in tutta sincerità  come i politici siciliani non riescano a gestire il patrimonio dell'isola in maniera corretta. Anzi, non lo gestiscono affatto.  Da tempo.
Nel mondo intero, non esiste alcun posto con così tanti tesori come la Sicilia.
Non esiste un altro luogo con una concentrazione così densa di meraviglie. Eppure, dopo tanti discorsi, continue nomine di assessori regionali, soprintendenti et similia, siamo all'anno zero.
L'amara realtà è che la Sicilia  non è capace di gestire l'immensa fortuna che ha"
Raymond Boldin,
presidente onorario del Comitato Città e Villaggi Storici UNESCO 


domenica 28 dicembre 2014

RITRATTO VENETO DEL BOSS PIETRO TORRETTA



Dalla borgata Uditore al soggiorno obbligato a Cittadella, nel padovano: nelle fotografie pubblicate nel 1970 dalla "Domenica del Corriere", la parabola criminale  del boss palermitano Pietro Torretta


Il boss palermitano dell'Uditore Pietro Torretta
a passeggio con una figlia a Cittadella, nel padovano.
La cittadina veneta ospitò il suo soggiorno obbligato
a partire dal maggio del 1970.
Il reportage fotografico riproposto da ReportageSicilia
venne pubblicato il 2 giugno
dal settimanale "Domenica del Corriere".
Le immagini furono realizzate da Gillo Faedi
ed accompagnarono un articolo di Cesare Marchi



L'uomo con gli occhiali scuri, il vestito color fumo di Londra ed il cappello color crema che passeggia in strada insieme ad una figlia è un boss palermitano assai noto alle vecchie cronache di mafia.
Gli archivi giudiziari che lo riguardano ne citano il nome addirittura per un'indagine che nel 1948 riguardò il rapimento del possidente Giuseppe Gulì da parte della banda Giuliano.
All'epoca dei primi quattro  scatti riproposti nel post da ReportageSicilia - nel maggio del 1970Pietro Torretta aveva 58 anni ed era conosciuto come il capo della cosca della borgata Uditore.
Nel rapporto di polizia giudiziaria scritto dal tenente dei Carabinieri Mario Malausa nel marzo del 1963 - tre mesi prima della strage di Ciaculli, in cui l'ufficiale perse la vita - si riassume così l'ascesa di Torretta ai vertici della mafia palermitana:

"Notoriamente affiliato alla mafia, la quale lo impose quale amministratore dei fondi del marchese De Gregorio, ha raggiunto una florida posizione economica ed è diventato un uomo di massimo rispetto"
 
Nelle immagini di Gillo Faedi pubblicate sulla "Domenica del Corriere" del 2 giugno 1970, Torretta viene ritratto nei primi giorni di libertà vigilata a Cittadella, ordinata e tranquilla cittadina in provincia di Padova.
Il reportage - firmato dal giornalista Cesare Marchi ed intitolato "El sior mafioso" - riferiva le vicende criminali di Pietro Torretta, alcune dichiarazioni rese dal boss al cronista e le reazioni di alcuni abitanti di Cittadella dopo l'arrivo del secondo ospite "giudiziario" siciliano. 
Da qualche mese infatti, il paese era sede del soggiorno obbligato di Giuseppe Palmeri, boss di Santa Ninfa: una misura di sorveglianza che non gli impediva di guidare dal Veneto un imponente traffico di eroina fra Medio Oriente, Francia e Stati Uniti con la complicità di Leonardo Crimi, altro capomafia trapanese al soggiorno obbligato a Conegliano, nel trevigiano.   


Prima di mettere piede a Cittadella - il 15 maggioPietro Torretta aveva trascorso un lungo periodo di detenzione nel carcere di Cosenza.
Il carcere era stato la conseguenza di una condanna in I grado a 27 anni per un duplice omicidio compiuto sette anni prima nel salotto del suo appartamento dell'Uditore, al civico 6 di via Antonio Lo Monaco Ciaccio.
Grazie ad un decreto legge che in quel periodo aveva posto un limite di quattro anni alla custodia preventiva nella fase del giudizio, Torretta - dopo avere pagato una cauzione di cinque milioni di lire - era riuscito ad ottenere la libertà vigilata lontano dalla Sicilia.


L'episodio - uno dei tanti della cruenta guerra fra i clan Greco e La Barbera per il controllo delle attività edilizie in città - monopolizzò le cronache giornalistiche palermitane per giorni: il 19 giugno 1963 Giacomo Conigliaro e Pietro Garofalo, sicari del clan Greco di Ciaculli, tentarono di uccidere Pietro Torretta.
La reazione del capomafia dell'Uditore, ufficialmente un semplice produttore e venditore di agrumi, fu però implacabile.
Nel conflitto a fuoco, Conigliaro e Garofalo persero la vita mentre Torretta fu colpito alla rotula destra: di quella ferita avrebbe portato in seguito il segno nella camminata claudicante.
In seguito, il boss dell'Uditore - il cui nome apriva una lista di 54 mafiosi palermitani redatta dal giudice Cesare Terranova - si sarebbe dato alla latitanza.


I Carabinieri lo avrebbero arrestato la notte del 9 febbraio del 1964 in una modesta palazzina di via Monsignor Serio 9, a due passi dalla sua abitazione, ospite di un operaio: sotto al suo letto, vennero trovate decine fra pistole e fucili - alcune detenute con tanto di porto d'armi - e alcune richieste di assunzione già compilate all'ufficio personale della Nettezza Urbana di Palermo.
Nel suo reportage, Cesare Marchi inserì queste considerazioni consegnategli da Torretta a passeggio sotto i portici e nei pressi della locanda "Roma", alloggio del boss:

"Scriva sul giornale che io sono innocente e spero molto nel processo di appello.
La prego di leggere i fascicoli del processo e del ricorso in appello per la vicenda dei due cadaveri trovati a casa mia e sui convincerà che ho ragione.
Per il resto, ci pensi Iddio, quello che deciderà lui per me è sempre ben fatto.
Qui sono gentilissimi, gente ammodo, l'aria sana, mi piacerebbe portare su tutta la famiglia, tengo altri tre figli e la moglie a Palermo, ma occorrono molti soldi, hanno detto che sono ricco, no, signore mio, io non sono facoltoso.
Sono un agricoltore. Limoni, aranci, olivi. Ho pensato solo alla famiglia. Mai un divertimento, mai un caffè.
Non conosco la mafia, non so cosa significhi, parola mia..."

Pietro Torretta poche ore dopo l'arresto
avvenuto a Palermo nel febbraio del 1964.
Il boss dell'Uditore è ricordato come uno dei protagonisti
delle sanguinose faide tra clan per il controllo
dell'edilizia nella Palermo degli anni Sessanta.
La fotografia è tratta dal saggio di Giuseppe Fava
"I Siciliani", edito da Cappelli editore nel 1980

A Cittadella, la parabola criminale di Pietro Torretta volgeva già al termine.
A differenza di Giuseppe Palmeri e di tanti altri boss siciliani all'epoca al soggiorno obbligato lontano dalla Sicilia, sembra che Torretta abbia condotto in Veneto vita tranquilla, lontano dagli affari dei clan.
Il mafioso accusato di avere avuto in passato un ruolo da protagonista nella sanguinosa stagione palermitana delle Giuliette imbottite di tritolo e nell'uccisione di decine di persone, trasferì presto il soggiorno obbligato a Massa Lombarda.
Già sofferente di diabete, Torretta morì per un blocco renale nel luglio del 1975.
Un nipote, Francesco Bonura, nei decenni seguenti avrebbe occupato le cronache palermitane di quegli intrecci fra mafia ed imprenditoria edile che hanno stravolto il volto urbano della città: una coltre di cemento che ha cambiato anche il volto del quartiere Uditore, cancellando gli agrumeti di "don Pietro" e con essi il ricordo del suo ruolo di potente capomafia nella Palermo degli anni Sessanta. 








    

  

mercoledì 24 dicembre 2014

IL NATALE DI CORALLO A TRAPANI

I presepi trapanesi del secolo XVIII raccontano il volto più ricco e fastoso del clero e della società siciliana, ma anche l'opera di abili artigiani locali del tempo


"La presenza diffusa del costume di preparare presepi nelle chiese è ampiamente attestata, per il secolo XVII, in tutta l'Isola.
Da uno spoglio dei registri contabili di alcune chiese siciliane, risulta che presepi scenograficamente molto curati erano allestiti a Monreale, a Messina, a Palermo.
La visita del presepe, già in chiesa, in seguito avverrà nelle case private, ed era occasione di incontri con rinfreschi.
Questo uso del presepe in funzione di intrattenimento, insieme al suo trasformarsi in oggetto d'arte, spiega anche la sua evoluzione a partire dallo stesso secolo, in senso puramente arredatorio.
Rinchiuso dentro una bacheca di vetro, in siciliano 'scaffarata', forse dal catalano 'escaparata', il presepe veniva utilizzato nelle famiglie aristocratiche e borghesi come soprammobile di pregio".

Questa ricostruzione storico-sociologica della diffusione del presepe in Sicilia porta la firma di Antonino Buttitta e si legge nell'opera edita da Novecento "Coralli, talismani sacri e profani - Catalogo della mostra "L'arte del corallo in Sicilia", che si svolse a Trapani dal 1 marzo al 1 giugno del 1986.
Da quella pubblicazione sono tratte le immagini riproposte da ReportageSicilia.


Proprio Trapani fino al secolo XVIII fu una delle città più ricche dell'isola, grazie al suo porto commerciale ed allo sfruttamento di risorse locali come le saline, le coltivazioni di olivo, uva e grano e l'estrazione del corallo.
Proprio l'arte di abilissimi artigiani del corallo ha tramandato i più preziosi presepi della Sicilia, ovviamente riservati a ricche famiglie e chiese dalle rendite cospicue.
Il più noto fra quegli artisti trapanesi fu Giovanni Matera ( 1653-1718 ), che formò una scuola familiare ed una schiera di imitatori più o meno abili.
Altri maestri del presepe in corallo furono Andrea Tipa ( 1725-1766 ) e Antonio e Domenico Nolfo.
Nel periodo più tardo di questa forma di artigianato, il corallo ebbe un utilizzo sempre più ridotto; nelle composizioni del paesaggio, dell'architettura e dei personaggi del presepe fecero la loro comparsa l'avorio, la madreperla, l'alabastro, il marmo, il legno ed il sughero. 


lunedì 22 dicembre 2014

DISEGNI DI SICILIA


 GINO MORICI, saline di Trapani, 1949 circa

domenica 21 dicembre 2014

FIGURE FEMMINILI NELLA SICILIA RURALE D'INIZIO NOVECENTO

Volti e lavori di donne nell'isola del latifondo in quattro fotografie tratte dall'opera "Il Mediterraneo", edita da UTET nel 1922


"Il popolo siciliano serba, come pochi altri, gli antichi costumi, come mantiene la sua fierezza isolana ed una cotale gaiezza tradizionale.
Gli abitanti si raccolgono nelle città o in grosse borgate rurali, dove fuori dal palazzo baronale, qualche volta anche nelle splendide sale, mancano tutte, non dico le comodità, ma le cose più necessarie della vita moderna"

La Sicilia degli inizi dello scorso secolo ancora segnata dalla realtà del latifondo venne così descritta nel II volume dell'opera di Attilio Brunialti e Stefano Grande "Il Mediterraneo", edita da UTET nel 1922.
Il capitolo dedicato all'isola contiene numerose fotografie paesaggistiche e dei costumi locali; sono interessanti alcuni bozzetti che documentano la vita di personaggi della civiltà rurale, che all'epoca conducevano una vita lontana dai fasti urbani di Palermo o Catania.


ReportageSicilia ripropone quattro ritratti femminili, tutti ambientati in un contesto contadino: una donna ritratta a piedi nudi con in mano foglie di palma, una venditrice di latte di capra, una schiacciatrice di noci e tre portatrici di acqua.


La condizione femminile di quegli anni veniva così descritta dalla Guida Rossa del TCI del 1919:

"Nelle femmine, è caratteristico il gran numero della senza professione, quasi pari a quello della Sardegna e di gran lunga superiore a quello di molte altre regioni; forse tale altezza dipende da imperfetta comprensione della domanda fatta per il censimento ( del 1911 n.d.r ), ma è ad ogni modo indice di ristretta estensione del lavoro femminile, così nell'industria come nell'agricoltura; essa si riconnette anche con l'esiguo sviluppo dell'industria tessile nell'Isola..."



   

giovedì 18 dicembre 2014

PESCATORI E BAMBINI NELLA TRAPPETO DI DANILO DOLCI

Tre fotografie di Enzo Sellerio documentarono nel 1954 alcuni momenti di vita quotidiana nel paese dominato dalla miseria e dall'impegno del sociologo di Sesana

Pescatori palermitani di Trappeto nel 1954.
Le fotografie del post furono realizzate da Enzo Sellerio
e documentarono le disagiate condizioni sociali del paese
in cui Danilo Dolci diede vita al Borgo di Dio

Subito dopo avere partecipato all'esperienza di Nomadelfia - la comunità religiosa modenese fondata da don Zeno Saltini sciolta dal Sant'Uffizio nel febbraio del 1952 -  Danilo Dolci fece il viaggio decisivo della sua vita in Sicilia.
Trappeto - poverissimo villaggio di pescatori in provincia di Palermo - fu il suo primo approdo nell'isola ed il luogo di fondazione del Borgo di Dio, che accolse decine di bambini senza possibilità di istruzione ed assistenza familiare.
In seguito, il nome di Danilo Dolci sarebbe stato legato al suo impegno sociale privo di formalismi, capace di sollevare la protesta non violenta di pescatori e braccianti e di esporsi ai rischi degli scioperi della fame e delle denunce giudiziarie ( 17 i processi subiti per avere accusato l'allora ministro Bernardo Mattarella di rapporti con la mafia ).

"Quando sono venuto in Sicilia - avrebbe ricordato Dolci nel 1993 - non sono venuto per sostituirmi alla iniziativa locale.
Sono venuto per fare domande; lentamente, anno per anno; e ho scoperto un metodo che permette a ciascuno di crescere.
Era importante che ciascuno potesse fare domande, non solo io.
Ho scoperto gente intelligente che sapeva correre il rischio; imparava a organizzarsi, non sul vuoto, ma sull'interesse concreto"

Le fotografie riproposte nel post da ReportageSicilia possono essere considerato come una delle prime documentazioni sulla realtà di Trappeto nei primi anni dell'impegno di Danilo Dolci.
Gli scatti furono realizzati nel 1954 da Enzo Sellerio e sono tratti dall'opera "Enzo Sellerio. Fotografie 1950-1989" edita da Federico Motta Editore nel 2000.




Nella prefazione di Diego Mormorio, si legge:

"Le date dei ritratti più antichi sono 1956, 1957 e documentano bene il giro di scrittori, artisti, musicisti, attori in mezzo ai quali Sellerio si muoveva, non sempre per eseguire servizi commissionati, spesso per una vera relazione intellettuale.
Questa diventa un rapporto di solidarietà e di partecipazione politica nel caso di Danilo Dolci..."

Le prime due fotografie mostrano il duro lavoro quotidiano dei pescatori di Trappeto, che all'epoca uscivano in mare con una decina di vecchie imbarcazioni a motore.
La loro attività si scontrava con quella dei pescatori palermitani che a bordo di più moderni battelli e pescherecci utilizzavano l'esplosivo per pescare di frodo nelle acque del golfo di Castellamare.
Contro quella prepotenza - che lasciava vuote le reti dei trappetesi - Danilo Dolci organizzò alcune manifestazioni di protesta che radunarono insieme sulla spiaggia della Ciammarita pescatori e braccianti di Trappeto e Partinico.
La terza fotografia di Enzo Sellerio coglie invece gli sguardi di cinque bambini all'interno della scuola della comunità Borgo di Dio. Il riflesso dei volti sul tavolo lucidissimo e la ordinarietà della condizione di scolari contrasta con la povertà delle loro abitazioni, prive di luce e dei servizi igienici essenziali.      




Un mondo della Trappeto di allora così descritto nel febbraio del 1954 in un reportage del giornalista Franco Antonicelli:

"E' sul mare.
Il nome stesso ( frantoio ) indica che è un luogo di olivi.
Ci sono olivi, fichidindia e carrubbi.
Un posto certamente molto bello, come è bella tutta la Sicilia, con quel mare, quel cielo, ma folgorato da un male orribili: la miseria!" 



lunedì 15 dicembre 2014

SICILIANDO














"Mi liquideranno con due parole molto siciliane.
Fu un uomo intelligente e chiacchierato"
Vito Guarrasi

domenica 14 dicembre 2014

MISERIA, NOBILTA' E L'ARTE DI ARRANGIARSI NEL CENTRO STORICO DI PALERMO

Un reportage fotografico realizzato nel 1986 fra strade e vicoli da Giuseppe Piazza mostra il volto ancor oggi attuale della città
  
Avventori della trattoria "Carlo 5 da Filippo"
sul marciapiede di piazza Bologni,
sulla quale si affacciano i palazzi cadenti
della vecchia aristocrazia siciliana.
Le fotografie del post portano la firma di Giuseppe Piazza
e vennero pubblicate nel 1986 nel libro
"Sicilia al sole, curiosità ed aneddoti siciliani" edito da Brotto


Una passeggiata nei quartieri del centro storico di Palermo riserva ad un fotografo la possibilità di fissare immagini che raccontano "miseria e nobiltà" di una città che offre lo spettacolo della sua una splendida decadenza.
Gli scatti del post rientrano in questa categoria di reportage palermitano, che purtroppo - a dispetto del passare degli anni - rimane sempre simile a se stesso.
Le fotografie furono pubblicate nel 1986 nel saggio di Giuseppe Piazza "Sicilia al sole, curiosità ed aneddoti siciliani", edito da Brotto; le immagini portano la firma dell'autore - ingegnere, urbanista ed all'epoca docente di Scienze Geologiche a Palermo - che nella scheda di presentazione si definisce "fotografo dilettante".
Nella prefazione al volume, Piazza illustra l'origine del suo reportage rimandando a ricordi familiari:

"Ricordo della mia adolescenza è un viaggio al Nord con la mia famiglia. ( per inciso, geograficamente si definiscono Nord tutte le terre emerse oltre lo Stretto di Messina ).
Ho solo vaghi ricordi dei luoghi che allora visitammo, ma ciò che è rimasto sempre nitido nella mia memoria fu quando al ritorno, allorché si staglio all'orizzonte la sagoma del monte Pellegrino che sovrasta la nostra città, mio padre, che poco o nulla aveva detto durante tutto il viaggio, si illuminò d'immenso ed esclamò:
'Viva la Sicilia! Viva Palermo e Santa Rosalia!'...
Dopo anni, di ritorno da uno dei miei tanti viaggi, non appena ho visto delinearsi il monte all'orizzonte, mi sono riscoperto a pronunciare quella frase quasi per istinto:
'Viva Palermo e Santa Rosalia!'
Così, dopo avere pronunciato la frase magica, mi sono sentito finalmente a casa..."

Venditori di meloni 

Attraverso le fotografie del centro storico di Palermo, insomma, Giuseppe Piazza ha fissato l'immagine delle proprie origini, confermando un dato comune a molti siciliani: l'attaccamento viscerale alla natura dell'isola, ai contrasti fra l'orribile ed il sublime declinati dagli isolani in un'ampia gamma di virtù e di vizi, anche di natura criminale.
Così, il cuore urbano di Palermo - allora come ai nostri giorni - ha l'aspetto di un teatro di magnificenze passate, nel quale la vita quotidiana dei palermitani appare lontana dai fasti di quell'architettura.
Dinanzi alle facciate o fra i vicoli dei palazzi baroccheggianti gli avventori di bar, i venditori ambulanti ed i bottegai raccontano
storie di ordinaria sopravvivenza in quella che un tempo - nella prospettiva storica dei nostri giorni - fu impropriamente definita "Città Felicissima"

Bancarella del venditore di fichi d'India

Fra gli ambulanti palermitani, Piazza cita il venditore di meloni e quello di fichi d'India: 

"Forse sono rimasti in pochi a sopravvivere, in queste nostre città ormai diventate caotiche, e fra i pochi, ancora oggi vediamo agli angoli delle piazzette del centro, o lungo le strade di periferia, il venditore di 'Muluni'.
Egli improvvisa la sua bancarella alla meno peggio, come gli capita ed ostenta prezzi assolutamente concorrenziali o quasi sotto costo.
Così, nel periodo buono, si può comprare un melone pagandolo a sole 499 lire il chilo, portandosi con il melone, la certezza che è sicuramente di quelli buoni perchè, dopo essere stato battuto con le nocche della mano, il suono prodotto dimostra, a detta del 'mulunaro', che il melone è proprio buono e 'duci'...
Si racconta che il venditore di fichi d'India, per incrementare le vendite, abbia inventato il gioco della 'ficurinia con la spingula'.
Il gioco consiste nel segnare con uno spillo, ad insaputa dei clienti, un frutto fra quelli scelti da mangiare ed a colui che toccherà il fico d'India segnato, toccherà anche di pagare il conto.
Così, per rifarsi, chiederà di giocare ancora e il venditore di fichi d'India venderà qualche frutto in più..."

Una taverna per il consumo e la vendita di vini sfusi

Un'altra fotografia di Giuseppe Piazza fissa una taverna di un mercato popolare che espone l'insegna "casa del vino", luogo di incontro e di lunghe partite del "tocco" fra avventori che discutono per ore di problemi di lavoro e di beghe di quartiere. 

Ceste piene di lumache in vendita
nel mercato della Vucciria

Il tour fotografico palermitano presentato in "Sicilia al sole" aggiunse alla raccolta di immagini quella dei "babbaluci" - le lumache - in vendita allora come oggi al mercato della Vucciria.
"Per i 'babbaluci' - scrive Piazza - la migliore ricetta, se non la più tradizionale, è quella che li vede cucinati a base di 'agghia, ogghio e petrusino' ( aglio, olio e prezzemolo )".

Incrocio di fil di ferro e canne
utilizzate per l'asciugatura della banchiera in strada

Non mancano neppure i riferimenti alle abitudini domestiche tipiche anche di altre regioni del Sud Italia: l'asciugatura dei panni in strada, esposti al sole ed al vento lungo canne o fil di ferro stesi fra i palazzi:

"Sciorinare i panni non sempre risulta una operazione facile ed agevole.
Il più delle volte - scrive Piazza - occorre un saggio razionale sfruttamento tattico degli spazi aerei, che può nascere solo dall'allacciamento di solidi e duraturi 'fili' diplomatici con i vicini e dirimpettai.
Così, il lunedi, il mercoledi ed il venerdi, il diritto di sciorinare viene esercitato da un capo del 'filo', mentre negli altri giorni della settimana, quello stesso diritto viene esercitato dall'altro capo.
Gli avvenimenti straordinari, poi, bisogna pattuirli la sera prima, onde evitare l'interruzione dei rapporti diplomatici dei rapporti diplomatici e con essi dei 'fili' che li reggono"

Insegna di fortuna di un'officina meccanica
specializzata in "riparazioni" di ogni genere

Nel centro storico di Palermo sopravvivono infine ancora oggi meccanici, tornieri ed altri artigiani in grado di aggiustare, modificare o revisionare vecchie apparecchiature e parti meccaniche tecnologicamente superate dall'elettronica e dal digitale.
La fotografia di Giuseppe Piazza svela una di queste officine dall'aspetto assai poco professionale, ma dove si tramanda una delle vecchie arti palermitane: quella dell'arrangiarsi. 





   




mercoledì 10 dicembre 2014

DISEGNI DI SICILIA


SFERRACAVALLO 
disegno tratto da "Sicilia", Enciclopedia delle Regioni, 
Aristea 1956

LE SERATE DI FIABE E FILATI DELLE DONNE DI SORTINO

Immagini storiche di filatrici e tessitrici del paese siracusano.
Un testo di Sebastiano Pisano Baudo tratto da "Sortino e dintorni" del 1910 illustra quell'attività da tempo ormai scomparsa
  
Una cardatrice di Sortino, il paese dei monti Iblei
dove sino agli inizi del Novecento
era ancora diffusa la lavorazione domestica dei tessuti.
Le due fotografie in bianco e nero del post
vennero pubblicate nel 1926
nell'opera di Zino Ardizzone "Sicilia!",
edita da Remo Sandron

"Esperte nel filare e nel tessere, le sortinesi applicarono le lane fine e morbide alla formazione dei panni e fecero un'industria speciale dell''abbracio' o 'drappo naturale'.
Raffinarono altresì con maestria il canape ed il lino, e fabbricarono tele perfette, che in commercio portarono e portano il nome specifico di "Tele di Sortino".
La donna sortinese nel passato faceva tutto da sè: le camicie e le mutande erano filate dalle sue mani, indi tessute, imbianchite, tagliate, cucite, e così ogni altra masserizia, che non le riusciva fisicamente impossibile.
Ogni famiglia aveva il suo telaio.
La industria del filare e del tessere conserva sempre il suo pregio, e per tradizione muliebre e domestica è ancora esercitata in molte famiglie sortinesi, malgrado il perfezionamento delle macchine da tessere.
In Sortino non si può dire: 'Finì il tempo che Berta filava'.
Le donne del popolo filano riunite in diversi gruppi nella casa d'una vicina, specialmente nelle lunghe sere d'inverno.
Esse comprano in comune l'olio per la lumiera, che mettono nel centro della stanza, e intorno ad essa tirano la chioma alla rocca, mentre raccontano fiabe, ripetono versi e motti siciliani, e nel tempo di Carnevale si sfidano ad interpretare indovinelli. 



Queste riunioni, fatte per economizzare la spesa del lume e non disturbare il riposo dei mariti e dei figli nelle rispettive case, si chiamano 'serie'.
Di consueto mentre filano recitano in comune il rosario.
Prima della mezzanotte, la più autorevole dà il commiato, pronunciando con devozione: "sia ludatu e ringraziatu lu Santissimu Sacramentu', e tutti rispondono: 'santa bona notti'"

Così nel 1910 lo studioso di Lentini Sebastiano Pisano Baudo descrisse nell'opera "Sortino e dintorni" la condizione delle donne dedite alla lavorazione della tela nel centro siracusano.
La loro abilità risaliva indietro nei secoli, quando le giovani del paese dovevano essere in grado di assicurare il corredo familiare per i mariti - piccoli proprietari terrieri, massari, artigiani, pastori - e per i figli a venire.
Oggi di quella tradizione artigiana a Sortino - così pure della condizione quasi esclusivamente domestica delle donne - non rimane quasi più traccia.
Di conseguenza, si è quasi perso anche il ricordo dei vecchi telai e dei termini che ne descrivevano i pezzi: "cosci" ( brancali ), "pidacchi" ( càlcole ), "càssita" ( panchetta ), "pettine" ( pettine ) e "navitedda" ( spola ).


Un'immagine della Chiesa Madre di Sortino
da datare probabilmente
alla fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo.
La fotografia non ha attribuzione e venne pubblicata nel 1982
nell'opera "Sicilia" della collana "Regioni d'Italia"
edita da Edicultura Milano 

Nel 1978, l'etnografo Antonio Uccello ricordava ancora che "in genere i capi di biancheria che formano il corredo della sposa che proviene dal così detto ceto medio - possidenti, massari, artigiani - almeno fino alla fine dell'Ottocento ed i primi del nostro secolo risultano in gran maggioranza di tessuti di lana, o cotone, o lino, o canapa, lavorati in casa con telai tradizionali. E quindi con un impiego di manodopera in prevalenza femminile, soprattutto per la filatura e la tessitura". 
Le immagini delle filatrici di Sortino contenute nel post sono tratte dall'opera di Zino Ardizzone "Sicilia!", edita nel 1926 da Remo Sandron Editore.
In quel libro si legge un elogio di queste donne che oggi suona come un omaggio ad una condizione femminile del passato:
"Quantu si bedda misa a lu tilaru, 'nta stu tilaru chi vali un tisoru!" ( "Quanto sei bella seduta al telaio, in questo telaio che vale un tesoro" ).