Translate

venerdì 28 ottobre 2016

BAGNO A LIPARI CON VISTA SUI FARAGLIONI DI PONENTE


Con la semplice didascalia "Isola di Lipari, i Faraglioni di Ponente", una "Guidagenda Messina 1952" pubblicata da Edizioni Catri restituì un classico scorcio dei faraglioni di Pietra Lunga e Pietra Menalda.
L'obiettivo del fotografo fissò il ricordo di una giornata di mare calmo: uno specchio d'acqua appena increspato dai movimenti di tre nuotatori, veri protagonisti della scena.
On line, è possibile imbattersi in una cartolina che ritrae il medesimo luogo: presumibilmente, lo stesso scatto "ritoccato" però con l'eliminazione dei bagnanti. 

SICILIANDO











"Furono le pagine di Nino Savarese, in un suo opuscolo turistico sulla Sicilia nascosta, a farmi sentire il respiro della popolazione e il brivido delle piante ancora più folte e l'odore del pane mescolato all'afrore degli ovili, a figurarmi donne sui ballatoi, contadini accompagnati ai buoi, i castelli normanni, le zolfare fumose, le saline allucinanti, gli stazzi meridiani, con una chiarezza visiva e olfattiva: una solitudine attenta e operosa, fantasia e povertà.
Era questa la Sicilia concreta e faticosa, primigenia e umana, dove 'in certi punti di terra solitaria, la presenza di un albero, di un uomo, di un animale è circondata da uno strano stupore come se quelle cose volessero proporsi da esemplari della creazione'.
Era la Sicilia senza templi e senza ritrovamenti archeologici, stipata dalla natura e inestricabile dalle sue tradizioni, balenante di vulcani e di passioni ancor più vampanti, pudica e tracotante, generosa e vendicativa, ma italiana sino a un'estrema ragione che può essere mitica e cristiana, sofistica e cattolica, stoica e scettica"
Libero De Libero

giovedì 27 ottobre 2016

L'INFINITO ROUND DI PINO LETO TRA LE STRADE DELLA VUCCIRIA

L'ex campione europeo di pugilato Pino Leto
e la sua palestra di boxe all'aperto, in piazza Caracciolo.
Le fotografie del post sono di ReportageSicilia

Agli inizi del primo round, sotto il tendone di Partanna Mondello, la folla della Vucciria urlava "Leto, Leto, mandalo al tappeto!".
Il coro, scandito battendo i piedi sulle tavole di legno, si interruppe di colpo; ad ammutolirlo dopo nemmeno un minuto fu un violento montante al volto che mandò lui - Pino Leto - al tappeto.
Era la sera del 20 dicembre del 1989, quando il francese della Guadelupa Gilbert Delé mise fine alla carriera del pugile palermitano fino a quel momento campione europeo dei Superwelters.
Il montante raggiunse Leto forse alla nuca; o almeno, così lasciò intendere il boxeur di casa ai suoi delusi sostenitori.



Così, quando l'arbitro inglese John Coilye decretò il KO, dentro e fuori dal ring successe il parapiglia: una sorella di Leto tentò di aggredire Coilye, mentre lo staff tecnico di Delé riuscì a sfuggire ai "vuccirioti" solo grazie all'accorrere di poliziotti e carabinieri.
L'epilogo della carriera di Pino Leto è solo uno dei tanti episodi fuori dall'ordinario che hanno accompagnato la vita di un pugile cresciuto nel cuore di una Palermo disperata e alla difficile ricerca del riscatto sociale.



Molti amici d'infanzia dell'ex campione, oggi 61enne, sono caduti nel frattempo per sempre, uccisi da un colpo di pistola o da una dose di eroina; altri hanno frequentato regolarmente il carcere perché - racconta oggi Leto - "non hanno voluto o non hanno avuto la possibilità di far mangiare i propri figli in maniera onesta".
Dopo l'abbandono della carriera agonistica, lui stesso si è scontrato con le crudeli regole palermitane del gioco criminale: era il luglio del 1993 quando in corso dei Mille - da guardia giurata di una banca - uccise con un colpo di pistola un rapinatore 17enne.


Il ragazzo si chiamava Damiano Ciaramitaro; l'ex pugile gli sparò dopo avere ricevuto una coltellata che gli aveva procurato uno squarcio dallo zigomo della guancia sinistra sino al collo.
In ospedale Pino Leto fu ricucito con 215 punti di sutura, né fu quella l'ultima traversia che sembra porne la vita quotidiana costantemente sul filo del rasoio.
Nell'aprile del 2015, Leto è stato fermato dopo una rissa all'interno della Vucciria.
La vicenda gli è costata la perdita della licenza per il porto d'armi e il lavoro da guardia giurata.



Da allora, Pino Leto riunisce i ragazzi dello storico quartiere palermitano a scuola di boxe sulle "balate" di piazza Caracciolo.
Il suo desiderio è quello di potere disporre di uno spazio chiuso dove allestire una vera palestra:

"Voglio insegnare a questi ragazzi che ci può essere un modo di vincere, nella vita, secondo le regole dello sport.
La boxe - spiega Pino Letopuò essere lo strumento per fargli capire che c'é qualcosa oltre la povertà della Vucciria: un mondo da conoscere e dove cercare di essere migliori.
Ricordo ancora il primo incontro combattuto lontano da Palermo.
Per la prima volta misi piede su un aereo e per la prima volta feci colazione in un albergo: erano lussi che non avevo mai neppure immaginato..."




  

mercoledì 26 ottobre 2016

UN REPORTAGE AD USTICA NEGLI ANNI DEL FASCISMO

Gli accenni sulla presenza dei confinati politici e la vita quotidiana degli usticani in un racconto di Pino Fortini pubblicato da "Le Vie d'Italia" nell'aprile del 1927


Le "Case Vecchie", nella parte alta del paese di Ustica,
in una delle fotografie che nell'aprile del 1927
illustrarono un reportage su "Le Vie d'Italia"
 dello storico del mare Pino Fortini
Lo scorso luglio ReportageSicilia ha riproposto alcuni contenuti di un reportage pubblicato dal mensile del TCI "Le Vie d'Italia" nel luglio 1955, a firma di Flavio Colutta http://reportagesicilia.blogspot.it/2016/07/un-ritratto-di-vita-usticese-nel-1955.html.
All'isola palermitana lo stesso periodico dedicò un primo articolo nell'aprile del 1927, questa volta del saggista e storico del mare Pino Fortini.
Fortini - cui è stata intestata negli anni passati la Biblioteca Comunale di Isola delle Femmine, ricca dei suoi volumi - giunse ad Ustica in un giorno di estate, forse nell'anno precedente alla pubblicazione dell'articolo.


Il piroscafo "Ustica", uno dei tre vapori
di 200 tonnellate di stazza utilizzati negli anni Venti
per i collegamenti fra Palermo, Ustica, Pantelleria e le Pelagie
La notazione temporale è importante per comprendere anzitutto il riferimento ed il senso di alcune considerazioni riguardanti la presenza nell'isola di una trentina di detenuti politici, lì confinati in quegli anni dal fascismo: fra gli altri, Rosselli, Parri, Romita, Bencivegna, Tucci, Bordiga, Silvestri, Bacchetti, Maffi, Ciccotti, Bibi e, naturalmente, Antonio Gramsci.




Due vedute dell'edilizia usticana
riprese dalla Cala di Santa Maria

Proprio il segretario del Partito Comunista d'Italia sarebbe sbarcato ad Ustica pochi mesi dopo la visita di Pino Fortini, trascorrendovi - sino al 20 gennaio del 1927 - 44 giorni.
La prosa di Fortini mostra così si allinearsi a quella segregazione politica voluta dal regime:  

"Quando Ustica, è talvolta, separata dal mondo magari per un'intera settimana e quando le onde del canale sono spesso inclementi, i viaggiatori sono quasi soltanto costituiti dal triste carico dei coatti e dalle loro scorte...
Ecco, intorno a noi, rumorosi gruppi di gente scamiciata che calza ciabatte, veste panni di color marrone rigati di azzurro, ed adopera i più svariati dialetti italiani.
Ustica è sede di una numerosa - fin troppo numerosa - colonia di coatti, molti dei quali si prestano, per poco prezzo, ad umili e faticosi lavori.
Colonia avversata, da gran parte della popolazione, per alte e valide ragioni di ordine morale, ma ritenuta da qualcuno, a quanto mi si dice, un male utile perché adibita a lavori cui ormai più non si presterebbero i nativi del luogo"


Un ritratto collettivo di usticani
fra la spiaggia e il belvedere di Cala Santa Maria
Difesa a parte dell'oppressione politica, il reportage di Fortini è comunque ricco di osservazioni che raccontano molti altri aspetti della realtà usticana del tempo.
Anzitutto quello dei collegamenti dell'isola con Palermo.
Emerge qui la passione del cronista per la navigazione navale:

"Il postale, uno dei tre piccoli piroscafi sulle 200 tonnellate che, alternandosi, collegano Ustica e Pantelleria e le perdute Pelagie, manovra rapidamente, colla sveltezza della lunga consuetudine, per uscire dal porto.
Uno, due mugghii! e non appena in franchia segue la costa popolata di case finchè, poco dopo oltrepassata la bianca torre dell'Arenella, mette la prua al largo con rotta 'Nord una quarta a Nord-Ovest'.
La seguirà fedelmente al placido trotto dei suoi dieci nodi all'ora, e vedrà, dopo qualche ora di mare, salire, gradatamente, su un monotono sfondo nero di lave e di rupi vulcaniche, vivaci toni gialli di stoppie e di sterpaie, e lo squillante verde dei campi di un altipiano; finchè, dopo 37 miglia, rullerà lievemente, trattenuto dalle sue ancore, davanti ad un severo paesetto"


Ancora una veduta di Cala Santa Maria
dallo sperone roccioso nei pressi del fortilizio del secolo XVIII
costruito a difesa dalle incursioni barbaresche
Lo sbarco del giornalista offre l'occasione di sottolineare la precarietà dell'attracco usticano di allora:

"Un pontiletto di legno, raso sull'acqua e formato di assi squadrate alla brava, dovrebbe facilitarmi il contatto con la terra: ma mi bagno lo stesso perchè esso è quasi sempre inondato dalla risacca.
Chè la Cala è assolutamente indifesa; un moletto in corso di costruzione fu, anzi, pochi anni or sono, spazzato via da una tempesta"

Il racconto di Fortini abbonda quindi di notazioni sulle vicende dell'isola e sull'evoluzione degli insediamenti umani. 
Si parte ovviamente all'identità archeologica più remota; quella narrata dagli storici dell'antichità e riferita alla tragica sorte di 6.000 mercenari cartaginesi che ad Ustica morirono di inedia dopo esservi stati deportati a seguito di un fallito tentativo di rivolta:

"Ed a proposito di fenici, non ci è dato anche forse di congetturare, in base ad un passo di Tucidide, che essi siano stati i primissimi abitatori di Ustica?
E non fu addotta a sostegno di tale ipotesi la scoperta, fatta dai primi coloni dell'isola ( 1762 ), di una camera sepolcrale giudicata di indubbio carattere fenicio, posta alle falde della Falconiera, camera di cui oggi non c'è più traccia?
Ma ai fenici seguirono indubbiamente i romani, come risulta da mosaici, piatti, utensili domestici, monete trovate nell'isola nonché da qualche iscrizione...
... Il Fazello, scrivendo verso al metà del secolo XVI, aveva già notato che Ustica in effetto era 'omnino deserta' e comodo punto di appoggio dei pirati barbareschi.


Il "Piano di Tramontana",
diviso nei rettangoli delle diverse coltivazioni agricole
Ma il 14 marzo 1761 veniva proclamato il seguente bando del vicerè Fogliani:
'Intento sempre il Re Nostro Signore ad aumentare il commercio sì interno che esterno di questo suo regno di Sicilia, dopo avere considerato quanto pericolosa resa siasi la navigazione del mare che tra questo Regno sudetto e quello di Napoli si media a causa della quantità dei legni corsari barbareschi, che di continuo l'infestano per il sicuro ricovero che trovano ad Ustica ha risolto di popolar la predetta isola con naturali di questo Regno.
Già di fatti l'ingegnere Valenzuola, appositamente inviato, nel 1759, nell'isola ne aveva rilevato la pianta ed esaminato i luoghi più adatti per disporvi le fortificazioni.
Ma non appena - si può dire - avuta notizia del bando, una sessantina di abitanti di Lipari, nelle Eolie, si recavano ad occupare Ustica.
Le prime abitazioni furono costruite in quella che è attualmente la parte più alta del paese, denominata appunto 'Case Vecchie', e dove si trova anche ingente numero di giganteschi massi ovoidali di lava basaltica, evidentemente rigettati dai sovrastanti crateri.
Ora, in quel gruppo di casette nere, ormai soltanto adibite a pagliaio, tagliate da viuzze e tutte raccolte intorno ad una rustica cappella, anche essa non più adibita al culto, si svolse in una chiara notte del 1762, mentre - secondo una tradizione locale inedita - si festeggiava uno sposalizio, una terribile strage.
Chè i barbareschi, già respinti una volta, trovarono l'occasione propizia per prendere la rivincita, misero tutto a sacco e trassero in schiavitù i superstiti.
Il governo fece allora compiere subito le fortificazioni, cosicchè l'isola, qualche anno dopo, si ripopolò stabilmente sempre traendo il fondo della sua popolazione dalle Eolie, come lo dimostrano anche le particolarità del dialetto usticano che sono naturali alla parlata di quelle isole" 


Ancora una veduta del "Piano di Tramontana"
dal piazzale del Semaforo

Quindi il reportage analizza la vita di pescatori e contadini raccolti intorno alla piccola Cala di Santa Maria, luogo che Pino Fortini definisce "di un intensissimo azzurro".
Segue una documentata descrizione delle caratteristiche agricole dell'isola:

"Rari pescatori, una quarantina circa, su poche e piccole barche, sfruttano incompiutamente le acque che circondano Ustica; mentre loro confratelli della costa sicula vengono saltuariamente a supplire la deficiente iniziativa locale e catturare mediante il paziente e pesante lavoro dei tremagli ( quasi non adoperati nell'isola ) copia di triglie; frugano i recessi degli scogli con la fiocina; adoperano - avversati - la lampara; ricavandone anche, come due 'sacoleva' greci tornati per la prima volta quest'anno, un buon raccolto di spugne sulla vicina secca della Colombaia...
... A cavalcioni di un rustico basto, le gambe penzoloni, mi avvio, in compagnia di gentili amici, al semaforo, posto sulla cima Guardia di Mezzo, a 230 metri.
E su, dunque, per un ripidissimo sentiero che si snoda sul fianco della collina, incassato a volta fra rocce, strapiombante, assai più spesso, nel vuoto.
A tratti mi appare la grande fantasmagorìa della pianura, detta 'di tramontana', divisa, come uno scacchiere, in campi bel coltivati coi laghi d'oro delle stoppie, il picchettìo giallo dei 'melloni' fra il verde delle fronde e lo sfondo cupo della terra nerastra, il verde vivo dei pampini delle vigne e le numerose casette coloniche ( tutte d'un tipo che danno su un rustico loggiato sorretto da colonne ) nelle quali, d'estate, vanno a rifugiarsi gli abitanti dell'isola...
... La rivelazione è costituita, per me, dalla fertilità del suolo, affatto insospettata dal luogo usuale di approdo.


Il bianco faro di Ustica
e il contrasto con la tonalità scura
della roccia vulcanica
La produttività dell'isola, quando essa fu ripopolata, nel 1762, si manifestò addirittura straordinaria per il lungo riposo della terra.
'Il piano è fertilissimo - aveva affermato anni prima ( 1759 ) l'ufficiale borbonico siracusano Andrea Pigonati - abbenchè in oggi imboschito nulla meno del monte e pieno di oleastri'.
E, secondo il Russo, i primi arrivati disboscarono subito 'una certa porzione di terra, ove vi seminarono frumento ed altri legumi e ne videro con meraviglia il raccolto, facendo salme due e tumoli quattro di frumento ogni tumolo di terra'
Prodigiosa fertilità della quale il geologo francese Deodat De Dolomieu, nel 1781, dà le ragioni:
'le terre végétative est une argille rouge-noiratre', formata da ceneri e dall'alterazione delle lave, trachitiche in genere, che decompostesi sotto l'azione degli agenti atmosferici, davano ai campi gli elementi più essenziali di quella fertilità che il suolo dell'isola conserva anche oggi, benchè assai diminuito.
Il Dolomieu ritenne anche, non so con quanto fondamento, l'isola adatta alla coltivazione del cotone.
In effetto, essa produce grano e frutta e legumi, fra cui fave di qualità assai rinomata che si esportano con qualche larghezza, ed altro ancora.
Ma niente agrumi; ogni proprietario tiene qualche alberetto di limoni soltanto per uso proprio, chè scarseggia l'acqua per irrigarli.
Mancano difatti - lo ripeto - le sorgenti e quasi ogni casa è fornita di cisterne.
Esistono anche delle cisterne comunali ed una, dalla capacità di 96.000 ettolitri, è stata costruita dal governo.
Nelle campagne, alcune cavità del suolo servono a raccogliere l'acqua piovana e ad abbeverare il bestiame..." 



All'interno della chiesa madre, Fortini notò il pavimento ricostruito in marmo nel 1886 grazie a quella che un'iscrizione descriveva come la "pietà degli isolani abitanti in America e in Patria".
E' l'occasione per ricordare la difficile emigrazione sofferta da Ustica, da isola piccola ad un'isola più grande e dal mar Mediterraneo verso l'Atlantico:

"Già verso il 1850 l'aumento della popolazione, troppo rapido rispetto alle risorse dell'isola, aveva indotto un nucleo di disperati a cercare di stabilirsi in Sardegna.
E ne furono impediti dal governo borbonico.
Ma poco dopo più vasto orizzonte offriva, agli usticani, New Orleans, negli Stati Uniti, ove, nel 1854, cominciarono ad emigrare le prime famiglie".



In quella stessa chiesa che celebrava la generosità degli immigrati lontani dall'isola, Fortini notò infine anche una lapide dedicata al ricordo dei due fratelli Di Bartolo.
In uno sforzo di memoria, lo storico del mare identifica il padre in Vincenzo Di Bartolo, già allora dimenticato pioniere della navigazione siciliana nel mondo ( ed a cui Salvatore Mazzarella nel 1987 ha dedicato per Sellerio il saggio "Vincenzo Di Bartolo da Ustica" ): 

"Scandisco lentamente questo cognome in uno sforzo di memoria.
Ma sì - nota Fortini - il padre, Vincenzo, non è forse quell'audace marinaio che, nei giorni, come dicono gli inglesi più di noi memori delle loro glorie marinare - 'Of Wooden ships and iron men' - mise alla vela da Palermo il 28 ottobre 1838 col brigantino 'Elisa', piccolo scafo equipaggiato da 15 marinai e, primo fra i siciliani e fra gli italiani, diede fondo a Sumatra, dopo avere toccato Boston, nel luglio 1839, per iniziarvi il traffico delle spezie?
E non concesse a lui Ferdinando II, ambito ma unico compenso, la nomina di 'alfiere di vascello in soprannumero' nella Real Marina.
Ne chiedo al mio cortese accompagnatore; altri, forse, nell'isola ricorderà; ma egli non rammenta affatto.
E da questa smemoratezza mi sembra d'un tratto illuminata la decadenza della navigazione e delle industrie pescherecce nell'isola"












giovedì 20 ottobre 2016

DISEGNI DI SICILIA


ERMANNO GAGLIARDO, "Vecchio costume di donna siciliana"

L'ACCORDO SUL REMO DEL PESCATORE CATANESE


La fotografia riproposta da ReportageSicilia porta la firma di Gaetano Armao e venne pubblicata nel settembre del 1954 dalla rivista "Sicilia", edita dall'Assessorato regionale al Turismo.
L'immagine venne efficacemente accompagnata da una didascalia intitolata "Remo come chitarra": l'anonimo pescatore seduto a prua della barca sembra in effetti maneggiare il remo come la tastiera di una chitarra.
La fotografia di Armao illustrò un racconto del giornalista e scrittore catanese Titomanlio Manzella ( Catania, 1891-Roma, 1966 ), con il titolo "Pescatori catanesi".
Nello scritto, Manzella rievoca l'ambiente, i riti e la cultura popolare di un mondo oggi quasi del tutto scomparso in buona parte delle coste siciliane.

"La barca - raccontava Manzella - è l'anima della casa del pescatore.
E' creatura viva tra i vivi e fin dal suo nascere viene trattata come un essere animato.
Essa riceve il battesimo con una solennità che molte volte supera quella del battesimo dei figlioli, e alla quale prendo parte più numerose e più significative persone.


Fin da quando la barca esce dal laboratorio del carpentiere per essere condotta in quello del 'calafatore', donne del parentado e amici del padrone la accompagneranno facendo voti per il suo avvenire.
Poi verrà accompagnata dal pittore, e infine con grande e rumorosa solennità, in chiesa.
Questa volta donne e compari sfoggeranno i loro migliori vestiti.
In chiesa riceverà il battesimo, cioè il nome che porterà sempre scritto a prora ben visibile, in nero, su sfondo bianco.
Dalla chiesa sarà addirittura una corsa, fatta scivolando su i 'palancati', che l'allegra comitiva, man mano che la barca avanza, toglie di dietro e rimette sul suolo davanti alla lucida prora ansiosa di tuffarsi.
Le donne in tutta la contrada prenderanno con gioia parte all'allegria generale e saluteranno la barca cospargendone il cammino di pugni di sale, che avrà la forza di tenere lontano il malocchio, e pronunceranno preghiere e scongiuri, mentre agli uomini della ciurma, intenti a far volare la barca su i 'palancati', offriranno biscotti e caramelle" 


sabato 15 ottobre 2016

L'ASSEDIO EDILIZIO DI VILLA RESUTTANO TERRASI

La difficile sopravvivenza urbana palermitana di una delle più importanti dimore monumentali della piana dei Colli


L'ingresso monumentale di villa Resuttano Terrasi, a Palermo.
Il complesso monumentale del secolo XVIII
negli anni Sessanta e Settanta ha subìto
una pesante aggressione della speculazione edilizia.
Le fotografie del post sono di ReportageSicilia

"Una marea di cemento armato avanza, senza pietà, cancellando quelli che un tempo furono le 'flore' e le 'florette', i boschetti di aranci e di limoni, inglobando le antiche dimore patrizie, distruggendo l'ambiente che vide le fastose 'villeggiature' settecentesche dell'aristocrazia palermitana.
Rimangono questi nobili edifici, negletti ed in abbandono, in un ambiente che non è più il loro, costretti a coesistere con pretenziose e false architetture così dette 'funzionali', privati di quella suggestiva cornice naturale che, mirabilmente, ne esaltava la semplice architettura"







Con queste parole lo storico Rosario La Duca denunciò nel giugno del 1964 sulle pagine della rivista "Sicilia" ( edita dall'Assessorato Regionale al Turismo ) l'attacco della moderna edilizia residenziale palermitana alle storiche ville della piana dei Colli. 
L'intervento di La Duca - in un saggio intitolato "Ville settecentesche nella piana dei Colli" - fu all'epoca una delle poche voci sollevate dagli ambienti intellettuali locali contro la colata di cemento riversata sul patrimonio ambientale ed architettonico cittadino; un silenzio incomprensibile e colpevole, certo non meno grave rispetto alle responsabilità di chi - politici e mafiosi - quello scempio misero materialmente in atto.



Con il passare dei decenni, l'occhio del palermitano si è ormai assuefatto al soffocamento edilizio sofferto da molte ville della piana dei Colli ( detta ancora "chianu ru vintu" dagli anziani della zona, nel ricordo delle brezze marine che un tempo spazzavano liberamente la pianura sgombra di palazzi ).
Le immagini di ReportageSicilia restituiscono il volto odierno di Villa Resuttano Terrasi, fra il quartiere di Resuttana-San Lorenzo e via Ausonia.
Nel 1964, La Duca considerò proprio questo edificio fra i più importanti della piana dei Colli ed in grado di "reggere molto bene il confronto con le più sontuose ville della campagna di Bagheria".



Quella valutazione rende più stridente il contrasto fra ciò che rimane dell'originario impianto della costruzione - privato del parco, un tempo abbellito da un vasto giardino all'italiana - e la bruttezza della moderna edilizia che ne assedia il complesso architettonico. 
Spiccano per raccapriccio costruttivo gli edifici delle Poste ed una gigantesca torre-residence di colore melanzana: visioni di una Palermo capace nel recente passato di calpestare con indifferenza pezzi irripetibili del suo patrimonio storico-monumentale.


Una celebre illustrazione di villa Resuttano Terrasi
e del suo parco pubblicata nel 1761 nell'opera di Arcangelo Leanti
"Lo stato presente della Sicilia"



domenica 9 ottobre 2016

SICILIANDO











"In Sicilia sono rimasto tre giorni.
Nessuno, almeno lo spero, vorrà ritenermi tanto sciocco se accogliendo un desiderio della 'Stuttgarter Zeitung', scrivo qualcosa su queste colonne, da volermi atteggiare a conoscitore della Sicilia.
Intanto il soggiorno mi ha chiarito questo: che mi varrà la pena di conoscere davvero la Sicilia, un giorno, e non soltanto nel suo passato.
Ad esso evidentemente la fantasia torna di continuo.
Risultato di tante e così varie considerazioni: non conosco plaga alcuna pregna di storia come la Sicilia.
Potrà sembrare espressione temeraria in bocca a chi viene da Roma, da un luogo cioè che attraverso duemila anni di storia ha dimostrato il più grande potere formativo politico e spirituale, ed è rimasto polo o centro anche in tempi di impotenza politica.
La storia di Sicilia possiede, se si può dirlo, un fascino particolare per quei cambiamenti di dominio a cui l'Isola è rimasta sempre esposta, per la sua posizione, per la sua fertilità: esca alle brame di conquista esterne e poi anche teatro di aspre lotte interne per il potere, tra città e città"
Theodor Heuss 

PASSAGGIO E PAESAGGIO DI TARGA FLORIO





Una mattina di almeno ottant'anni fa, l'anonimo autore di questa fotografia fissò il passaggio di una vettura nel paesaggio di un'edizione della Targa Florio.
Dopo avere assistito alle partenze della gara, il fotografo si mosse dalle tribune di Floriopoli verso il paese di Cerda: una passeggiata di pochi chilometri, seguendo il sinuoso tracciato di un circuito fatto più di polvere che di asfalto.
Scelta una collinetta occupata da un gruppetto di uomini e da un bambino - tutti coperti con cappelli e soprabiti, a protezione dal sole di maggio - iniziarono gli scatti dei passaggi dei concorrenti.
In quel punto, l'orizzonte della campagna cerdese offriva la vista di una masseria, e, più lontane, delle strutture di Floriopoli.
L'inquadratura riproposta da ReportageSicilia venne pubblicata nell'aprile del 1963 dalla rivista dell'ACI "l'Automobile", alla vigilia della 47a edizione  : oggi, è la memoria dell'indissolubile rapporto fra la Targa Florio ed il paesaggio madonita che l'ha ospitata per buona parte dello scorso secolo.
Un simile accostamento fra cimento della meccanica ed attrattiva della natura venne così riassunto nel 1931 dalla rivista del TCI "Le Vie d'Italia":
  
"Questa corsa, che risale al 1906, si svolge fra gli incanti del paesaggio siciliano nella stagione più bella dell'anno, nella famosa primavera siciliana"

sabato 8 ottobre 2016

MEZZO SECOLO DI SCONCERTO E VERGOGNA SULL'AUTOSTRADA A CARINI

Una pagina di Roberto Alajmo e una breve cronaca dello scempio edilizio dei "villini" cresciuti fra punta Raisi e la periferia di Palermo 


Un clamoroso esempio di abusivismo edilizio
sulla costa di Carini.
Le fotografie del post
sono di ReportageSicilia
"Guardando a sinistra, verso il mare, più o meno all'altezza di Carini vedrai una bidonville costruita direttamente sulla spiaggia.
Lo stato di abbandono in cui versano le baracche, il fatto che sembrino costruite con materiali raccolti in una discarica, che siano corrose dalla salsedine, tutto lascia pensare che si tratti di un quartiere abusivo per necessità.
Gente costretta a vivere in condizioni da terzo mondo.






Magari sei autorizzato a immaginare che qualcuno avrà fatto il furbo trasformando la necessità in virtù: dovendosi costruire un tetto sotto il quale dormire, tanto valeva costruirselo in riva al mare.
E invece no, nessuna necessità abitativa: queste baracche sono le seconde case degli abitanti della Città.
Le case dove la gente si trasferisce d'estate per fare la villeggiatura.
A suo tempo vennero costruite secondo le regole del far west"






Con queste indicazioni ad un immaginario viaggiatore diretto per la prima volta a Palermo dall'aeroporto "Falcone e Borsellino", Roberto Alajmo descrive in "Palermo è una cipolla" ( Laterza, 2005 ) l'escrescenza abusiva di "villini" e villette sul lungomare Cristoforo Colombo di Carini.
La cortina edilizia - fra edifici ancora abitati ed altri abbandonati, fra cumuli di macerie e recinti di mura utilizzate come discariche abusive - nasconde la vista del mare lungo il tratto autostradale fra punta RaisiCapaci.
Alajmo coglie nella precarietà costruttiva di quelle abitazioni nate sulla scogliera o sulla sabbia  l'identità di una storica "inconcludenza" palermitana.
Di certo, la bidonville cresciuta su un tratto di costa che mezzo secolo fa prese la beffarda denominazione di "Riva Smeralda" ha finito col cancellare uno dei più godibili tratti di litorale palermitano.




Gli anziani di Carini ricordano ancora quando il mare abbondava di aragoste ed arselle; e del tempio in cui la terra - sin quasi ai tratti sabbiosi della riva - regalava uve che producevano un profumatissimo zibibbo.  
Le prime costruzioni furono edificate già pochi mesi dopo la costruzione dell'autostrada che a partire dai primi anni Sessanta collegò Palermo con l'aeroporto di punta Raisi.
Sembra che i paladini della nuova impresa edilizia avessero ricevuto il via libera dall'amministrazione di Carini, grazie all'appoggio di notabili e burocrati degli uffici all'epoca delegati alla promozione del turismo a Palermo.
Fra i primi proprietari delle nuove "seconde case" al mare non mancarono rispettabili professionisti e qualche magistrato.




Sia l'Anas che il Demanio Marittimo rimasero inerti dinanzi all'arbitraria crescita edilizia; che, col passare degli anni - e in assenza di un'adeguata rete fognaria - diventò sempre più invadente, inquinante e di bassa qualità costruttiva.    
Negli anni passati, il Comune di Carini ha avviato una serie di demolizioni.
Le ruspe hanno però lavorato in maniera saltuaria, buttando giù una piccola parte di costruzioni e senza rimuoverne le macerie.
L'inconcludenza degli interventi ha così avuto l'effetto di rendere i ruderi un perfetto deposito incontrollato di rifiuti.
Alcuni sindaci di Carini hanno poi fermato gli abbattimenti per un semplice tornaconto elettoralistico.


Una non comune fotografia della costa
di Carini scattata da Italo Zannier.
L'immagine venne pubblicata nell'opera "La Sicilia"
della collana "Coste d'Italia", edita nel 1968 dall'ENI 

Lo scempio ambientale e paesaggistico continua così ad essere uguale a quello descritto undici anni fa da Roberto Alajmo.
Solo che oggi il degrado strutturale degli edifici e il loro utilizzo come discarica si sono aggravati, tra lo sconcerto di chi per la prima volta si muove dall'aeroporto alla Città  e la vergogna che ancora turba la coscienza di qualche palermitano.       

mercoledì 5 ottobre 2016

LA LONTANA ETA' DELL'ORO DELLE ARANCE DI PATERNO'

Un reportage di Vincenzo Musco pubblicato nel 1957 dalla rivista "Sicilia" rievoca la ricchezza produttiva e commerciale di bionde, sanguigne, moro e tarocchi paternesi


"Riposo nell'aranceto" ( 1954 ),
opera di Giuseppe Migneco 

Ricordava Aldo Pecora in "Sicilia" ( UTET, 1974 ) che lo sviluppo dell'agrumicoltura siciliana, bloccato dalla seconda guerra mondiale, riprese insolito vigore dopo il 1945.
Aggiungeva Pecora che "le superfici agrumetate si erano raddoppiate lungo l'arco di cinquant'anni, fra il 1880 ed il 1930; ed ora più che si raddoppiano in poco più di vent'anni: 38.000 ettari in coltura specializzata nel 1946, 48.000 nel 1957, 84.500 nel 1969".
Luogo di produzione e centro commerciale degli agrumi - ed in particolare delle arance - fu allora e continua ad essere oggi Paternò.
Una descrizione dell'attività di raccolta e di esportazione del frutto negli anni Cinquanta si deve ad un reportage del giornalista e scrittore Vincenzo Musco ( Niscemi 1895 - Roma 1963 ).


"Raccolta delle arance" di Giuseppe Migneco ( 1957 )
Con l'abituale pseudonimo di Giacomo Etna, Musco - la cui vita culturale si sviluppò a Catania e in numerosi Paesi esteri di cui scrisse in saggi, racconti ed articoli - raccontò delle arance di Paternò in un articolo pubblicato dalla rivista "Sicilia" nel luglio del 1957: 

"L'arancio è venuto in Sicilia dall'oriente.
Per giungervi ha dovuto fare un lungo viaggio, costeggiando l'Africa, sostando in Portogallo e in Spagna; ma quando è arrivato, nel Seicento, nell'isola, si è sentito come in casa propria e ha preso radici ovunque, riscaldandosi e rinnovandosi al tiepido sole mediterraneo.
Se incantevoli sono gli aranceti della Conca d'Oro e di Palagonia, qualche cosa di regale hanno quelli di Paternò su cui vigila la mole quadrata del castello.
Essi si stendono sopra uno sperone basso del vulcano da tempo non funestato dalle eruzioni.



Le antichissime lave lavorate dalle intemperie e dalla paziente fatica dell'uomo sono diventate feconde e offrono agli eleganti alberetti una terra ricca di humus per cui i frutti acquistano un sapore che altrove non hanno.
Qui maturano le qualità pregiate come il 'biondo' il colore della cui polpa di un giallo dorato sono macchiate di striature rosso-cupo; il 'sanguigno' dalla buccia dorata e dalla polpa di rubino; il 'moro' dal rosso tanto cupo da sembrare quasi nero.
Dal 'biondo' al 'moro' il gusto diviene sempre più squisito fino a carezzare la gola con un succo che è ambrosia.
A novembre maturano i voluttuosi 'tarocchi' dalla buccia rigata da filettature d'oro; a maggio i 'calabresi', ultima offerta dell'Etna alla gioia delle mense.
Tra gennaio e febbraio trionfa il 'vaniglia' dal sapore dolcissimo e dalla buccia così delicata che non consente il trasporto ai mercati lontani.
La raccolta delle arance si svolge più intensa tra dicembre e i primi tre mesi dell'anno ed ha la solennità di un rito.
Si comincia coi 'manderini' che allietano i giorni di Natale e ornano, appesi a festoni di spinasanta, i presepi e le icone.
I raccoglitori con la berretta catalana pendente sulle spalle appoggiano leggere scale a pioli ai tronchi, e, muniti di panieri foderati all'interno di tela di sacco per attutire la caduta dei frutti, vi salgono su.



I frutti vengono tagliati ad uno ad uno e lasciati cadere nel paniere che pende da un piolo della scala.
Appena il paniere è colmo, un garzoncello ne porge un secondo al raccoglitore che continua la sua opera.
Quando ne sono colmi sei, il ragazzo se ne carica due coppie agganciate tra loro sulle spalle e s'infila gli altri, per i manici, nelle braccia e corre a depositarli nelle spiazze chiamate 'scalo'.
Gruppi di uomini seduti a gambe divaricate su sgabelli bassi e su seggiole senza spalliera, attingono a tre o quattro le arance dal paniere che hanno davanti, con un'affiliata cesoia recidono da esse i peduncoli, con i quali i raccoglitori le hanno staccate dai rami.
Così il frutto è preservato da urti che potrebbero minacciarne l'integrità durante i lunghi viaggi.
I 'peduncolari', selezionano anche i frutti secondo la loro qualità ed il loro stato di maturazione.
Con un gesto leggero, lanciano le arance nelle brillanti e odorose piramidi che si formano attorno a loro.
Altri operai le raccolgono e le depongono, secondo la loro qualità, in ceste foderate anch'esse di tela di sacco o in 'coffe' di giunco che vengono caricate su autocarri e carrette e trasportate ai magazzini di Catania.
Quivi le brune e agili 'aranciare' lavano i frutti e li asciugano nelle madie, passandole alle svelte 'incartatrici' che le avvolgono in quadratini di carta velina a fiorami vivacemente colorati.
Altre mani le depongono nelle cassette tra strisce di carta e così partono verso le navi che attendono nel porto o verso la stazione ferroviaria.



Un'aura di festa corre dai giardini alle case coloniche, dai magazzini in cui le arance subiscono l'ultima tolettatura ai cortili in cui si allineano le cassette e borbottano gli autocarri che le portano lontano.
La Sicilia manda il suo sole nei brumosi mercati di Londra e di Liverpool, nelle nere banchine di Amsterdam e di Oslo.
'Queste sono arance di Paternò' si dice e si sogna il paese appollaiato, come un gatto, sotto la bocca fumante del vulcano.
In alto, verso Zafferana, Maletto, Nicolosi, cade la neve.
In basso gli aranceti fioriscono al piagnucolio delle ciannamelle e al borbottio dei riottoli che saltellano verso la valle del Simeto"

Con la commercializzazione in Europa degli agrumi prodotti in California, Cile, Turchia, Algeria, Marocco, Grecia e Sudafrica, già agli inizi degli Settanta l'arancia di Paternò fece registrare una consistente crisi di mercato.
Oggi, le esportazioni verso Londra, Liverpool, Amsterdam od Oslo - solo per ricordare le città citate da Vincenzo Musco nel 1957 - sono solo un lontano ricordo. 
I produttori di Paternò, adeguandosi ai prezzi delle arance non siciliane, non riescono a vendere ad un prezzo superiore ai 10 centesimi al chilogrammo.



In pratica, le spese di produzione vengono recuperate a stento e la tentazione di abbandonare la coltivazione delle varie qualità si fa strada fra un numero crescente di piccole e medie aziende.
Di contro, malgrado l'istituzione di consorzi e di un distretto produttivo, mancano reali iniziative in grado di valorizzare il prodotto locale http://catania.meridionews.it/articolo/40459/piana-di-catania-arance-vendute-a-otto-centesimi-non-si-recupera-nulla-meglio-abbandonare-tutto/
Così, la fama delle arance di Paternò rischia di rimanere una storia del passato; e reportage come quello di Musco, un nostalgico tributo ad un pezzo di cultura agricola cancellata dalle logiche di mercato e dall'insipienza degli uomini.