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mercoledì 22 febbraio 2023

FEBO, IL CANE LIPAROTO CHE DIVENNE L'ALTER EGO DI CURZIO MALAPARTE

Curzio Malaparte a Lipari,
nei mesi del suo confino impostogli dal fascismo.
In questa fotografia
si scorge Febo,
il cane adottato dal giornalista e scrittore.
Le fotografie del post
sono tratte da un articolo pubblicato
dal settimanale "Tempo",
opera citata 


Questa storia di Lipari e di un cane ne ricorda inevitabilmente un'altra, più vicina ai nostri giorni: quella raccontata da Stefano Malatesta in "Il cane che andava per mare" ( Neri Pozza Editore, 2000, Vicenza ) del meticcio Jack che, senza un vero padrone, era solito farsi accompagnare su barche e traghetti verso le altre isole Eolie, tornando a Lipari con libero arbitrio dal continuo girovagare nell'arcipelago. L'altro cane liparota realmente vissuto e divenuto protagonista di pagine letterarie si chiama Febo. Il suo nome si lega a quello di Curzio Malaparte, che, a partire dal 13 novembre del 1933, per qualche mese - e col breve intermezzo di un ricovero all'ospedale militare di Palermo, causato dai suoi cronici problemi polmonari  -  fu confinato dal regime fascista a Lipari per motivi politici. Il giornalista e scrittore toscano era stato accusato di avere calunniato e diffamato Italo Balbo, e per questo era stato condannato a cinque anni di esilio: una punizione che gli venne revocata nel 1935 da Galeazzo Ciano, quando Malaparte aveva già da tempo lasciato Lipari.

Fu durante il soggiorno obbligato nell'isola delle Eolie che il futuro scrittore de "La pelle" adottò un cane che lo avrebbe accompagnato sino al suo ritorno a Capri, in un rapporto di identificazione totale fra padrone e animale. Malaparte lo chiamò Febo - spiega Treccani: "epiteto della divinità greca Apollo, con il significato di "puro" " - come un altro fra i molti cani posseduti in precedenza. La storia di questa singolare amicizia intrecciata da Curzio Malaparte a Lipari nei mesi del confino venne così raccontata il 22 agosto del 1957 dallo scrittore e giornalista triestino Franco Vegliani sulle pagine del settimanale "Tempo":  

"A Lipari, Malaparte non faceva una cattiva vita. Il viso gli aveva ripreso colore, nello sguardo era ricomparsa l'antica spavalderia, l'usuale sicurezza, le piccole febbri che lo avevano travagliato durante la permanenza al carcere non si facevano più sentire e così gli ascessi di cui soffriva alla gola. I carabinieri gli concedevano il massimo di libertà compatibile con il rigore del regolamento: alle sei di sera doveva tapparsi in casa, ma dall'alba a quell'ora era libero di fare quello che gli piacesse e di andare dove voleva. Tra gli isolani non aveva che amici. E intanto aveva ammaestrato un cane. Vi è, o vi era allora, sulle isole Eolie una razza di cani fuori dall'ordinario: sono i levrieri dello Stromboli, discendenti di cani che furono abbandonati sullo scoglio deserto del vulcano perché ritenuti rognosi e che invece, probabilmente per l'aria impregnata di zolfo, guarirono e si moltiplicarono. Ma che vivono un pò per conto loro, selvatici, dando poca confidenza all'uomo. A Malaparte non parve vero di catturarne uno e di farsene un impareggiabile amico..." 

Nelle sue opere letterarie, Malaparte fece frequente riferimento alla figura di Febo liparoto. Nel romanzo "La pelle", edito nel 1949, lo descrisse mitologicamente così:

"Era di quella famiglia di levrieri, rari ormai e delicati, venuti in antico dalle rive dell'Asia con le prime migrazioni joniche, che i pastori di Lipari chiamano cerneghi. Sono i cani che gli scultori greci scolpiranno nei bassorilievi tombali. "Cacciano la morte", dicono i pastori di Lipari"



Nel 1969, Malaparte avrebbe meglio ricordato nel racconto "Cane come me" pubblicato in "L'albero vivo" ( Vallecchi Editore ) il periodo di confino sofferto a Lipari, rivelando l'essenza del suo rapporto con l'amatissimo Febo:

"Mi trovavo esiliato da alcuni mesi nell'isola di Lipari: e non bastandomi l'aperto orizzonte a restituirmi il senso della mia libertà morale, indebolito dalle lunghe sofferenze fisiche, e temendo, come avviene, che la tristezza della mia selvatica solitudine, fra gente sospettosa d'ogni mio pensiero come di una minaccia o di un tradimento, e lo stato incerto della mia salute, corrotta da una continua febbre, mi facessero decadere irreparabilmente da quella condizione di dignità, anzi di orgoglio, che è d'ordinario la naturale condizione del mio spirito, mi persuasi che il meglio era per me l'eleggermi un compagno, un amico. Diffidavo degli uomini, sia pure unicamente per spontanea reazione alla loro diffidenza. E scelsi un animale, un cane..."Se non fossi uomo, e se non fossi quell'uomo che io sono, vorrei essere cane. Non già, come un Cecco Angiolieri, per abbaiare e mordere, ma per assomigliare a Febo. Vorrei essere un cane come lui: di pelo raso, d'un pallido colore lunare, qua e là macchiato di zone rosee, dal ventre magro, dalle cosce snelle e muscolose. La testa vorrei fine e lunga, le orecchie acute, gli occhi azzurri. E poter correre le terre, entrare in selve in fiumi in prati in monti, possedere la natura per altri sensi da quelli per cui la posseggono gli uomini. Potere inventare il mondo, e tentar, così, di correggere gli errori della creazione non dal punto di vista umano, come tentano gli uomini, ma da quello di un cane...

... Dal mio amico Febo, più che dagli uomini, dalla loro cultura, dalla loro vanità, ho imparato che la morale è gratuita, è fine a se stessa, che non si propone neppure di salvare il mondo: ma soltanto di creare sempre nuovi pretesti al proprio disinteresse, al proprio libero gioco. L'incontro fra un uomo e un cane è sempre l'incontro fra due spiriti liberi, fra due forme di dignità, fra due morali disinteressate. Il più gratuito fra gli incontri. E non v'è momento, nella mia vita, di cui serbi un ricordo altrettanto vivo e puro quanto del mio primo incontro con Febo..."


lunedì 20 febbraio 2023

L'IMPRUDENZA DI BERENSON IN UNA NOTTE AGRIGENTINA DI LUNA PIENA

Il tempio della Concordia,
ad Agrigento.
Fotografia tratta
dal saggio di Bernard Berenson
"Viaggio in Sicilia"
Electa Editrice Milano, 1955


Nato a Vilnius, in Lituania, nel 1865, con il vero nome di Bernard Valvrojenski, Bernard Berenson è stato uno dei più autorevoli ed influenti storici dell'arte del Novecento in Italia. Cultore dell'arte medievale e rinascimentale, Berenson si trasferì a Settignano, uno dei colli di Firenze; da qui, raggiunse più volte la Sicilia, lasciando di una di queste visite - quella compiuta nel 1953 - una documentazione raccolta nel saggio "Sicily revisited", pubblicato a New York nel 1955

Una versione italiana del libro - poi edito nello stesso anno da Electa Editrice Milano col titolo "Viaggio in Sicilia" - era stata anticipata sulle pagine del "Corriere della Sera" nei giorni della sua escursione. Il tour era partito da Messina il 19 maggio e venne terminato il 16 giugno a Palermo, sulla sommità di monte Pellegrino. Qui Berenson avrebbe espresso questa considerazione:

"Ci siamo sentiti tristi al pensiero di lasciare così grandiosa e impareggiabile bellezza. Se soltanto uno potesse impadronirsene e serbarla entro di sé, sarebbe un Dio"

Come tutti gli altri saggi incentrati sull'architettura italiana, quello dedicato da Berenson alla Sicilia ebbe unanimi consensi di critica. Emilio Cecchi ne colse così lo spirito:

"Questi suoi appunti siciliani seguono come un volubile tralcio la capricciosità delle occasioni e degli incontri", notazione attestata dal resoconto di una mancata visita notturna che Berenson avrebbe voluto compiere ad Agrigento, al tempio della Concordia:

"Mi par di aver letto da qualche parte che le colonne del Tempio della Concordia erano, in origine, rivestite di stucco. Può darsi; ma saranno mai state più belle di come le vediamo noi, di nuda e calda pietra nel suo color del miele? Il guardarle mi rende nostalgico dei giorni lontani, in cui avevo l'agio di starmene qui seduto per ore, con la schiena appoggiata a una di queste colonne, odorando il timo e leggendo Teocrito e Virgilio. Si tratta di 65 anni fa, e il ricordo ne chiama altri!

Proprio in una notte del tiepido autunno al quale mi riporto, un compagno di viaggio ed io c'incamminammo a piedi da Girgenti per godere i templi illuminati dalla luna piena. Eravamo circa e mezza strada, quando avvertimmo un calpestìo di cavalli dietro di noi. Giunsero al galoppo due carabinieri, che si fermarono per invitarci, molto cortesemente, a tornare in città. Quei luoghi non erano punto sicuri, dopo il tramonto; e lo dissero con tono e gesti così efficaci da convincerci subito all'inopportunità della nostra romantica intenzione..."

L'EVOCATIVO MARE DEL CASTELLO DI SOLANTO

Il promontorio ed il castello di Solanto.
Fotografia Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Luogo evocativo di eventi oggi molto lontani nel tempo è il castello di Solanto, insediato su uno sperone roccioso che nel periodo della storia antica di Sicilia faceva da guardia alla omonima città punica dedita ai commerci marittimi. Proprio il mare ha segnato le vicende rilevanti di questo angolo di costa palermitana, oggi gravato dalle presenza di una invasiva struttura alberghiera e dalla solita trincea di "villini" che sbarrano l'accesso ai bagnanti. Come ricordato da Salvatore Mazzarella e Renato Zanca in "Il libro delle torri" ( Sellerio editore Palermo, 1985 ), anni salienti per Solanto furono il 1636, quando si registrò una rovinosa incursione delle galere di Biserta, ed il 1718, allorché una flotta spagnola composta da 450 navi sbarcò nella vicina rada di Fondachello, conquistando il castello.

Nel 1819, il mare di Solanto venne rappresentato dal pittore napoletano Paolo de Albertis per celebrare la presenza di Ferdinando IV di Borbone e di un vasto seguito di cortigiani e notabili palermitani. L'occasione fu quella di assistere alla faticosa opera dei "tonnaroti" locali, impegnati in una delle storiche mattanze che si svolgevano in questo tratto di costa palermitana. La pesca del tonno andò avanti a Solanto sino alla metà degli anni Sessanta dello scorso secolo, quando le ricchissime catture del secolo XVIII rimasero definitivamente nel ricordo di annalisti e storici locali. Oggi il castello di Solanto è diventato luogo per ricevimenti: destino comune a molti edifici storico-monumentale della costa siciliana, che pur sottraendoli alla pubblica fruizione ne consente la conservazione dopo secoli di sofferta sopravvivenza. 


venerdì 17 febbraio 2023

I "DAMMUSI", STORIA PASSATA E RECENTE DELL' IDENTITA' PANTESCA

"Dammusi" a Pantelleria.
Fotografie di Nino Teresi,
opera citata nel post


Racconta Giosuè Calaciura in "Pantelleria. L'ultima isola" ( Editori Laterza, 2016, Bari ) di un pantesco che, emigrato  nella nebbiosa Brianza e nostalgico della sua terra, decise di farsi spedire da Pantelleria un carico di pietre destinate alla costruzione del primo "dammuso" lombardo. Vera o falsa che sia, la storia attesta l'imprescindibile ruolo di questi edifici - circa 8.000, la metà dei quali ristrutturati, secondo Calaciura -  nella vita dell'isola e dei suoi abitanti. Da molti decenni ormai i "dammusi" sono diventati oggetto di un mercato immobiliare sempre più esclusivo, alimentato da acquirenti che trasformano questi umili e sapienti esempi di architettura mediterranea in luoghi in cui fare esercitare il libero estro di architetti ed arredatori. Nel 1964, quando Pantelleria era conosciuta dai nativi e dai loro amici strettissimi, il critico d'arte Renato Giani visitò l'isola, che allora gli si presentò come "un mondo arcaico e solenne, una specie di miraggio come se ne possono avere in pieno Sahara". Nel giugno dello stesso anno, l'esperienza di quel viaggio venne raccontata da Giani in un reportage pubblicato dalla rivista "Sicilia", edita dall'assessorato regionale al Turismo della Regione Siciliana. Nell'articolo, corredato da alcune fotografie di Nino Teresi, l'autore così descrisse i "dammusi"

"Domani l'isola sarà forse per errore scoperta dal cinema, verranno i fotografi a mettere a nudo le sue nobili scogliere da leggenda, i "dammusi" segreti, fatti di pietre levate una a una dal terreno, che hanno lo stesso colore del campo circostante, non un'apertura esterna, e paiono genuini blocchi massicci. Sono le abitazioni di campagna, fresche, voluminose, di un tipo  probabilmente unico in tutto il mondo mediterraneo.



La parola "dammuso" nella quale non è difficile riconoscere il termine di domus latino, è di derivazione araba o berbera. Si compone d'una vasta camera e di un'alcova e un altro stanzino: il resto è fuori, compreso il forno, la cucina, le stalle, il rotondo "giardino spagnolo", che è un ampio anzi vastissimo pozzo profondo, circolare, al fondo del quale crescono aranci, mandarini, verdura, alcuni fiori gentili e alberelli dritti, sdutti, geometrici, di gradevole grazia estetica ma senz'ombra, quali si incontrano solo nei dipinti del Quattrocento, in Benozzo Gozzoli.

"Dammusi" e giardini raccontano la lotta dei panteschi contro le invasioni barbariche, i pericoli notturni di ancora cento e qualche anno fa, gli sbarchi improvvisi, le difese, la necessità di non far scorgere mai lumi da chi vien dal mare. E anche la necessità di difendersi dai venti dominanti, i quali Eolo alcune volte o di estate o di inverno rovescia sull'isola improvvisamente per alcune ore...



Già inattaccabile ricetto di predoni arabi, alcune località come Kadir, Khamma, Punta Fram, Balata dei Turchi eccetera ne conservano un ricordo duraturo, così del resto anche parecchi aspetti dell'architettura: la cupoletta di terra battuta che copre le abitazioni rustiche, migliori d'aspetto delle volgari costruzioni moderne..."  

LE MOLTE VITE NECESSARIE PER CONOSCERE LA SICILIA

L'immagine
di Gangi con lo sfondo dell'Etna.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


""Davvero ci vorrebbe tutta una vita umana, anzi la vita di parecchi uomini, che man mano ci trasmettessero le conoscenze" scrive Goethe alla conclusione del suo viaggio in Sicilia.

La vita di parecchi uomini ci vorrebbe, per conoscere la Sicilia, come ogni luogo così stratificato, e anche le pagine degli infiniti volumi, tanti quanti nella borgesiana biblioteca di Babele, che sulla Sicilia sono stati scritti. 



E tralasciando quelli degli antichi, dei Greci e dei Latini - ha scritto Vincenzo Consolo nel saggio "Sicilia teatro del mondo", edito da Nuova ERI Edizioni Rai nel 1990 - ci vorrebbero almeno i volumi, le "decades duae" o venti libri del "De rebus siculis" del monaco Fazello, che, dopo il lungo medioevo di sonno e di oblio in cui l'Isola era caduta, nel tempo del Rinascimento, primo la riscopriva, partendo dalla sua Sciacca, percorrendola palmo a palmo, descrivendola..."



domenica 12 febbraio 2023

IL PROFESSORE DI ALCAMO E LA LEZIONE INCOMPRESA DI DANILO DOLCI

Danilo Dolci
al centro di un gruppo di manifestanti
a Roccamena, nel palermitano.
Foto di Federico Patellani
tratta da "Storia Illustrata",
Arnoldo Mondadori Editore, aprile 1972


E' di poche settimane fa la notizia secondo cui un Comitato italo-svizzero ha intenzione di promuovere una raccolta di fondi per rilanciare a Trappeto le attività di studio del Borgo di Dio creato nel 1968 da Danilo Dolci, che qui giunse nel 1952. Della straordinaria opera di impegno sociale di Dolci contro la povertà e la cultura mafiosa condotta in Sicilia - attività per lo più incompresa ed avversata allora da politici e autorità dell'Isola - così scrisse il saggista e viaggiatore elvetico Jakob Job, autore a partire dal 1944 di alcuni libri dedicati all'Italia:

"Anni fa - raccontò Jakob Job in "Sicilia", edito in Italia nel 1971 da Edizioni Silva, Zurigo - attraversando la città di Alcamo, causa il gran movimento del mercato, non riuscivo ad andare avanti. A un angolo di strada, uno del posto mi fermò domandandomi se andassi a Partinico. Quando gli dissi di sì, mi pregò di prenderlo in macchina per un tratto. Era professore in una scuola media di Alcamo, ma abitava in un paesello fuori della città dove sua moglie era maestra. Volli sapere se conosceva Danilo Dolci. Sì, l'aveva già visto. Era considerato un comunista. Faceva, è vero, molto bene, ma le autorità non erano sempre d'accorso. Aiutare è giusto, ma Dolci rendeva la gente troppo esigente. E' sempre stato così: i lavoratori della terra per un terzo dell'anno non avevano lavoro e le famiglie povere dovevano vivere in un'unica stanza. Non ci si poteva far niente; la gente era felice così. Quando gli dissi che, secondo i rilevamenti del 1952, nella provincia di Palermo circa 12.000 persone vivevano in grotte e baracche, non seppe obiettare molto. Era normale!

Un libro come "Inchiesta a Palermo" di Dolci, la riproduzione protocollare di un'indagine fra dozzine di incolti, totalmente o parzialmente disoccupati, tra analfabeti ed altri che a malapena avevano frequentato una scuola, avrebbe potuto produrre un urto nell'opinione pubblica. Come reagirono essa e le autorità? Non presero conoscenza del libro, accusarono Dolci d'essere un sognatore fuori della realtà, un pazzo, un "forestiero" che non conosceva le "costanti" della vita siciliana; ancora peggio: un comunista, come me lo aveva rappresentato il professore di Alcamo. Non aveva forse accettato, il Dolci, il premio Lenin? Che cosa avesse fatto con quel denaro, non interessava a nessuno. Non si prendeva sul serio l'opera di questo "apostolo dei poveri", la si riteneva il capriccio di un filantropo staccato dalla realtà, che non aveva la pazienza di aspettare un miglioramento attraverso le misure delle autorità.

Dolci ha però trovato aiuti, gente che lo sostiene da tutto il mondo. Ha fondato a Partinico asili infantili, scuole per bambini piccoli, in modo da alleviare la fatica delle madri, corsi per ragazzi e giovanotti, per introdurli nell'economia domestica, nel laboratorio familiare. Certo, tutto ciò non è sbalorditivo; però sbalorditivo è quest'impegno di un singolo nella lotta contro la disoccupazione, la povertà e l'immiserimento. Danilo Dolci è una di quelle figure che hanno sentito la vocazione alla guerra contro la miseria, come l'Abbé Pierre la cui opera ha ottenuto il riconoscimento generale. Il fatto ch'egli svolga il suo lavoro in un paese di antichissima cultura, in cui ci sono le autorità legali d'un popolo civile, ne fa agli occhi di queste un agitatore utopistico. Non si riconosce volentieri che in Sicilia grandi parti di popolazione vivono tutt'oggi nel sottosviluppo".

giovedì 9 febbraio 2023

IMMAGINI DEL TERREMOTO DEL BELICE DA "FOTO CRONACA 1968"



Nei giorni in cui in Turchia e Siria si contano le decine di migliaia di morti del terremoto del 6 febbraio, il dramma umano e sociale di un tale disastro rimanda col pensiero a ciò che accadde nella valle del Belìce nel gennaio del 1968. Le immagini di quel terremoto riproposte da ReportageSicilia furono pubblicate nel dicembre del 1968 da "Foto cronaca 1968", un annuario degli eventi più rilevanti di quell'anno edito dalla Cassa di Risparmio di Roma.








Ad eccezione della veduta dall'alto delle macerie di Montevago, i luoghi e le persone rappresentate dalle immagini non furono allora indicati. Nella succinta didascalia di introduzione alle fotografie, si legge:

"Spaventosa sciagura sull'"isola del sole"; centinaia di morti e migliaia di feriti nella Sicilia colpita dal terremoto. Il sisma ha raso al suolo Montevago in provincia di Agrigento e Gibellina in provincia di Trapani"   

CASTELBUONO: DOVE LA MAFIA - FORSE - NON ESISTE

Castelbuono.
Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Da molti anni - e senza apparenti dispute da campanile con altri comuni del comprensorio - la cittadina di Castelbuono si vede attribuita la qualifica di capitale economica delle Madonie. Ai nostri giorni, l'investitura trova fondamento soprattutto grazie alla notorietà di una azienda dolciaria che da Castelbuono ha aperto la strada alla realizzazione ed alla commercializzazione dei panettoni prodotti nel Sud d'Italia. Nel saggio "L'arte di annacarsi" ( Edizioni Laterza, 2010 ), lo scrittore Roberto Alajmo ha affrontato il tema dell'attivismo economico dei castelbuonesi, in passato capaci di sviluppare una cartiera, una ferriera ed una vetreria; imprese arricchite da una fabbrica di abbigliamento e da una quantità di negozi ed imprese artigianali per numero oggi difficilmente rintracciabili in altri comuni montani della Sicilia. Alajmo sottolinea poi un altro singolarità offerta da Castelbuono:

"Poca agricoltura, molto commercio. Forse è questa la formula della diversità. Una diversità che si concretizza in un fenomeno raro, se non unico: qui non esiste la mafia. Pare azzardato dirlo, e persino scaramanticamente rischioso. Ma a quanto pare è vero. Se qualche tentativo d'infiltrazione c'è stato, si è trattato di fenomeni marginali, subito espulsi dal corpo sano della società. La questione merita di essere studiata perché, tranne forse Isnello, i paesi del circondario non sono refrattari al fenomeno. La spiegazione potrebbe essere semplice: la mafia alle sue origini si innesta sull'agricoltura. E Castelbuono sull'agricoltura ha sempre contato poco, con attività molto specialistiche. Insomma, forse è andata così: una borghesia di artigiani e commercianti urbani ha avuto il tempo di consolidarsi prima che le infiltrazioni mafiose riuscissero ad inquinare la falda della convivenza civile. E quando ci hanno provato, era troppo tardi: il tessuto imprenditoriale e commerciale era ormai diffuso e radicato, capace di rigettare qualsiasi intrusione..."

  


giovedì 2 febbraio 2023

LA BOCCATA D'ARIA DEI PALADINI DI EMANUELE MACRI' PRIMA DELL' ARRIVO DEI TURISTI

Fotografia di 
Federico Patellani,
opera citata


Negli anni Cinquanta dello scorso secolo, gli spettacoli dei pupi cominciarono a perdere in Sicilia il loro abituale pubblico di ragazzi ed adulti, sempre più interessati ad altre più moderne forme di intrattenimento.

"Oggi il cinema offre a tutti l'andante successo della sua azione; lo stadio, la corsa appassionante degli undici dietro al pallone; il giornale a fumetti - si poteva leggere già nel 1949 in "Mediterranea-Almanacco di Sicilia", ( IRES, Palermo ) - traduce e moltiplica il successo ( ieri quasi aulico e ancillare ) di Carolina Invernizio. Altri incanti, altri motivi s'affollano nell'animo dell'ascoltatore della strada... al posto di Orlando trovi Bartali e l'intera epopea dei paladini non vale certo più d'una partita Palermo-Torino. C'è ormai nel pupo e nel puparo la malinconia delle cose andate..."

Fu così che gli spettacoli dei pupi iniziarono allora a diventare quasi esclusivo motivo di folclore turistico; soprattutto nella Sicilia orientale, dove i tour organizzati insieme alle visite ai monumenti dell'età classica cominciarono ad offrire anche quelle ai teatrini animati dalle battaglie dei paladini. A questa tendenza si adeguò un puparo affermato come Emanuele Macrì, nato a Messina ma trasferitosi sin da bambino ad Acireale dopo il rovinoso terremoto del 1908 grazie al "maestro" Mariano "Nasca" Pennisi. La testimonianza del successo coltivato dagli spettacoli per i turisti di Macrì è attestato dalla didascalia che accompagnò sul settimanale "Tempo" del 20 ottobre 1955 una fotografia di Federico Patellani:  

"Il puparo Macrì, di Acireale, tiene ancora alta la tradizione del teatro dei pupi. Agenzie turistiche straniere organizzano gite collettive ad Acireale, in partenza da Taormina, da Catania, e persino da Siracusa. Così nel teatrino di Macrì, ogni venerdì sera, nella stagione turistica, c'è una rappresentazione dedicata ad un pubblico assai più in età di quello che affolla la sala negli altri giorni della settimana. Macrì sa se lo spettacolo sarà per francesi, inglesi, o tedeschi. Solimano ed i Paladini non rinunciano al loro linguaggio in italo-siciliano, ma un bel cartellone nella lingua della comitiva ospite, avverte gli spettatori a quale brano della storia della cavalleria essi assisteranno. Nella fotografia vediamo due pupi in braccio ad una giovane e severa bellezza catanese. Pigliano una boccata d'aria all'aperto, poi stasera riprenderanno la secolare vertenza cavalleresca..."