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giovedì 26 febbraio 2015

DISEGNI DI SICILIA


LUIGI DI GIOVANNI ( 1856-1938 ), Ragazza in costume siciliano

mercoledì 25 febbraio 2015

GIOIOSI RICORDI DI CAPO ZAFFERANO

Uno scritto di Paolo Di Salvo rievoca la primitiva bellezza del promontorio palermitano, oggi stravolto dal cemento e dalle chiusure dei varchi al mare

Il magnifico versante Ovest di capo Zafferano
in una delle fotografie provenienti dalla collezione
del bagherese Paolo Di Salvo.
L'epoca dello scatto ed il suo autore sono sconosciuti;
di certo, il paesaggio odierno reca le ferite incancellabili
di decenni di cementificazione dell'area
  
Ci sono luoghi della Sicilia nei quali l'inevitabile opera di antropizzazione ha intaccato paesaggi preziosi, meritevoli invece di una difesa che ne tramandasse il loro valore ambientale e storico.
Il dato riguarda soprattutto le località costiere, che, specie lo scorso secolo, hanno subìto trasformazioni legate allo sviluppo di una infestante edilizia turistica o di attività industriali a sconvolgente impatto ambientale.
Alla prima categoria - quella di luoghi stravolti da un reticolo di strade, residence privati, villette, ristoranti, cancelli a chiusura dei varchi a mare - appartiene l'area palermitana di capo Zafferano.
Qui, gli studi di etimologia hanno in un lontano passato aggiunto suggestioni storiche al lavoro svolto dalla natura.
Scriveva infatti nel 1709 Giovanni Andrea Massa in "La Sicilia in prospettiva":
"La voce araba 'Zafaran' significa 'Fischiare', e fu applicata a quei Promontori, forse per lo fischiare de' Venti, o per lo gridare delle Guardie, che dimorano nelle Torri, che vi sono fabbricate in cima"
Quest'angolo di costa tirrenica vanta una storia millenaria, suggerita dalla presenza delle rovine della città di Solunto ( IV secolo a.C. )in un contesto paesaggistico un tempo straordinario.
L'aggettivo non sembra sprecato osservando le  fotografie storiche riproposte da ReportageSicilia grazie alla disponibilità di Paolo Di Salvo, attento cultore bagherese del patrimonio etnografico locale e fotografo che solo per scelta di vita non ha ottenuto fama pari a quelle dei più illustri Ferdinando Scianna e Giuseppe Tornatore http://reportagesicilia.blogspot.it/search?q=paolo+di+salvohttp://reportagesicilia.blogspot.it/2012/03/un-gruppo-di-uomini-donne-e-bambini.htmlhttp://reportagesicilia.blogspot.it/search?q=ducato+

Delle tre fotografie del post, colpisce soprattutto la bellezza primitiva del versante occidentale di capo Zafferano, nel quale l'unica traccia dell'azione dell'uomo è una stretta carreggiata da poco costruita su una originaria mulattiera.
Lo scatto non ha né una datazione precisa né un'attribuzione, ma non deve risalire ad un periodo troppo lontano dal 1919, quando la Guida Rossa del TCI della Sicilia così descriveva questa costa:
"L'alto monte Catalfano, metri 374, forma la massa sporgente verso capo Mongerbino e che cade quasi a picco tutt'intorno, raccordandosi con pendenze minori alle spiagge, che alla loro volta sono formate da scogliere quasi a picco.
La vegetazione più ricca forma in basso macchie scure, da cui emergono le rocce più chiare.
Dove la spiaggia del golfo incomincia a diventare rocciosa è il paesetto di Aspra, a piccola altezza sul quale, a 2 chilometri entro terra, Bagheria, circondata da ville.
Sul capo Mongerbino, la torre omonima a metri 63; davanti al capo, due grossi scogli.
Si passa, dopo capo Mongerbino, lungo la splendida costa a picco, dalla quale si erge il Catalfano ad Est ed il monte d'Aspra, a metri 345, ad Ovest.


Ai piedi del Catalfano e unito a questo da una penisoletta poco elevata, metri 35, sorge il capo Zafferano, roccioso, conico, bellissimo, alto metri 223, in aspetto quasi di isola, con un faro in basso, e davanti uno scoglio detto l'Isolotto.
Subito dopo a Sud del capo Zafferano, una tonnara, poi si vedono i paesetti di S.Elia e Porticello, sopra i quali le rovine di Solunto..."
   
Di certo, la fotografia del capo Zafferano suggerisce un'emozione che nelle parole di Paolo Di Salvo diventano rimpianto per la perdita di un paesaggio e degli attimi di vita irripetibili e preziosi che vi si svolsero:

"Mio nonno materno possedeva un piccolissimo agrumeto nella spianata proprio sotto il capo Zafferano; mia madre mi raccontava che proprio su quella spianata suo padre le aveva insegnato a cavalcare senza sella.

Per quanto mi riguarda, nel periodo tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta, il nonno ci portava in carretto o in calesse.

Una volta lì, dopo le raccomandazioni di rito, si era liberi di scorazzare: si poteva risalire il sentiero fino ai ruderi della postazione di artiglieria, sul cocuzzolo del monte, da dove lo sguardo spaziava sui due golfi, o scendere fino al mare in cerca di granchi o patelle, o fare la lunga passeggiata fino al faro.

C'era anche una senia, con il suo rilevato a tronco di cono e il pozzo ancora aperto, ma a quella non avremmo dovuto avvicinarci.



Proprio sugli scogli della cala dell’Osta (in realtà cala dell’Ostia) c’era una grande grotta che il mare aveva scavato nel conglomerato di trasgressione, la cui volta è crollata, sempre per l’azione del mare, negli anni Ottanta.
Anche sull’altro versante del capo c’era una grotta: “a rutta  a gnuni” (cartografata come "Grotta Agnone"  - il topografo fiorentino avrà certamente avuto difficoltà a comprendere il dialetto del pescatore interpellato) scavata dal mare, questa volta nella calcarenite, e anche quella è crollata.
Questi ricordi mi fanno venire il magone"
Le altre due fotografie della collezione Di Salvo sono anch'esse anonime e senza data.
Raffigurano la borgata palermitana di Aspra nei primi decenni dello scorso secolo e la Torre di Mongerbino, costruita nella metà del secolo XVI con vista sulle altre torri di Zafferana ed Acqua dei Corsari
Gia' nel 1976 - secondo una testimonianza di Salvatore Mazzarella e Renato Zanca ( "Il libro delle torri", Sellerio, 1985 )  la struttura era stata inglobata nell'area di un ristorante. 
L'immagine è cosi' una delle poche testimonianze dell'esistenza di questa Torre nel suo originario contesto ambientale.




     

lunedì 23 febbraio 2015

LA FESTOSA DANZA DI PETRALIA SOTTANA

Storiche immagini del Ballo della Cordella: un evento che incarna lo spirito "sbarazzino" del paese descritto nel 1948 da Gaetano Falzone


Un'edizione del Ballo della Cordella
anteriore al 1962, quando la fotografia di Josip Ciganovic
venne pubblicata nel primo volume dell'opera
"Sicilia", edita da Sansoni
e dall'Istituto Geografico De Agostini.
Le origini del Ballo si legano all'identità agricola
di Petralia Sottana e la sua esecuzione
avveniva dopo la mietitura del grano.
Oggi l'evento ha un carattere semplicemente turistico

"Un tempo il Ballo della Cordella era eseguito dai contadini a Petralia Sottana e Soprana e a Polizzi a mietitura ultimata e oggi solo nel primo di questi comuni in speciali ricorrenze e in edizione 'assignurinata', cioè turistica.
Il ballo, che richiama arcaici riti agrari, viene eseguito al ritmo di una speciale musica detta 'di la curdedda' da dodici, ventiquattro, trentasei o più coppie.
Ciascuna di queste tiene un nastro di vario colore che penzola da un'asta centrale di due metri e cinquanta.
Le coppie, ballando sotto la guida di un 'capurali' che dirige la danza, fanno intrecciare i nastri, in modo da formare intorno all'asta un tessuto multicolore.
La regolarità dell'intreccio permette ai ballerini di sfilarlo con movimenti contrari a quelli eseguiti in precedenza, assicurando la completa esecuzione e la riuscita del ballo"

Antonino Buttitta così riassunse nel 1962 la storia e la dinamica del Ballo della Cordella, evento che ancor oggi si celebra a Petralia Sottana la prima domenica successiva al Ferragosto.


L'intreccio dei nastri colorati
eseguito dalle coppie di ballerini
e scandito dal ritmo della "curdedda".
La fotografia firmata Publifoto Palermo
venne pubblicata nel volume del TCI "Sicilia"
della collana "Attraverso l'Italia" nel 1960

Nel suo carattere giocoso e colorato, il Ballo della Cordella sino al secolo XIX ha rappresentato una festa popolare priva di quel carattere folklorico che ne avrebbe distinto il successivo recupero, databile agli anni Trenta del secolo scorso.
Ancora ai nostri giorni, osservando la versione 'assignurinata' del Ballo, l'atmosfera festosa della manifestazione rimanda alla descrizione di Petralia Sottana e dei petralesi fatta da Gaetano Falzone, da datare con molta probabilità all'estate del 1947.


Ancora una vecchia edizione del Ballo della Cordella
eseguito da dodici coppie di ballerini.
Anche questa fotografia di Gaetano Armao
 è tratta da "Sicilia" del TCI, opera citata

Le sue impressioni, riportate in un reportage pubblicato nel maggio del 1948 nella rivista del Touring Club d'Italia "Le Vie d'Italia", sono uno spaccato dell'ospitale e disinvolto clima sociale di questo paese delle Madonie, pur nei difficili anni del secondo dopoguerra: 

"La gente è allegra e umana, smaliziata agli aspetti e alle forme della vita moderna, sì da rappresentare un gaio contrasto col grigiore monotono di tanti paesini siciliani dove regna ancora una solitudine scontrosa o un riserbo geloso.
Deve Petralia Soprana questa sua aria sbarazzina alle comitive frequenti di gitanti, ai gruppi numerosi di villeggianti, a tutta, insomma, una tradizione di aria salubre, di cibo sano, di panorami stupendi, di feste gioconde che hanno sempre richiamato da tante parti stuoli di visitatori.


Un'edizione del Ballo antecedente al 1948,
quando l'immagine venne pubblicata a maggio dalla rivista mensile
"Le Vie d'Italia" del TCI, a corredo di un reportage
di Gaetano Falzone intitolato "Petralia Sottana" 
Ricordo che quando giunsi la prima volta a Petralia, rimasi meravigliato per l'aria festosa che c'era nelle sue strade e si diffondeva anche fuori della città.
Appena buio, si ballava ovunque, non solo nella piazza del Belvedere, da cui l'occhio spazia in una vallata bellissima, e lo spirito se ne allieta, ma in ogni piazza, negli stradali si campagna vicini all'abitato.
Non era ancora scoppiata la guerra, il grammofono si spostava da un luogo all'altro nella sera di agosto, che era fresca, di una freschezza che in Sicilia può ritrovarsi solo ad Erice"


giovedì 19 febbraio 2015

VECCHI E NUOVI AFFANNI AGRICOLI SICILIANI

Le immutabili cronache della crisi dell'agricoltura nell'isola illustrate nel 1968 da un reportage della "Domenica del Corriere"


Raccolta di carote in una campagna siciliana
alla fine degli anni Sessanta.
Le immagini del post sono tratte da un dossier
sullo stato dell'agricoltura isolana pubblicato
nel maggio del 1968 dal settimanale
"Domenica del Corriere"

"Il settore agricolo siciliano, come quello industriale, presenta scompensi e fratture profondi: tra zone costiere, zone collinose e montane, tra aree coltivate a grano ( un terzo della superfice agraria e metà della Sicilia occidentale) ed aree coltivate ad agrumi, ortofrutticoli e vite, tra zona e zona negli stessi territori favoriti dalle risorse idriche.
Così, persino nella 'terra benedetta' del siracusano, c'è una località detta delle 'Tre sementi' perché un chicco di grano seminato ne frutta tre o quattro al massimo.
Il territorio agricolo suscettibile di radicali trasformazioni copre, secondo i progetti riferiti al 1970, un'estensione di 400.000 ettari.



Entro il 1975, inoltre, dovrebbero essere acquisiti alle colture orticole altri 48.000 ettari mentre la superficie destinata a grano dovrebbe ridursi di 150.000 ettari.
Tenendo conto di questo processo di trasformazione, necessariamente laborioso, e di un ulteriore esodo dai campi di 80.000 contadini e braccianti, è previsto per il 1970 un aumento del reddito per addetto in agricoltura da 770.000 a 1.069.000 lire.
Per raggiungere questo risultato, sarà necessario rivedere al più presto sistemi antiquati di coltivazione ed eliminare ritardi nell'adattamento di alcune produzioni pregiate alle esigenze del mercato.
Nel settore delle arance, che attraversa un periodo di crisi dovuto alla sovrapproduzione e alla mancata esportazione per la concorrenza di altri Paesi del bacino mediterraneo, si sta procedendo appunto in questa direzione..."

Questo rapporto sullo stato dell'agricoltura in Sicilia venne pubblicato il 4 giugno del 1968 dal settimanale "Domenica del Corriere", all'interno di un dossier dedicato alla situazione economica e sociale dell'isola.



L'analisi, vecchia oggi quasi di mezzo secolo, pur offrendo dati diversi da quelli odierni, nella sostanza non muta un giudizio di precarietà dello stato delle attività agricole siciliane.  
Secondo dati della Confagricoltura, fra il 2009 ed il 2013 il numero delle aziende del settore è sceso da 97.000 a 83.000; rispetto al 2013, lo scorso anno si è registrato un calo della produzione lorda di olio, vino, agrumi e miele, complice anche il blocco commerciale verso la Russia.


Serre per la produzione agricola nel ragusano

All'epoca delle fotografie pubblicate dalla "Domenica del Corriere" e ora riproposte da ReportageSicilia, le speranze per il futuro dell'agricoltura dell'isola venivano rilanciate da queste aspettative:


"A dare impulso alla razionalizzazione dell'agricoltura dovrebbero concorrere la creazione di organizzazioni ( in cooperative e società ) dei coltivatori e l'irrigazione di nuovi terreni..."


Parole, programmi e buone intenzioni si succedono insomma da anni: un nulla in attesa del ( quasi ) niente, secondo un copione conosciuto di molte vicende siciliane.





lunedì 16 febbraio 2015

SICILIANDO














"Mi sono sempre sentito molto siciliano, e ancora adesso vado in Sicilia tutte le volte che posso.
Quando ero piccolissimo, il siciliano era la lingua che si parlava in casa, o meglio era quella che mio padre e mia madre parlavano, quando non volevano farsi capire da me.
Io sono cresciuto sui tetti di asfalto delle case popolari, bambini di ogni parte d'Europa.
Le lingue più diverse, alla fine veniva fuori una sinfonia, da quei tetti, come ha scritto Eugene O'Neill.
Era come i canti delle stive delle navi.
A quei tempi, si faceva un gran parlare del 'melting pot', cioè l'America era il posto in cui si mescolavano tutte le razze, e un giorno a scuola hanno organizzato una scenetta per cui una coppia di bambini andava a girare il mestolo da una grossa pentola.
Quando chiamarono me, avrò avuto otto anni, di fronte c'era una bambina italiana.
E la maestra diceva. 'Italy', era la prima volta che lo sentivo, io pensavo di essere solo siciliano.
Guardavo questa bambina e mi dicevo: è così che sono fatti gli italiani?"
Alfredo "Al" Pacino
figlio di Salvatore, da San Fratello, Messina
e di Rose Gelardi, da Corleone, Palermo
intervistato da Enrico Deaglio, "Il Venerdì" 13 febbraio 2015

I GIARDINI PERDUTI DI MONREALE

Il paesaggio della Conca d'oro ai piedi del complesso architettonico normanno in quattro fotografie e in una litografia, dal 1836 agli inizi degli anni Cinquanta

Una vista della Conca d'oro e le case di Monreale.
La fotografia di Rudolf Pestalozzi
è tratta dall'opera "Sicilia" di Giovanni Comisso
edita a Ginevra nel 1953 da Pierre Callier  

"S'apre tutt'intorno uno scenario immane di pareti e strapiombi e, dinanzi, una veduta da togliere il fiato. 
La mia piccola realtà umana è minimizzata, l'occhio è impotente ad assorbire nel suo limite l'immensa conca smagliante di aranceti, la chiostra vaporante dei monti che l'incastonano, la mobile e fulgida luce della rada di Palermo...
Ai miei occhi, questo paesaggio ha la purezza, l'essenzialità antica e casta di una pastorale..."

Nel 1958 la scrittrice e giornalista milanese Delfina Pettinati così descrisse il paesaggio di Monreale della Conca d'oro dopo una breve scarpinata che la condusse sino al Santuario della Madonna delle Croci, sulle pendici di monte Caputo.

Il Duomo di Monreale, costruito
a ridosso dei giardini di aranci della Conca d'oro.
La fotografia è ancora una volta di di Rudolf Pestalozzi,
opera citata

Almeno sino a quel periodo fitti giardini ed orti lambivano ancora integri la cittadina palermitana, cresciuta secoli prima intorno al complesso architettonico del Duomo normanno.
A partire dal secondo dopoguerra, l'inarrestabile attività edilizia e lo sviluppo della viabilità - oltre a cancellare le campagne più vicine alle vecchie mura di Palermo - hanno intaccato pesantemente il patrimonio ambientale delle campagne monrealesi. 
A farne le spese sono stati soprattutto i fitti agrumeti che dalla seconda metà dell'Ottocento dalla periferia cittadina si spingevano lungo il corso dell'Oreto, inglobando i giardini di Monreale, di San Martino delle Scale e di Altofonte.

Una veduta di Monreale agli inizi del Novecento
tratta dalla guida "Sicilia", edita nel 1921
dal Touring Club Italiano e dall'Ente della Direzione Generale
delle Ferrovie dello Stato

La trasformazione urbanistica di Palermo non ha risparmiato neppure l'alberatura disposta alla fine del secolo XVI lungo lo stradone che collegava la città a Monreale.
"Era un doppio filare di pioppi, integrati nel 1628 da platani - ha scritto Giuseppe Barbera in "Conca d'oro" ( Sellerio 2012 ) -  piantati lungo una 'strada di gran comodo', per le ragioni dichiarate di rimediare "all'oltraggio, che faceva il sole al tempo dell'està ai Monrealesi perché quelli, venendo la mattina a Palermo, avevano il sole negli occhi e similmente la sera quando tornavano"

Le immagini riproposte da ReportageSicilia documentano il vecchio volto rurale di Monreale e restituiscono un'idea della "immensa conca smagliante" ammirata da Delfina Pettinati poco meno di sessant'anni fa da monte Caputo.
La scomparsa di quel paesaggio hanno tolto molto al fascino del Duomo e del suo famoso chiostro, che gli architetti di età normanna progettarono e realizzarono su una quinta prospettica a vista su uno straordinario scenario ambientale.

Una veduta di Monreale dalle campagne di Palermo.
Anche questa fotografia è tratta dalla guida "Sicilia",
opera citata

Le fotografie di quel paesaggio perduto sono tratte dalla guida "Sicilia" edita nel 1921 dal Touring Club Italiano e dall'Ente della Direzione Generale delle Ferrovie dello Stato per la collana "Guide regionali illustrate", e dall'opera "Sicilia" di Giovanni Comisso, edita a Ginevra nel 1953 da Pierre Cailler ( i due scatti portano la firma di Rudolf Pestalozzi ).
Il disegno con la veduta di Monreale e le campagne circostanti è invece una litografia datata 1836 di Ferdinando Cona prodotta da Minneci e Filippone a Palermo.

Una litografia di una veduta di Monreale
realizzata nel 1836 da Ferdinando Cona,
opera citata 




mercoledì 11 febbraio 2015

PARADOSSI DI UNA SCIATA SULL'ETNA


Il tono seppia della fotografia, l'abbigliamento e l'attrezzatura del gruppo di sciatori sulle pendici innevate dell'Etna attestano che l'immagine riproposta da ReportageSicilia risale ad un passato ormai lontano.
Lo scatto venne pubblicato nel 1938 dalla guida in lingua francese "Sicile", edita dall'Ente Nazionale Industrie Turistiche e dalle Ferrovie dello Stato.
La fotografia - la cui didascalia recita "sport d'hiver sur l'Etna" - non manca di una certa suggestione, lasciando immaginare la faticosa marcia di quegli sciatori nel silenzio di una luminosa giornata invernale, quando sopra i 1800 metri il vulcano fa registrare temperature medie sotto lo zero.
Con gli sci sulle pendici di un vulcano, dunque, e con la vista che può arrivare sino al mare: in fin dei conti, l'Etna altro non è che uno dei tanti e diversi esempi di eccezionale paradosso offerti dalla Sicilia
   

martedì 10 febbraio 2015

DISEGNI DI SICILIA

 
 
Pubblicità Azienda Autonoma Turismo Palermo e Monreale
tratta da "Handbook for Italy" di Giovanni Mariotti,
Edizioni Saturnia, 1952

lunedì 9 febbraio 2015

SELINUNTE, LE ROVINE CHE RACCONTANO L'ORRORE DELLE GUERRE


Testimonianza della cultura greca nell'isola, i ruderi selinuntini simboleggiano da secoli le devastazioni provocate dai conflitti; nel 1957, Guido Piovene li indicò come il luogo della meditazione in Sicilia 


Uno scorcio del tempio C di Selinunte.
Le fotografie del post sono tratte dall'opera "Sicilia"
edita nel 1971 da Electa su commissione
della Banca Nazionale del Lavoro


L'area archeologica di Selinunte non è soltanto uno straordinario esempio di architettura della Magna Grecia in Sicilia e nel bacino del Mediterraneo.
Le colossali rovine della colonia fondata dai coloni siracusani di Megara Hyblaea, sono anche la testimonianza visibile degli effetti di una guerra su una città: distruzioni allora condotte con mezzi meno sofisticati rispetto all'era contemporanea, ma altrettanto rovinose e definitive.


Una veduta area dei templi

Allora come oggi, la guerra ebbe i suoi "effetti collaterali" tipici di ogni conflitto: razzie, violenze e massacri che costarono la vita a 16.000 selinuntini.
Altri 5.000 loro concittadini vennero invece fatti prigionieri e 3.000 invece vissero lo status di profughi.
La devastazione di Selinunte e dei suoi templi, compiuta dai Cartaginesi nel 409 avanti Cristo, a distanza di oltre due millenni si presente intatta ed impressionante ai visitatori.
Si tratta di una distruzione permanente, che nel corso dei secoli non è stata cancellata dalla riedificazione degli edifici, così come accaduto, ad esempio, per le città colpite dalle bombe del secondo conflitto mondiale.


Una veduta dell'area archeologica
con i resti dei templi D e C 

Selinunte è una città ridotta per sempre a rovina dal corso della storia; quei monumentali ruderi testimoniano così non soltanto l'impronta architettonica della Grecia in Sicilia, ma anche l'orrore delle guerre, capaci di cancellare le opere prodotte dall'ingegno e dal lavoro della civiltà.
Nel 1957, lo scrittore Guido Piovene paragonò gli effetti di quella distruzione bellica ad un "cataclisma in atto", e indicò le rovine di Selinunte come il luogo siciliano che più induce alla meditazione:  

"E' una delle tante discussioni oziose se sia più bella Selinunte, o Agrigento; ma il mondo greco - si legge in "Viaggio in Italia" ( Mondadori, 1957 )è così vario, anche restando nell'ambito della Sicilia!
Le sue rovine toccano tasti così diversi in noi!
Giacché in queste cronache abbiamo usato spesso, non trovandone di migliori, una parola impropria, romanticismo, diremo che per seduzione romantica non ancora insidiata né dalla vita moderna né dagli studi, Selinunte non ha l'eguale.
Qui non si vede né citta né villaggio, ma soltanto rovine sul terreno sabbioso.


Il colonnato del tempio E
ed una distesa di rocchi di altri templi

Si pensa ad uno stupendo verso del Tasso, 'e l'alta sua ruina il lido serba'. Unico non imminente pericolo la spiaggia balneare di Marinella, ancora embrionale e fuori del quadro.
Nella piana sono i tre templi, l'uno presso dell'altro, così detti orientali, contrassegnati con le lettere G, F, E dagli archeologi.
Quello G è colossale, di pochissimo meno vasto del tempio agrigentino di Giove.
Ma le rovine sono anche più impressionanti. Penetrando nei templi, si è circondati da una panoramica di massi come da un panorama di rupi; come su rupi vi si arrampica.
Tra pilastri, colonne, capitelli sbilenchi, arrovesciati alla rinfusa, si ha una specie di illustrazione della distruzione biblica, o dei giganti folgorati da Giove.


I templi F e G visti dal tempio E

Si direbbe di assistere ad un cataclisma in atto, quasi che un film riprendente dal vero un terremoto si fosse fermato d'un tratto, ed il crollo degli edifici apparisse fissato in un attimo di sospensione paurosa.
E' la contemplazione paradossale di un terremoto immobile, eppure vivo.
Non è una visione serena. Le rovine propagano un sentimento di apprensione, portano il senso di un castigo.
Sensazioni diverse si hanno raggiungendo l'Acropoli, sulla collinetta occidentale che sovrasta la spiaggia divisa da due strade in croce, e cinta da grandiose mura.
L'Acropoli chiude gli avanzi di almeno di almeno cinque templi nel più bel stile dorico. Ma le strade che la percorrono sono come sommerse dai cespugli, ricoprenti la cima piatta, punteggiati di bacche, misti a pietre che affiorano.


I resti del tempio D

Vi si nascondono gli uccelli e i conigli selvatici; l'assenzio dalla fronda chiara, piumosa, ed il prezzemolo selvaggio che diede a Selinunte il nome, variano il fondo scuro degli altri arbusti quasi macchie di luce.
E' forse questo il luogo della Sicilia che invita maggiormente alle soste meditative, tra fruscii d'animali e canti d'uccelli.
Sotto si vedono le spiaggette giallastre, e un mare d'un azzurro straordinariamente leggero, quasi infantile, da cui sale la brezza..." 


     

domenica 8 febbraio 2015

PAESAGGI EOLIANI D'INIZIO NOVECENTO

La remota e selvaggia bellezza dell'arcipelago messinese in dieci fotografie tratte da una guida del TCI e delle Ferrovie dello Stato edita nel 1921


La locanda della vedova Renda, a Stromboli,
unica struttura alberghiera dell'isola
agli inizi dello scorso secolo.
Le fotografie riproposte da ReportageSicilia
vennero pubblicate nella guida "Sicilia"
edita dal TCI e dalle Ferrovie dello Stato nel 1921
per la collana "Guide Regionali Illustrate"

"Manca assolutamente d'alberghi qualsiasi e d'ogni conforto.
Si è però accolti benevolmente ed in qualche modo serviti ed alloggiati presso la vedova Renda.
Conviene portarsi scatole di conserve e bottiglie di acqua minerale non essendovi che acqua di cisterna"

Con questi consigli nel 1919 la Guida Rossa del TCI della Sicilia descriveva le difficoltà di un soggiorno a Stromboli per i pochissimi viaggiatori che all'epoca decidevano di visitare le Eolie.
Agli inizi dello scorso secolo, le isole messinesi  vivevano una condizione di totale marginalità, aggravata dagli scarsi collegamenti navali con la Sicilia.
La vita quotidiana degli abitanti dell'arcipelago era durissima, specie nella stagione invernale, quando l'utilizzo degli elicotteri per il trasporto di generi di prima necessità era ancora sconosciuto. 
Il turismo - con i benefici economici e le inevitabili distorsioni della cultura locale degli ultimi anni - era un'attività quasi assente, limitata alle escursioni di pochi studiosi della natura vulcanica delle isole.


Sopra e sotto,
un veduta di Stromboli dalla cima di Strombolicchio
e la Sciara del fuoco



La povertà e la durezza della vita in gran parte delle Eolie erano state descritte mezzo secolo prima prima con queste parole dal geografo Elisée Reclus dopo una visita a Vulcano:

"Quantunque la superficie si estenda per 50 chilometri quadrati - notava Reclus nella relazione di viaggio "La Sicilia e l'eruzione dell'Etna", datata 1865 - Vulcano non è stabilmente abitata che da sei o sette operai intenti a farvi la raccolta di zolfo e di acido borico o di allume.
L'officina è un mischino tugurio che per colore si confonde colle rocce circostanti; gli operai, veri trogloditi, succinti in sordide vesti, alle quali la polvere della lava dona una tinta di ruggine, dimorano negli antri di Vulcanello.


Sopra e sotto,
il vallone Mulinelli ed una visione delle Eolie a Vulcano



Tentarono di coltivare legumi nella convalle delle ceneri e delle scorie, ma invano; ogni fil d'erba vi si spegne, e tra i molti frutteti colà piantati non restano che due o tre ceppaie di fichi rattrappiti e morenti.
Ogni settimana deesi aspettare da Lipari ogni sorta di vitto; se per malaventura il battello delle provvisioni mancasse ad uno solo dei suoi viaggi, la piccola popolazione di Vulcano sarebbe condannata a perire di fame"


Sopra e sotto,
Cala Malfa a Salina



   
Ancora la Guida Rossa del TCI, 54 anni dopo la descrizione di Reclus promuoveva così i viaggi alle Eolie:

"La visita di queste isole, cui la natura essenzialmente vulcanica conferisce uno specialissimo carattere, è del massimo interesse.
Attratti ed assorbiti dalle altre bellezze sicule ed anche, del resto, scarsamente informati su quanto si riferisce alle Eolie, i turisti le hanno sempre trascurate, ma a torto.
Esse debbono invece almeno formare oggetto di un'escursione di due giorni, ma possono causarne una di parecchi giorni: anzi, possono costituire lo scopo di un viaggio a sé..."

In un'altra opera edita due anni dopo dal TCI in collaborazione con le Ferrovie dello Stato ( "Sicilia", collana delle Guide Regionali Illustrate, 1921 ), furono pubblicate alcune fotografie delle isole, ora riproposte da ReportageSicilia.
Anche in questa guida non mancano indicazioni che rendono l'idea dello spirito allora necessario per visitare un arcipelago lontanissimo dagli attuali standard di vita:

"Per una gita nelle Eolie, che racchiudono tutte le manifestazioni delle varie forme e delle varie fasi dei vulcani, conviene andare da Milazzo a Lipari col piroscafo; in barca da Lipari a Vulcano e viceversa; col piroscafo si può visitare in seguito Salina, Panaria e Stromboli e, volendo, anche Filicuri e Alicudi, predisponendo l'itinerario in modo da pernottare a Lipari ed a Stromboli.
Ma chi volesse compiere una gita completa - godendo tutta la bellezza dell'arcipelago - dovrebbe a Lipari prendere a nolo, nella buona stagione, una barca a vela e quattro rematori - e con essa, con libertà assoluta di programma, o combinato con gli orari dei piroscafi, si potrebbe in quattro giorni completare l'escursione sì varia e pittoresca che pel turista, pel botanico, pel geologo, offre largo campo di studi e di bellezze naturali.
Partendo da Milazzo, a circa 38 chilometri e mezzo, è Lipari; lungo la navigazione si gode un panorama incantevole sulla costa occidentale della Sicilia alla quale, in fondo alle verdi vallate ed alle ripide fiumare, fanno sfondo le Caronie, le Madonie ed i monti Peloritani dominati dalla piramide nevosa del Mongibello..."

Oggi le Eolie sono una meta ordinaria di viaggio e per appassionati della natura e per i semplici turisti italiani e stranieri che desiderano bagnarsi in un mare quasi ovunque pulito.


Sopra e sotto,
una panoramica del centro abitato a Lipari e Canneto



Alberghi, residence, B&B e case private hanno cancellato il centenario ricordo della "benevola accoglienza"  offerta dall'alloggio della vedova Renda a Stromboli.
Né più e né meno di quanto accaduto in altre isole minori, insomma, le Eolie hanno perso quel fascino selvaggio che sino a qualche decennio fa ne faceva luogo frequentato da pochi e spesso bizzarri ospiti.


Il centro abitato a Salina

Tuttavia, chi riconosce ancora all'arcipelago vulcanico il titolo di isole di vento e di fuoco, non può non approvare quanto suggerito dalla scrittrice milanese Gin Racheli:

"Le Eolie - si legge nel volume "Eolie di vento e di fuoco" ( Mursia, 1977 ) - sarebbero fatte per un turismo raccolto, attento, capace di silenzio; sono fatte per un'esperienza interiore profonda di incomparabili e irripetibili incontri con la natura, la storia, l'arte.
La loro dimensione fisica non consente i grandi numeri, non è compatibile con le grandi masse.
Perciò quel che vi accade in agosto è pura follia, è incivile, è esattamente il contrario di quanto per noi è la vacanza.
Da un lato quindi sconsigliamo nella maniera più decisa e convinta di visitare l'arcipelago tra il 20 luglio e il 31 agosto: i mesi più raccomandabili sono aprile, maggio, giugno, settembre e ottobre..."  
  
  


venerdì 6 febbraio 2015

LA PRIMA TARGA FLORIO E IL TAGLIO DEL GRANO DI BONFORNELLO

Un racconto di Beppe Fazio pubblicato su "Civiltà delle Macchine" nel maggio del 1956 ricorda nomi ed aneddoti della prima edizione della gara, vecchia allora di cinquant'anni


Cambio di una ruota di un partecipante
ad una delle prime edizioni della Targa Florio.
L'opera venne realizzata dall'artista romano Duilio Cambellotti.
Le immagini e le fotografie riproposte da ReportageSicilia
furono pubblicate dal bimestrale "Civiltà delle Macchine" nel 1956,
in occasione del cinquantenario dell'evento sportivo siciliano.
ReportageSicilia ripropone anche un ampio stralcio del racconto di Fazio
dedicato alla prima edizione della Targa, nel maggio del 1906


Il 1956 coincise con il cinquantenario della Targa Florio.
L'anniversario venne celebrato dalla rivista "Civiltà delle Macchine" - edita a Roma da Finmeccanica - nel numero pubblicato per il bimestre maggio-giugno grazie ad un reportage del giornalista Beppe Fazio.
La narrazione di Fazio citò allora parecchi stralci dell'anonimo racconto della prima edizione della Targa Florio pubblicato all'epoca sul primo numero della rivista "Rapiditas", organo ufficiale di informazione della corsa madonìta dal 1906 sino al 1930.
La prima edizione della Targa prese il via all'alba della domenica del 6 maggio di 109 anni fa sul "Grande Circuito delle Madonie", con appena dieci vetture alla partenza: uno sciopero improvviso dei lavoratori marittimi rese impossibile lo sbarco in Sicilia di molti altri equipaggi. 
Base logistica della manifestazione fu il Grand Hotel delle Terme di Termini Imerese e, come è noto, il settore delle Tribune fu posto fra Campofelice e Bonfornello, a due passi dalle allora semisconosciute rovine del sito archeologico di Himera.
L'adesione del pubblico fu massiccia, in linea con quanto sarebbe accaduto nei decenni in cui la Targa Florio fu prova valida per il Campionato mondiale Marche: i primi due treni con 30 vagoni partirono da Palermo alle 3 ed alle 3.30 della notte, e fecero la spola a pieno carico dalla Stazione Centrale sino a Bonfornello per almeno tre ore.
Il racconto di Beppe Fazio - che "Civiltà delle Macchine" corredò con alcune fotografie delle vetture in gara e le note illustrazioni di Marcello Dudovich, Duilio Cambellotti e Aleardo Terzi - ricostruisce l'atmosfera di quella prima pioneristica Targa Florio, a metà strada fra evento sportivo ed appuntamento mondano.


Mondanità sulle Tribune poste fra
Campofelice e Bonfornello.
Quest'opera e quella che segue portano la firma
del disegnatore triestino Marcello Dudovich

Il dato agonistico della corsa passa in secondo piano rispetto al rilievo mostrato dall'accurata organizzazione della manifestazione da parte di un giovanissimo Vincenzo Florio.
L'inventore della Targa nel 1906 aveva appena 25 anni, ma dimostrava già quelle doti di intraprendenza e di organizzazione delle quali si è persa traccia da parecchi decenni in Sicilia.
Non è un caso che ancora ai nostri giorni l'unico evento siciliano conosciuto ancora fra molti appassionati sparsi nel mondo sia ancora, sempre ( e soltanto, purtroppo ) la Targa Florio.

"All'appello di Vincenzo Florio - scrisse Beppe Fazio - ben ventidue 'barriti crepitanti' risposero; anche se poi furono soltanto dieci le macchine che arrivarono in porto a Palermo, ospiti delle navi della flotta Florio, messe gratuitamente a disposizione ( un inopinato sciopero di portuali ne fermava dodici a Genova ).
Dieci macchine delle migliori case italiane e straniere, montate dai migliori assi del volante, ognuno col suo meccanico e, particolare gentile, accanto a un asso francese, una dama, Madame Le Blon, anche essa in veste di meccanico, anche le protegge il viso un femmineo bianco foulard di seta, che fa contrasto con la quadrata barba nera del marito.



Una nota gentile, che darà il 'la' alle targhe future, le quali saranno, non passerà un anno, le manifestazioni mondane preferite dalle signore; e si vedrà allora un comitato femminile d'onore composto dai più bei nomi dell'aristocrazia europea: la contessa d'Orsay, la principessa di Paternò, la Pignatelli, la principessa di Trabia, la Morosini, la marchesa di Soragna e infine, bella tra le belle, donna Franca Florio ( ai vecchi palermitani si incrina ancora la voce quando la nominano ).
Ma quest'anno ancora le signore sono un po' restie ad emergere, come divinità scese in terra dall'Olimpo, dalle nubi dorate, sollevate dalle macchine in corsa.
La Le Blon è un'altra cosa, è un esempio di dedizione coniugale, più che di spirito sportivo, e in corsa, seduta sulla poltroncina della sua Hotchkiss, avvolto ormai strettamente il viso nel foulard, come in un sudario, fa pensare, più che a un meccanico, alla moglie indiana che segue lo sposo oltre la vita.
Ma quel primo anno la corsa è un'avventura di audaci, è un salto nel buio e, pur se 'ciascun uomo moderno vive dieci vite', come scriveva l'entusiasta cronista del 1906, bisogna cercare di portarle a termine in certo qual modo tutte e dieci, e chi ci garantisce che quei 'titani sconosciuti' non saltino le stecconate?
Ma Vincenzo Florio, questo giovane gentleman di venticinque anni 'animato dalla più generosa e ardente passione per lo sport' ha pensato a tutto: con la sua capacità di divinazione ha capito che il circuito delle Madonie, diverrà col tempo una corsa ben più importante di quel primo tentativo di dieci vetture.


La morte di un cavallo ed il trionfo
dei cavalli vapore sul tracciato della Targa Florio.
Anche quest'opera porta la firma del romano Duilio Cambellotti

L'automobilismo sta diventando un fenomeno di massa, in quei primi anni del Novecento e il mondo industriale, in quel momento, guarda quel che succede nella lontana Sicilia; e anche quella 'lieta festa del progresso' non del tutto riuscita, è un nuovo passo verso l'ingresso definitivo dell'automobile nella vita sociale.
Bisogna stare molto attenti per evitare critiche e incidenti.
La eco delle 'frasi mordaci' contro le gare automobilistiche non era ancora spenta, circolavano ancora 'macchiette eccitanti all'odio che tendevano a far passare gli appassionati della nuova macchina divoratrice dello spazio come maniaci macabri'.
A queste bisognavano contrapporre una organizzazione di ferro.
Si pensi alla forza pubblica che si riuscì a concentrare sul posto.
Contro i dieci 'bolidi scatenati' si schieravano in pieno assetto di guerra 'duecento carabinieri, un gran numero di agebnti di polizia, tremila uomini di fanteria di linea schierati lungo il percorso, una compagnia di bersaglieri ciclisti incaricata del servizio di staffetta'.
L'ironia è facile, ma allora, grazie a quei brevi militari, 'il servizio d'ordine funzionò a meraviglia' e non si verificarono danni agli spettatori.


L'arrivo di Victor Rigal su una Itala.
Nel suo reportage, Beppe Fazio
racconta che l'allestimento
delle tribune fra Campofelice e Bonfornello
fu realizzato grazie al taglio di alcuni campi di grano

Del resto il pericolo di una guerra era ben lontano e i bersaglieri di Lamarmora nell'attesa, potevano tranquillamente divertirsi a battere in volata le potenti Bayard-Clémant di Monsieur Fournier e di Monsieur Tellier, rappresentanti di quella sorella latina così arrogante ( ma quel giorno non bisognava parlarne ) nei confronti del nostro Paese.
Per ogni evenienza c'erano poi i dodici posti di soccorso della Croce Rossa, ma medici e crocerossine, in quell'assolata domenica di maggio, non si prodigarono 'che per offrire dei bicchieri di acqua gelata con alchermes alle signore e dei sorsi di cognac ai commissari' non bastando il 'ristorante appositamente attrezzato' a coprire il fabbisogno di 'rinfreschi e bibite di ogni natura'.
Per il pubblico c'erano poi da costruire le installazioni in legno, preferibilmente in stile moresco come è di uso in quei tempi, i chilometri di barriere, i duecento metri di tribune 'inghirlandate di foglie e frutti di limoni e di aranci' e i cavalcavia nei posti di passaggio più affollati, ornati con gran pavese.
Per i corridori c'erano i premi da preparare, fra cui fa spicco la bella Targa di bronzo dorato con Monte Pellegrino che si specchia, ad opera degli abili colpi di bulino dello scultore René Lalique, nel golfo di Palermo.
Per la storia, bisogna preparare le pubblicazioni sportive affidate a grafici di sommo valore ed artisti come Cambellotti e Dudovich.
Tutto in uno stile elegante e festoso come si conviene a un tempo su cui incombe 'il compito eletto di nobilitare col battesimo della bellezza tutte le sue conquiste'.


Vincenzo Lancia alla partenza al volante di una Fiat

Padrini di questo battesimo sono gli audaci del bel mondo, i pionieri della Targa Florio, gli spettatori in panama bianco, per l'occasione con il cronometro all'occhiello, in luogo della consueta gardenia e le affascinanti spettatrici col candido parasole e le piume di struzzo sul cappello.
Un'eleganza degna del 'Derby' di Londra.
E mi si perdoni il raffronto, con una famosa manifestazione ippica, per una gara in cui il vinto dev'essere proprio il cavallo.
Ma il fatto è che questo nobile animale al tramonto, all'inizio del ventesimo secolo è ancora così pieno di vitalità che è impossibile ignorarlo o sopprimerlo.
Intanto quel Cambellotti che ce lo aveva mostrato morto sulla copertina di 'Rapiditas' nel 1906, in quella dell'anno dopo ne effigia tutto un branco, annitrente di rabbia verso una macchina che passa.
E i cavalli circondano, come ombre del passato, e quasi sommergono l'aurea vetturetta sulla Targa del 1908 ( la targa consegnata in premio al vincitore ).
Ma le stesse macchine si misurano ancora a cavalli; quella privata di don Vincenzo ne ha settanta, mentre il signor Ducrot nella sua industria di Palermo ne utilizza duecentocinquanta per le sue cento macchine e i bersaglieri chiamati in aiuto sul luogo della corsa, giungono sui loro 'cavalli d'acciaio'.
Spuntano fuori da tutte le parti questi cavalli.
Li cacci via e ti si avventano addosso, sotto forma di cavalli vapore, ti entrano in cinquanta, in settanta dentro i cilindri della tua macchina e ne escono trasformati in potenza come da quello di un prestigiatore.


Un passaggio del vincitore della Targa Florio del 1906,
il piemontese Alessandro Cagno alla guida di una Itala 

Certo era già una bella vittoria, l'aver rinunciato definitivamente alle quattro gambe artificiali dell'automobile che David Gordon proponeva qualche decennio prima. Ma rimanevano quelle carrozzerie da passeggio a cui manca soltanto la doppia coppia di quadrupedi dinanzi per farne un sontuoso tiro a quattro, e i corridori che si presentano al 'pesage' ( le macchine si pesano prima della corsa ) con un abbigliamento incerto tra la divisa del fantino e la tuta del meccanico, balzano sul sedile con abilità da maneggio.
Tu li vedi, sui documenti fotografici dell'epoca, quasi caracollanti su uno strano destriero.
Vedi Graziani che sembra frustare la groppa metallica della sua 'Itala' e il meccanico di Cagno che al traguardo fa il gesto del cavaliere che tira le briglie.
E' un residuo ancestrale che opera tuttora nel fondo degli uomini moderni?
Ma ritorniamo al nostro circuito.
Il cavaliere Vincenzo Florio vi si trova già da qualche ora, quando l'alba comincia a indorare le bandiere di tre nazioni che garriscono sui pennoni delle tribune.
Il duca Airoldi e il conte di Mazzarino arrivano sulle loro 'settanta cavalli' mentre i contadini dei paesi vicini sopraggiungono più lentamente sui carretti variopinti, tirati dalle loro giumente, appena in tempo prima che la strada sia 'consegnata' e alla stazione provvisoria 'stabilita per l'occasione al punto di partenza della corsa' impiegati, commercianti, professionisti e operai della città sono incessantemente vomitati dai treni speciali.
Circa ventimila se ne riunirono sul posto tra nobili, borghesi e plebei.



Al sorgere del sole la campagna di Bonfornello 'offriva un magnifico colpo d'occhio' tanto che il raccolto del grano andò perduto per diversi ettari attorno alle tribune.
Alle 5.30 le dieci vetture sono in linea.
Alle 6.00 lo starter G. M. Marley, cronometrizzatore dell'ACI, dà il via con il consueto stile al primo partente, Lancia su Fiat.
'Essendo stato il circuito sottoposto alla vigilia ad un processo di
vestrumitaggio con Fix la partenza dei corridori non solleva troppa polvere'.
Ma sia detto francamente, il vestrumitaggio con Fix non ci persuade molto. Sulle fotografie un po' sbiadite biancheggia, dietro ogni macchina, una densa scia di polvere e nonostante i dieci muniti d'intervallo, siamo sicuri che la barba nera di Monsieur Le Blon, secondo alla partenza, dovette ben presto ingrigire, non certo per la paura in un uomo di quella tempra.
Nella nube dei coniugi Le Blon s'immergeva Cagno, poi seguito da Achille Fournier. Bablot è il quinto a partire e il sesto Pope.
L'inglese 'parte secondo la tradizione con un grosso sigaro tra le labbra'.



Pure, ai rifornimenti, è proibito fumare, sarà partito col sigaro spento? Forse la Storia non chiarirà mai questo particolare, ma la Fortuna punì il suo esibizionismo. Pope 'ebbe un tubo spezzato perciò rimase in panne'.
Intanto incominciano ad arrivare i primi dispacci.
Nel circuito vi sono otto stazioni telegrafiche allacciate con un ufficio telegrafico provvisorio fornito di quattro macchine Morse.
Una bella rete per gli aficionados del totalizzatore e per i cronometristi.
Il sole comincia a scottare e un ansioso calore s'impadronisce della folla presente.
Non sono ancora passate tre ore, quando a un tratto 'un colpo di cannone da Campofelice annuncia l'entrata' del primo nel rettifilo del traguardo. Era tempo che all'opera della fanteria e dei bersaglieri si unisse quella dell'artiglieria.
'Subito dopo una tromba squilla' e Lancia passa come un razzo, poi Cagno 'che ha guadagnato sette metri'. De Caters 'passa a capo scoperto avendo perduto il suo berretto'.
Ma 'quando il cannone tonò novamente' fu Cagno a passare per primo fra le altissime acclamazioni 'avendo oltrepassato Lancia, che si credeva sempre in testa, facendo mostra di superbo sforzo' e non si avvide del sorpasso, forse a causa della densa nebbia che ormai avvolgeva, nonostante il vestrumitaggio, cose e persone.
Il passaggio di Le Blon è applauditissimo, soprattutto per 'il coraggio di cui ha dato prova e per la sua vettura ancora in perfetta tenuta' ( si sottintende forse, nonostante l'opera di meccanico apprestata dalla moglie?).



Poi passa De Caters 'sempre a capo scoperto', evidentemente non ha avuto il tempo di fermarsi a raccattare il cappello. Intanto 'si apprende che Achille Fournier è stato arrestato per avere investito un paracarri'. Il provvedimento sembra eccessivo, ma con tanta forza pubblica, che volete, bisogna pur fare qualcosa.
Pope ha avuto un indugio 'per mancanza di benzina' o forse perché non trova i fiammiferi? Questo inglese con la faccia grassa e molle, unico corridore privo di baffi, non ci piace molto.
Rigal il 'favorito delle scommesse' e Bablot 'il grande favorito francese' hanno commesso, vedi fatalità, la medesima distrazione: 'per un deplorevole equivoco, versarono acqua invece di essenza nei loro serbatoi'.
Sono le 3,52' e 22", quando Cagno tocca il traguardo e con un colpo di freno spacca il cardano ( un episodio bello come il cuore del messaggero di Maratona che si spezza alla meta ).
'L'eccellente conduttore è portato in trionfo' però poteva andarci più adagio a frenare.
Graziani è secondo. Bablot è terzo e quarto Rigal nonostante l'acqua bevuta. De Caters arriva quinto, ma il suo copricapo è per sempre perduto. L'intrepida signora Le Blon che è riuscita financo a mantenere immacolato il suo serico foulard, in un percorso dove di solito 'i meccanici vomitano' 'si mostra sorridente e non molto stanca', mentre il marito si spolvera la barba che, sbattendo al vento della corsa sul suo petto, gli ha forse impedito un piazzamento migliore. Comunque gli sposi sono arrivati sesti.



Così si compiva cinquant'anni fa la prima 'Targa Florio', un esempio mirabile di 'organizzazione perfetta, di spirito agonistico, di interesse sportivo'.
Parli per noi la media tenuta di km 46,800 su 446,469 di percorso e la esiguità degli incidenti. Certo, per Bablot e Rigal, la benzina non è acqua, ma un cappello perduto , per De Caters, non è gran danno, anche se nel 1906 è vergogna camminare per le strade a capo scoperto, e il tubo rotto di Pope ci sembra proprio una punizione divina per l'eccessiva 'nonchalance' inglese.
Ma se i risultati tecnici di quella prima prova non furono molto notevoli, se quella corsa dell'ormai lontano 1906, fu piuttosto un torneo per divertire l'aristocrazia palermitana che una seria competizione sportiva, il fatto stesso che grandi piloti e grandi case vi partecipassero, anche senza troppo impegnarsi, come a un giro di prova, era già molto significativo.
Non più tardi di un anno, il nome di Florio doveva richiamare per la seconda volta l'attenzione dell'industria automobilistica mondiale, e con ben altri risultati, su quel roccioso lembo di terra siciliana, dove si disputava la Targa.
La corsa, si scrive nel 1907, è 'volta a fini eminentemente pratici'. Essa 'è destinata a fornire il criterio intorno alla consistenza, al valore dell'odierna industria automobilistica'.
Si fa strada nella mente degli organizzatori il concetto che una corsa non è soltanto un divertimento, ma anche un utile collaudo di macchine.
'Quello che sembrava un gioco o tutt'al più uno spettacolo di proporzioni più grandiose del consueto, ci appare come uno dei più complicati e dei più gravi affari a cui ci si possa accingere'.
E fu in quel secondo anno che si posero le basi di una tradizionale gara che rimane ancora una delle più importanti del genere, ed è divenuta, dal 1955, la prova decisiva per il 'campionato del mondo'.
Come sempre, si comincia per gioco e si finisce col fare sul serio...".