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domenica 28 settembre 2014

DISEGNI DI SICILIA


SCUOLA DEL MAESTRO DEL POLITTICO DI TRAPANI,
donna con fiore in mano sul soffitto ligneo di palazzo Chiaromonte,
Palermo, 1377-1380

MESSINA ED I MESSINESI DI GIUSEPPE LONGO

Dai ricordi autobiografici del saggista di "La Sicilia è un'isola" un ritratto della società cittadina dopo il terremoto del 1908

La processione della "gigantessa" a Messina,
che secondo la tradizione popolare sarebbe da identificare
nella moglie di un principe saraceno nata a Camaro,
borgata sui monti della città dello Stretto.
La fotografia porta la firma di Alfredo Camisa
e venne pubblicata nell'opera "Lo Stretto di Messina e le Eolie",
edita nel 1960 dall'Automobile Club d'Italia 

"Io nacqui nel deposito tramviario, dentro una vettura del tram a vapore Messina-Barcellona Pozzo di Gotto, rimasta inutilizzata per la scomparsa dei binari. Vi si installò tutta la mia famiglia. Tutto intorno sorgevano baracche e si po' dire che i miei primi vagiti li emisi in una baracca.
Me ne è rimasta una forma quasi allergica di ripugnanza per l'odore del legno fresco e della colla e l'amore per i saltimbanchi e per il provvisorio".

Questi ricordi autobiografici riguardano il giornalista e scrittore messinese Giuseppe Longo, cui ReportageSicilia ha dedicato di recente un primo post.
Figlio d'arte, il direttore del "Resto del Carlino" e del "Gazzettino di Venezia" nacque 17 mesi dopo il devastante terremoto che rase al suolo Messina nel 1908.


In questa e nella foto che segue,
volti ed espressioni di messinesi durante la processione
della Vara dell'Assunta, evento che si svolge il 15 agosto.
Le immagini sono di Alfredo Camisa, opera citata

Alle 5 e 20 del 28 dicembre, ventotto secondi di scosse distrussero oltre il 90 per cento della città; le vittime stimate furono oltre 60.000, ed i sopravvissuti in buona parte emigrarono fra Milano, Torino e Roma
Nell'opera "La Sicilia è un'isola" ( Aldo Martello Editore, 1961 ), Giuseppe Longo avrebbe rievocato il difficile periodo della sua infanzia nei primissimi anni della ricostruzione.



Più e meglio di un qualsiasi saggio di geografia umana, le pagine di quel libro offrono una illuminante chiave di lettura sui criteri di ricostruzione di Messina e sulle dinamiche demografiche che consentirono il ripopolamento della città.
All'emigrazione dei nativi - famiglie che, persi gli averi ed il lavoro, furono costrette a cercare nuova fortuna lontano dalla Sicilia - corrispose un'immigrazione di provenienza rurale, o di operai e piccoli imprenditori "continentali", pronti a sfruttare le opportunità offerte dalla ricostruzione della città.




Due immagini di Messina scattate nel 1911,
quando la città vide la nascita dei nuovi quartieri
dopo il terremoto del dicembre del 1908.
Le fotografie sono tratte dal I volume della guida
"Sicilia", edita dalle Ferrovie dello Stato e dal TCI nel 1921


Il terremoto del 1908, insomma, a distanza di pochi decenni ha contribuito a rendere Messina la meno siciliana fra le città dell'isola, nell'aspetto della sua architettura e nel carattere dei suoi abitanti. 
Ancor oggi, le attività commerciali e gli interessi dei messinesi sono rivolti più verso Reggio Calabria che verso Palermo o Catania.

"La sorte volle  che io nascessi, dopo il terremoto di Messina, in una città nuova, tutta odorosa di legno di picpine.
Nei primi mesi del 1909, quando era presidente degli Stati Uniti Teodoro Roosevelt, ci arrivarono i primi aiuti americani sotto specie di immense quantità di assi piallate di picpine, uno dei legni più duri che si conoscano, destinate a fabbricare baracche per i sopravvissuti del terremoto del 28 dicembre 1908.


Una veduta di Messina dal ferry-boat.
L'immagine è di Patrice Molinard ed è tratta
dal volume "La Sicile", edito a Parigi da Del Duca nel 1957 

Tutte le navi che giungevano nel porto sconvolto erano cariche di legname proveniente da tutte le parti del mondo.
Si trattava, nientemeno, di costruire abitazioni per cinquantamila persone...
Di quel tempo non ho nessuna memoria.
Ho, invece, sempre davanti agli occhi le sterminate distese di baracche del quartiere americano, le strade dritte e intersecantisi che lo percorrevano, chiamate quali col nome di personaggi americani, della politica e dell'esercito, talvolta oscuri sottufficiali, e quali con numeri romani: via Bicknel o Traversa XIV che i messinesi pronunciavano quattordici.

Scena di vita quotidiana a Messina
dinanzi le absidi della chiesa di San Francesco d'Assisi.
La fotografia è di Josip Ciganovic ed è tratta
dal I volume dell'opera "Sicilia edita nel 1962 da Sansoni
e dall'Istituto Geografico De Agostini

La ricostruzione della città, che avvenne dopo, e forse oggimai finita , fu fatta seguendo i tracciati di queste strade e sostituendo alle baracche piccole casematte di cemento, armato formidabilmente di ferro, ad un solo piano, tal che le bombe dell'ultima guerra le sfondarono, le sbrindellarono, ma non riuscirono a farle saltare o demolire.
In una città siffatta l'essenza della sicilianità non poteva non risultare sbiadita, onde sarebbe vano farvi ricerche per ricavarne elementi validi in assoluto a circostanziare i caratteri psicologici dell'isola.

Pescatori sulla banchina del porto.
Anche questa immagine è di Josip Ciganovic, opera citata

A parte il fatto che dei cento e più mila abitanti che s'addormentarono la sera del 27 dicembre 1908 non più di trentamila si svegliarono vivi la mattina dopo, bisogna considerare che ben presto vi si aggiunsero decine di migliaia di forestieri calati dal settentrione, chi per recare soccorso, chi per predare, chi per speculare sulla ricostruzione.
E codesto afflusso produsse, nel giro di pochi anni, una grande confusione di lingue che ancora dura.
Si formarono nuove famiglie miste e le giovani generazioni, arrivate a vent'anni, si trovarono a vivere in una città semicoloniale che aveva perduto i caratteri peculiari della sicilianità..."














venerdì 26 settembre 2014

I BAMBINI DI ASPRA SCOMPARSI E MAI RITROVATI NELLE GROTTE DEI SARACENI

Dispersi nei secolari cunicoli di una cava di tufo nel maggio del 1968.
A distanza di 46 anni, il sottosuolo di Aspra non ha mai restituito alcuna traccia dei tre amici di nove, dieci ed undici anni 

Le vane ricerche di Giuseppe La Licata, Vincenzo Astorino e
Domenico D'Alcamo nelle grotte delle vecchie cave di tufo
di S.Isidoro, nel territorio palermitano di Aspra.
I tre bambini avevano deciso di esplorare i cunicoli
con un lumino: a 46 anni dalla tragedia,
le grotte non hanno ancora restituito i loro resti.
Le fotografie del post - ad eccezione della veduta di Aspra - vennero pubblicate
dalla "Domenica del Corriere" del 28 maggio del 1968

Il mistero della loro scomparsa risale alla sera di giovedì 9 maggio del 1968 e dopo 46 anni non ha trovato ancora soluzione.
Oggi Giuseppe La Licata, Vincenzo Astorino e Domenico D'Alcamo avrebbero rispettivamente 55, 56 e 57 anni.
I tre - all'epoca di nove, dieci ed undici anni - fanno parte di quel gruppo di sei bambini spariti nel nulla nei decenni passati in quella zona della provincia di Palermo compresa fra Aspra, Porticello Casteldaccia.
Giuseppe, Vincenzo e Domenico furono i primi di questa tragica lista, nella borgata marinara frazione di Bagheria; nel novembre del 1970, nella frazione di Santa Flavia, fu la volta di Giovanni Bellìa di nove anni; il 31 marzo del 1992 si persero invece a Casteldaccia le tracce di Salvatore Colletta, 15 anni, e Mariano Farina di 12.





I tre bambini di Aspra, borgata di pescatori e braccianti agricoli, frequentavano la locale scuola elementare.
Usciti dal doposcuola alle quattro del pomeriggio, erano tornati a casa per posare libri e quaderni ed erano riusciti in strada dicendo ai genitori che sarebbero andati a giocare insieme.

"I tre - scrisse Vittorio Paliotti sulla "Domenica del Corriere" del 28 maggio del 1968, in un reportage dal titolo "Preghiera per tre bambini"erano inseparabili. 
Li chiamavano, mi è stato detto, 'i tre pesci' perché erano abilissimi nel nuoto, e, anzi, avevano anche un quarto amico inseparabile, Ignazio Prezioso, di dieci anni, ma quel pomeriggio, contrariamente al solito, Ignazio non si era unito a loro.
Alle dieci di sera, dunque, visto che i tre ragazzi non erano ancora rientrati nelle abitazioni, i genitori cominciarono a stare in ansia.


Una veduta di Aspra,
 in una fotografia di ReportageSicilia
Giovanni La Licata, pescatore, padre di Giuseppe, Vincenzo Astorino, muratore, padre di Vincenzo e Clemente D'Alcamo, padre di Domenico, dopo essere andati in giro qua e là per raccogliere notizie, pensarono di rivolgersi al quarto bambino, a Ignazio Prezioso, e domandare a lui se sapesse qualcosa".

Ignazio fornì un'indicazione che avrebbe d'ora in poi aggiunto un tassello fondamentale nella drammatica vicenda della scomparsa di Giuseppe, Vincenzo e Domenico.

"'Sì, io lo so dove stanno quei tre. Sono andati a esplorare le Grotte dei Saraceni. Volevano portare anche me, ma io ho rifiutato', disse Ignazio. 'Sei sicuro?' 'Sicurissimo. Sono andati perfino a comprare una candela, nella bottega della zia Maria, per farsi luce nelle grotte'.
E zia Maria, che ha proprio un emporio in piazza, confermò: nel primo pomeriggio, Giuseppe La Licata aveva acquistato, pagandolo dieci lire, un lumino".

Le grotte dei Saraceni - così chiamate perchè assicurarono rifugio alla popolazione locale nei secoli delle incursioni barbaresche in Sicilia - si trovano nel territorio fra Aspra e Bagheria; sono conosciute anche con il nome di grotte di S. Isidoro.
Si tratta di un complesso di centinaia di cavità artificiali e naturali sfruttate a partire dal periodo arabo per l'estrazione di pietre di tufo: un intrico di cunicoli collega molte di queste grotte, in condizioni di luce e di aria precarie, tali da renderne difficile la completa esplorazione.



Ad Aspra, correva voce che quarant'anni prima un uomo era impazzito dopo avere tentato di cercarvi quello che un'immancabile voce popolare indicava come un tesoro.
Gli anziani della borgata raccontavano allora che le grotte conducessero sino al mare, o addirittura sino a Palermo, distante da Aspra una quindicina di chilometri.
Qualche altro sosteneva invece che tutti i cunicoli convergessero verso un pozzo profondissimo.
Da un punto di vista tecnico, le grotte dei Saraceni altro non sono quelle che il geologo palermitano Pietro Todaro ha descritto come "muchate": lunghe gallerie di camminamento delle antiche cave di pietra edilizia.

"Ancora oggi - si legge nell'opera "Il sottosuolo di Palermo" ( Dario Flaccovio, 1988 ) - le cave di pietra in Tunisia vengono dette 'mughara' e presentano molte analogie con le 'muchate' palermitane...
Generalmente le coltivazioni venivano ubicate alla periferia della città ed iniziavano con lo scavo di una grande fossa di servizio.
Dal fondo di essa si penetrava nel sottosuolo attraverso galleria orizzontali seguendo l'andamento degli strati calcarenitici idonei ed assumendo perciò forme in pianta varie ed irregolari, spesso estese come grandi sale...
In superficie, pochi pozzi lasciati per la ventilazione, ma forse anche per l'emergenza, segnalano la presenza di queste tetre e buie cave in cui la fatica umana non aveva limiti e la notte e il giorno avevano lo stesso colore della fioca luce delle lampade ad olio posate negli incavi delle pareti...




Un labirinto intricato di lunghe gallerie squadrate, che il buio rendeva ancora più vaste della realtà, si sviluppa parallelamente al suolo, su uno o due ordini.
Le gallerie erano collegate da rampe inclinate e profonde fino a lambire le acque di falda, che rappresentano il limite massimo dello sfruttamento in profondità..."

Forniti del lumino acquistato da zia Maria, Giuseppe La Licata, Vincenzo Astorino e Domenico D'Alcamo si avventurarono all'interno del budello buio ed insidioso della "muchata".
Forse avevano pensato da tempo a quell'esplorazione, affascinati dalle voci della presenza del tesoro, forse spinti semplicemente da quella curiosità adolescenziale che spesso mischia il coraggio all'incoscienza.
Forse uno di loro si spinse troppo in avanti, e gli altri due tentarono di raggiungerlo, perdendo l'orientamento; e forse il lumino si spense, ed il loro cieco tentativo di ritrovare una via d'uscita ebbe fine dopo la caduta in fondo ad un profondo cunicolo.  



"I pescatori di Aspra, quella sera stessa, penetrarono nelle Grotte dei Saraceni.
'Per non rischiare di smarrirmi, dato che quelle grotte sono un autentico labirinto - scrisse ancora Vittorio Paliottimi feci legare con una fune lunghissima e, strisciando per terra, percorsi oltre quattrocento metri.
Purtroppo, non trovai traccia dei tre bambini', mi racconta Clemente D'Alcamo, papà di Domenico.
Mentre Clemente D'Alcamo esplorava una grotta, altri pescatori, sempre legati a una fune, che fungeva da filo d'Arianna, ne esploravano altre. Ma dei ragazzi nessuna traccia.
L'indomani mattina, venerdì 10 maggio, furono avvertiti i carabinieri, i vigili del fuoco e gli agenti di pubblica sicurezza.
Ne arrivarono a centinaia, da Bagheria e da Palermo, con i gruppi elettrogeni, con le radio portatili e con i cani poliziotto.
I cani, annusati alcuni indumenti dei tre ragazzi, si diressero verso le grotte, ma non vollero entrare.
Vi entrarono invece, con i carabinieri e gli agenti, i vigili del fuoco.
Siccome molte grotte hanno ingressi piccolissimi, furono scelti i vigili più magri.
'Facemmo autentiche cordate, io e i miei colleghi, tenendoci legati ciascuno a cinque metri di distanza dall'altro e per ore ed ore percorremmo strisciando ventre a terra, le grotte.



Poi dovemmo ritirarci, perché ogni tanto il terreno franava: precipitava su di noi terriccio da tutte le parti e più volte rischiammo di rimanere noi stessi seppelliti', mi racconta il brigadiere dei vigili del fuoco Giovanni De Fazio"

Le ricerche di Giuseppe, Vincenzo e Domenico durarono tre giorni e due notti: non diedero alcun risultato, anche se è probabile che non tutte le grotte - alcune delle quali poco conosciute - vennero allora esplorate con attenzione.
Le operazioni di soccorso confermarono le insidie dei cunicoli: tre pescatori di Aspra che si erano uniti ai volontari furono tratti in salvo dai vigili del fuoco dopo essere stati bloccati da una frana.
Soccorritori e forze dell'ordine presero in considerazione anche la possibilità che i tre ragazzini fossero stati portati via da un gruppo di zingari o avessero rubato un'imbarcazione e fossero annegati in mare: anche queste ipotesi non trovarono alcuna conferma.
Senza esito furono anche le verifiche di una segnalazione che indicava la presenza dei tre compagni di scuola a Torino
Non mancarono neppure i mitomani: un uomo con problemi psichici condusse per cinque ore le ricerche dei carabinieri nelle campagne di Bagheria.


Anche le voci secondo cui i tre amici avessero scoperto qualcosa che non avrebbero dovuto vedere ( Bagheria è cittadina tristemente nota per vicende di mafia ) non trovarono riscontri; né del resto una tale verità dei fatti sarebbe potuta essere confermata facilmente da qualcuno.
Nei giorni successivi alla scomparsa, Aspra visse una condizione di lutto collettivo.
Il 14 maggio, venne decisa la cancellazione di una processione in onore della Madonna di Fatima. 
Oltre duemila persone si raccolsero in preghiera dinanzi l'ingresso delle grotte, manifestando il dolore di un'intera comunità.
Nei genitori e nei parenti di Giuseppe, Vincenzo e Domenico, l'angoscia lasciava in qualche caso spazio alla speranza; una speranza che l'amore trasformava in illusoria certezza: 

"La signora Grazia Brunetto, madre di Vincenzo Astorino, è stata colta da malore. Giace riversa in un letto e ogni tanto domanda: 'sono tornati?'
Le donne che le sono accanto non rispondono, perché non hanno il coraggio di dire che non sono tornati. 
Allora lei scatta dal letto:
'che cosa fate a fare queste facce di malaugurio? 
Io dico che torneranno. Secondo me non sono andati nelle grotte. Hanno fatto l'autostop e sono andati versi il continente. 
A dire che sono andati nelle grotte c'è soltanto Ignazio Prezioso. 
E Ignazio può avere sbagliato'".
  

martedì 23 settembre 2014

FRESCA E FRAGRANTE BUCCHERI

Il paese degli alti Iblei è uno dei luoghi di quella provincia siracusana che Gesualdo Bufalino definì meta di viaggio "insolita e intelligente"


Bambini in corsa sulla scenografica scalinata
della chiesa di Sant'Antonio, a Buccheri.
La fotografia di Ezio Quiresi venne pubblicata
nel 1962 nel II volume dell'opera "Sicilia",
edita da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini 



Monterosso Almo, Chiaramonte Gulfi, Floridia, Vizzini, Canicattini Bagni, Giarratana, Scicli, Buccheri...
Molti paesi delle province sud orientali della Sicilia hanno nomi gentili e letterari, così come venata da una patina di rustica eleganza è la loro architettura storica, sia residenziale che religiosa.
Prima che la letteratura di Camilleri facesse conoscere i paesaggi del ragusano e del siracusano, Gesualdo Bufalino aveva invitato i viaggiatori a conoscere questi luoghi lontani dalle località più blasonate del turismo isolano.

Uno scorcio di Buccheri in una fotografia
di Josip Ciganovic pubblicata nell'opera "Sicilia", già citata

"Viaggiare - si legge in "Il fiele ibleo" ( Avagliano, 1995 ) -  significa scegliere. Non solamente un luogo a preferenza di altri, ma all'interno di quel luogo un itinerario, e all'interno di quell'itinerario, le fermate più insolite e intelligenti, dove si sposino meglio le lusinghe dell'oggi con le reliquie del passato, e lo spirito d'una gente si riconosca più da vicino.

Una prospettiva di Buccheri
nello scatto firmato PGS e pubblicato
nell'opera di Aldo Pecora "Sicilia",
edita da UTET nel 1974

Così, venendo in Sicilia, non limitatevi, dopo Catania e l'Etna, a una pigra ricognizione delle venerande glorie di Siracusa, quasi che questa rappresenti l'approdo finale del vostro viaggio e vi sia, dopo, il deserto; ma convincetevi di trovarvi all'ingresso d'una contrada dalle sorprendenti attrattive, la quale, per essere stata finora sottratta ai clamori del turismo di massa, tanto più si offre illibata e fragrante al visitatore..."

La fatica di un bambino
su una strada del paese ibleo.
L'immagine di Josip Ciganovic venne
pubblicata nell'opera di Aldo Pecora, già citata


La fastosa e plastica facciata della chiesa di S.Maria Maddalena,
espressione del barocco locale.
L'immagine è di Ezio Quiresi,
in "Sicilia", opera citata


Le fotografie riproposte da ReportageSicilia sono state scattate tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi del decennio successivo dello scorso secolo a Buccheri, il paese del siracusano che la Guida rossa del TCI del 1968 ricordava come luogo "frequentato d'estate per la purezza dell'aria e la freschezza delle acque".
Il centro abitato ha origini arabe, e fu contea normanna e poi principato a partire dal 1627: la storia insomma assegna alla cittadina degli alti Iblei un ruolo più che millenario nelle vicende dell'isola. 

Classica fotografia di anziani buccheresi in piazza.
Lo scatto è attribuito a Publifoto
ed è tratto da Aldo Pecora, opera citata

Buccheri è una delle molte località siciliane dove è possibile scoprire un sorprendente mondo di attrattive architettoniche in prevalenza barocche, oltre ad una natura ancora non stravolta dalla mano dell'uomo ( i boschi Santa Maria e Pisano, la gola della Stritta ): una meta insomma "insolita ed intelligente" che certo Bufalino continuerebbe a suggerire ancor oggi ai viaggiatori di Sicilia.

      

domenica 21 settembre 2014

SICILIANDO














"L'Europa, che comincia a nord con fiumi gelati e popoli dal pensiero lucido e senza vertigini, dopo il gran salto delle Alpi, si ingolfa, da questa parte, nel Mediterraneo e finisce lentamente con la Sicilia.
L'Europa che finisce: ecco la Sicilia"
Vitaliano Brancati

giovedì 18 settembre 2014

FERRARI, PASSIONE E RAMMARICO SICILIANO

Vincitrice in sette edizioni della Targa Florio, la casa di Maranello non ha mai dedicato un suo modello alla gara madonita: un tributo marchiato invece Porsche...

Abitanti di Collesano nei giorni del raduno organizzato dalla Ferrari
in Sicilia, in occasione del cinquantenario
 della casa modenese, nel novembre del 1997.
Le fotografie del post sono di ReportageSicilia

Sino all'ultima edizione mondiale del 1973, la Ferrari ha vinto per sette volte la Targa Florio, la prima nel 1948 ( Igor-Biondetti ), l'ultima nel 1972 ( Merzario-Munari ).
Le vetture di Maranello hanno avuto larghissimo seguito fra gli spettatori della gara, e la vittoria certo più importante per loro è stata quella del 1965.


Quell'anno, Nino Vaccarella vinse la Targa in coppia con Lorenzo Bandini ed è noto l'episodio che seguì quella gara: tornato a Collesano qualche giorno dopo il successo, Vaccarella venne insignito della cittadinanza onoraria con una cerimonia che mise precipitosamente fine ad una processione religiosa.
Proprio Collesano ospitò nel novembre del 1997 un raduno internazionale Ferrari organizzato in Sicilia in occasione del cinquantenario della fabbrica modenese.




Le fotografie del post furono allora realizzate da ReportageSicilia, fra gli abitanti del paese ed il circuito stradale nelle immediate vicinanze del centro abitato.
L'affetto dei siciliani per la Ferrari, dopo la fine della Targa Florio, non si è ovviamente esaurito.
I nostalgici della gara tuttavia ricordano qualche "disattenzione" che la scuderia del Cavallino ha loro riservato in qualche circostanza: fra quelle veniali, la mancata partecipazione all'edizione del 1971, ricordata come fra le più entusiasmanti di sempre. 
La delusione maggiore è invece legata all'assenza di un modello di serie Ferrari il cui nome rendesse onore alla Targa Florio.




Quel tributo ( riconosciuto invece dalla Ferrari al circuito di Daytona ) lo concesse la rivale per eccellenza dei prototipi di Maranello: la Porsche, il cui modello "Targa" continua ancor oggi a tramandare nel mondo il nome della gara di Vincenzo Florio.



mercoledì 17 settembre 2014

GLI ZAMPILLI ISLAMICI DI MONREALE

Nel 1952 l'orientalista Francesco Gabrieli descriveva la reale matrice araba della fontana del chiostro di Monreale

La fontana del chiostro di Monreale,
in una fotografia-cartolina data 1938 a firma B.G.P.

Illustri studiosi di storia e di arte isolana hanno dibattuto in passato sulla definizione da assegnare all'architettura sorta in Sicilia durante la dominazione normanna.
Ecco così che sono state coniate le espressioni "arte arabo-normanna", "siculo-normanna", "romanico-siciliana" o, ancora, semplicemente "normanna".
Il tentativo di etichettare con sicurezza quella stagione artistica si è insomma rivelato un fallimento; e, del resto, come si potrebbero riassumere le tante identità stilistiche siciliane del secolo XII, cui concorsero committenti normanni, architetti e maestranze islamiche, mosaicisti bizantini e scultori lombardi?


Particolare del bocciolo sferico
che sovrasta il fusto della fontana.
Quest'ultimo è la stilizzazione di una palma
ed è decorato con motivi chevron.
La fotografia è tratta dall'opera di Rodo Santoro
"Sicilia" della collana "Italia Romanica",
edita nel 1986 da Jaca Book

In anni recenti lo scrittore Stefano Malatesta ha fornito la sua versione delle cose, in maniera chiara e probabilmente più realistica rispetto ad alcuni storici dell'arte:

"Quella che viene chiamata arte arabo-normanna - si legge in 'La pescatrice del Platani e altri imprevisti siciliani' ( Neri Pozza, 2011 ) - è stata sempre molto più araba che normanna e va intesa così: i nobili normanni ordinavano e gli artigiani musulmani eseguivano.
Ma la maggioranza dei siciliani, orgogliosissima di vantare ascendenze normanne, si è sempre come vergognata di una possibile origine araba, un atteggiamento sociale e culturale ancor prima che religioso, diffuso a tutti i livelli.
Fino a qualche anno fa, quando un contadino, scavando nell'orto, trovava un pezzo di marmo romano o greco, lo metteva subito da parte, sapendo di poterlo vendere bene.
Se invece da sotto la terra compariva un frammento di quelle magnifiche maioliche invetriate islamiche che sono una delle glorie dell'arte, lo buttava, perché non aveva mercato..."




Ora, il manufatto siciliano che forse più di tutti gli altri ricorda nell'isola il lavoro degli artigiani arabi, e con un'impronta meno contaminata da successive ricostruzioni, è la fontana del chiostro di Monreale.
L'opera è costituita da un'ampia vasca circolare sulla quale si erge un fusto stilizzato di palma con decorazioni a "chevron" che sorregge un bocciolo sferico.
"Al di sopra - si legge nell'opera di Rodo Santoro "Sicilia" della collana "Italia Romanica", edita nel 1986 da Jaca Book - si alternano facce leonine ed umane e larghe foglie circondano la valva da cui zampilla l'acqua".
Scrisse l'orientalista romano Francesco Gabrieli nel 1952 in un articolo intitolato "La gloria di Monreale", pubblicato sul fascicolo speciale "Natale 1952" dedicato alla Sicilia  de "l'Illustrazione Italiana":

"Venite con me nel noto angolino moresco, contempliamo insieme la fontana a fusto di palma che stilla le sue lacrime nel bacino.
Non è oriente posticcio, posso assicurarvi, è oriente autentico; dalla Cordova omayyade alla Siviglia abbadita, a Damasco selgiuchide e mamelucca, sino a Bakhchisaray nella lontana Crimea, sacra al canto di Pushkin, questo stesso colore e questo suono hanno le mille fontane musulmane che anticiparono nei secoli, agli occhi, alle orecchie e al palato di pie generazioni assetate, le delizie del Paradiso coranico.



Al fruscìo di questa fonte dorme qui la Sicilia araba, vinta e imprigionata, ma non uccisa dai re Normanni; chè anzi alla stessa, come la "Grecia capta", vinse e catturò a sua volta con i suoi vezzi i ruvidi conquistatori del Nord.
Essi l'amarono, e si compiacquero di lei e un riflesso della sua bellezza vollero fermare anche qui, nel tempio della celeste Theotòkos.
Sinchè quest'angolo di bellezza durerà, qualcosa di quel felice momento della nostra storia mediterranea potrà rivivere in noi.
Abu-l-Hasan e figli, Abu Bekr il sarto, Zeid il falegname, la vedova di Mohammed e la sua famiglia, Alì l'andaluso...
Questi e tanti altri umili - centinaia di nomi oscuri, di uomini e di donne, elencati in arabo e in greco nella 'Platea' o registro bilingue del 1183, legati al servigio e alla dipendenza del monastero - vissero silenziosamente nella dipendenza del tempio per loro infedele, amarono, soffrirono, morirono.


Una visione d'insieme della fontana
all'interno del chiostro monrealese.
La fotografia è attribuita a Pedone ed è stata pubblicata
nel 1962 dal I volume dell'opera "Sicilia",
edita da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini

E mi tornano alla mente le parole del Manzoni su quelle generazioni longobarde ' passate senza lasciare traccia sulla nostra terra', cui si potevano ragguagliare queste modeste folle di contadini e artigiani d'origine e fede straniere, che dalla tolleranza dei Normanni ebbero assicurata vita tranquilla, libertà di coscienza e di culto, stato giuridico e tutela di legge all'ombra del maggior tempio siciliano..."

   


martedì 16 settembre 2014

DISEGNI DI SICILIA


ANTONINO GRAMIGNANI, incisione di Palermo, 
primo trentennio secolo XVIII

lunedì 15 settembre 2014

ALTRI RICORDI DI SALAPARUTA


Ancora personaggi e scorci del paese del Belìce cancellati dal terremoto del 1968 negli scatti di Angelo Oliva e del volume "Salaparuta ieri e oggi"
 
Raccolta di acqua a Salaparuta, nel 1930.
La fotografia, al pari di altre riproposte nel post da ReportageSicilia,
sono tratte dal volume di Baldassare Graffagnino "Salaparuta ieri e oggi",
edito a Palermo nel 1969.
Il libro raccoglie notizie ed immagini del paese
distrutto dal terremoto del Belice, nel gennaio del 1968

"La popolazione di Salaparuta - ha scritto Baldassare Graffagnino nel 1968 - ha in prevalenza i seguenti caratteri fisici: statura media, colorito bruno, capelli ed occhi neri o castani.
Quelli psichici sono: intelligenza sveglia, tendenze conservatrici, e rigido ed affettuoso governo della famiglia per la conservazione ed il miglioramento della quale si compiono volentieri grandi sacrifici; la cultura è media, comune la disposizione e l'indurimento alla fatica, il salitano è incline al risparmio ed alla sobrietà, talvolta è sospettoso per ignoranza o diffidente per malizia, è educato e religioso, può essere superstizioso per atavismo, sempre scaltro.

Ancora dal libro di Graffagnino,
una fotografia-ricordo di un matrimonio
scattata sulla scalinata della Matrice

Il salitano è di carattere schietto, alieno da obliquità maligne e malversate tendenze. L'educazione è religiosa e patriottica.
Da molto tempo si sconosce il delitto sevizioso, la grassazione, l'abigeato e la rapina.
I reati più comuni e sempre più rari sono le ingiurie, il pascolo abusivo, il furto campestre.
Come manca l'animo perverso, così pure manca l'inclinazione a delinquere.

Salitani a passeggio in corso Di Giovanni,
e, sullo sfondo, il profilo di monte Porcello

Ne è riprova la natura dei reati e la tenera età dei rei.
Eccezionali i casi di vagabondaggio e di accattonaggio o le irregolarità matrimoniali.
Il senso dell'onestà è unito al rispetto per l'Autoritò e all'ossequio alle leggi.
Fa contrasto a quanto precede la poca sofferenza delle tasse, conseguenza, forse, dell'antico e generale disagio economico..."

Foto-cartolina di un gruppo di ricamatrici.
Da Graffagnino, opera citata


La raccolta delle olive, una delle colture locali.
Da Graffagnino, opera citata



Già in un precedente post, ReportageSicilia aveva riproposto alcune fotografie di Salaparuta scattate prima che il terremoto del gennaio del 1968 distruggesse completamente gli edifici del paese http://reportagesicilia.blogspot.it/2011/07/ricordo-stento-quel-terremoto-era-la.html.
Ecco ora una nuova raccolta di immagini, tratte ancora una volta dall'archivio privato di Angelo Oliva e dal volume di Graffagnino "Salaparuta ieri ed oggi", edito a Palermo nel 1968.
Sino a quella rovinosa domenica del 14 gennaio di quarantasei anni fa, Salaparuta  aveva conservato il volto di una tranquilla cittadina agricola del Belìce.

Alunni di classi elementari, all'interno del castello del paese.
Da Graffagnino, opera citata


Strada del paese, in una fotografia di Angelo Oliva


L'impianto urbano era dominato dalla rocca di un castello feudale che a partire dal 1956 sarebbe stato utilizzato come sede della scuola elementare. 
Altro monumento storico del paese era la scenografica e barocca chiesa madre, la cui gradinata, a partire dal 1931, fece da quinta alle fotografie ricordo dei matrimoni.
I 3.000 salitani vivevano in gran parte raccolti fra i piedi del castello e a Nord dello stradale Gibellina-Poggioreale, in cinque quartieri ben tagliati e divisi: Rabateddi, Atareddu, Lignuduci, Carrubba e Cappuccini.

L'arco del cortile Sacco.
Da Graffagnino, opera citata


Il mercato del pesce, proveniente
 dai porti di Sciacca e Mazara del Vallo.
Fotografia di Angelo Oliva



Nel periodo precedente alla distruzione, l'economia ed il paesaggio agricolo erano dominati dalle coltivazioni dell'ulivo e della vite, seguite da quelle del mandorlo e dei cereali.
L'allevamento del bestiame stava invece attraversando un periodo di crisi, ad eccezione di quello degli ovini.
Le scosse di terremoto - la più forte delle quali, del nono grado della scala Mercalli, si verificò alle 03.10'36" del 15 gennaio - rasero al suolo l'85 per cento del patrimonio edilizio del paese.
Il sisma ebbe effetti devastanti anche perché molte costruzioni erano state realizzate utilizzando pietre intagliate o rotte e con malta di calce o sabbia; pochissime erano le case costruite con l'utilizzo di cemento armato.  
Dopo la distruzione, studi geologici accertarono che il centro abitato giaceva su un terreno ricco di falde friabili: le sorti del paese, insomma, da un punto di vista sismico furono segnate dalle tipologie edilizie e dalla morfologia dei luoghi.
 

Uno scorcio del paese,
con scritta "W il comunismo".
Fotografia è di Angelo Oliva


Altra fotografia di corso Di Giovanni.
Da Graffagnino, opera citata


Ciò che rimase malamente in piedi - ad esempio, il cinema Aurora - venne infine distrutto dalla dinamite fatta esplodere dai genieri dell'Esercito. 
L'operazione fu decisa per evitare che improvvisi crolli potessero aggravare il bilancio di 19 vittime provocate dalle scosse, ma ebbe l'effetto di cancellare ogni residua traccia del vecchio paese.
Oggi l'attraversamento dei ruderi della vecchia Salaparuta - cancellata dalla storia e dalla geografia - lascia un'impressione di sgomento e di incredulità.
Sotto le macerie rimangono sepolti frammenti di oggetti di vita quotidiana mai recuperati: arredi, suppellettili, strumenti di uso domestico che testimoniano le vite spezzate dei morti e delle loro famiglie. 
Gli altri salitani sopravvissuti alle scosse, hanno invece ricominciato una seconda vita nelle case della "nuova Salaparuta", o lontano dal Belìce, ad ingrossare le fila degli emigranti siciliani. 
    


Veduta del paese, con la mole del castello e della Matrice.
Fotografia di Angelo Oliva


Una vista delle campagne di Salaparuta
dalle terrazze del castello.
Fotografia di Angelo Oliva

Le fotografie raccolte nel volume di Baldassare Graffagnino, parroco di Salaparuta nei devastanti giorni del terremoto e quelle "private" di Angelo Oliva, sono oggi testimonianza preziosa di un paese scomparso per sempre e delle persone che gli davano vita.

"Certamente Salaparuta sarà costruita altrove; forse lì nella baraccopoli, forse più lontano assai.
Ma occorrerà - scrisse Graffagninoche la generazione nata dopo il terremoto sia diventata adulta, perché la gente di Salaparuta dia ragione ai tecnici ed ai pianificatori, e riesca a guardare con distacco queste rovine ancora troppo vive, che ancora hanno un nome...".  


Il cortile del Collegio di Maria,
fondato nel 1752 ed utilizzato come scuola elementare sino al 1953.
La fotografia è di Angelo Oliva







Una panoramica del paese, datata 1935.
La fotografia è di Angelo Oliva