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martedì 25 ottobre 2022

MESTIERI, FEDE E SUPERBIA BARONALE NELLE MATTONELLE MAIOLICATE

Mattonella maiolicata
indicante la proprietà di un edificio rurale
a Misilmeri.
Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"E' un oggetto umile, di uso comune, che può trovarsi dovunque. Il suo destino naturale è di essere calpestato sotto i piedi. Eppure la mattonella maiolicata - scrisse Beppe Fazio sulla rivista "Sicilia" edita da Flaccovio Palermo nel giugno del 1963 - può raggiungere le più nobili espressioni decorative. In Sicilia è una delle forme di artigianato più tipiche e saporose. Dal pavimento, sua sede abituale, il mattone dipinto sale su per le pareti delle chiese e dei palazzi; ad un angolo di strada, fa da sfondo ad una cappelletta che luccica al sole, riveste la spalliera ad un sedile, adorna una fontana, protegge il muro esterno di un'abside, sottolinea un cornicione, una lesena, o magari, isolato, diviene un segno di possesso su una vecchia casa o indica un numero civico. Dovunque nel suo splendore di materia liscia, smaltata, pone una nota di richiamo, di allegria, sulla superficie severa di un muro. Spesso costituisce una sorpresa di bellezza nello squallore di un edificio in rovina. In quei conventi, in quei castelli ridotti dal tempo un cumulo di macerie, che così spesso si ritrovano nelle campagne di Sicilia, fra gli sterpi e il pietrame, ci si imbatte nel levigato luccicare di un gruppo di mattonelle dipinte, unico indizio ormai di nobiltà e di antichità. Esse segnano un'epoca o un culto speciale... Queste geometriche terracotte dipinte sono preziosi, se pur modesti, segni di civiltà, o almeno di particolari presenze; indicano un mestiere o una fede o una superbia baronale..."

lunedì 24 ottobre 2022

BUFALINO E IL "VIZIO SOLITARIO" DEL VIVERE IN SICILIA

Palermo, quartiere Albergheria.
Fotografia di Roberto Collovà,
tratta da "Palermo viva" di 
Silvana Braida Santamaura
( Rotary Club Palermo Est, 1972 )


Sul tema del rapporto dei siciliani con la Sicilia - rapporto in cui convivono gli opposti di una rabbiosa insofferenza e di un morboso attaccamento - a partire da Tomasi di Lampedusa si sono espressi tutti coloro che hanno scritto dell'Isola e del carattere dei suoi abitanti. Lo ha fatto più volte anche Gesualdo Bufalino, con quella magmatica capacità di scrittura che gli consentiva di descrivere fatti e stati d'animo - a dirla con Enzo Siciliano - con "vibrante pigmentazione verbale". In "La luce ed il lutto" ( Sellerio editore Palermo, 1988 ), si legge

"Capire la Sicilia significa dunque per un siciliano capire se stesso, assolversi o condannarsi. Ma significa, insieme, definire il dissidio fondamentale che ci travaglia, l'oscillazione fra claustrofobia e claustrofilia, fra odio e amor di clausura, secondo che ci tenti l'espatrio o ci lusinghi l'intimità di una tana, la seduzione di vivere la vita con un vizio solitario"

  

giovedì 20 ottobre 2022

UNO SGUARDO DALL'ALTO SULLA MASSERIA FIRRIONELLO

La masseria Firrionello,
nei pressi di Scillato.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Magnifico esempio di architettura rurale siciliana, la masseria Firrionello si impone con la suoi bassi ma compatti volumi su una collina che domina la vallata che, tagliata in due dall'autostrada Palermo-Catania, separa i paesi di Scillato e Caltavuturo. Da anni, le strutture di questa masseria, attualmente di proprietà di una famiglia palermitana, resistono con caparbietà ad un sostanziale abbandono; e poiché la loro visita è impossibile, possono essere ammirate soltanto dall'alto, specie dalla sovrastante e disastrata strada statale 643 che da Scillato conduce a Polizzi Generosa.  Per comprendere la composizione di questa masseria di probabili origini secentesche, è preziosa una descrizione di questa tipologia di edifici fatta dall'etnologo e sociologo madonita Mario Giacomarra:

"Vera e propria testimonianza storica della vita e del lavoro negli antichi feudi è la masseria. Insediamento tipico del latifondo - si legge in "Le Madonie, culture e società", edito nel 2000 dall'Ente Parco delle Madonie - essa era costituita da un cortile ( bagghiu ) e da edifici che lo circondavano lungo tre, quattro lati: quello centrale, dirimpettaio all'ingresso ad arco, fungeva da dimora dell'antico feudatario ed era perciò il più rifinito ( a due piani, con balcone e finestre a vetri, e con servizi adeguati ): i due laterali non andavano oltre il piano terra, con tetti spioventi verso l'interno, ed erano costituiti da magazzini, ripostigli per gli attrezzi, luoghi di lavorazione dei prodotti di campagna ( frantoi e palmenti ). Il lato anteriore comprendeva, oltre all'ingresso ad arco munito di pesante portone, locali destinati all'alloggio provvisorio di braccianti e contadini nei periodi di lavoro prestato nel feudo...



Casamenti di antichi feudi, alcune risalenti a secoli ormai lontani, o complessi edilizi successivi all'abolizione della feudalità, le masserie conservano ancora l'aspetto di luoghi fortificati, in apparente stato di difesa continuo, con alte mura e poche minuscole finestre, elevate e munite di inferriate. L'esaurirsi dell'economia latifondista ne ha quasi del tutto annullato la funzione originaria e di molte non restano ormai che ruderi..."



martedì 4 ottobre 2022

SANTA MARGHERITA DEL BELICE, IL VUOTO E LE MACERIE DIETRO LE FACCIATE

Portale di un edificio
tra le macerie di
Santa Margherita del Belice.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Il silenzio di Santa Margherita Belice - scrisse Anselmo Calaciura sul "Giornale di Sicilia" dopo averne osservato la devastazione provocata dal terremoto nel Belice, la notte del 15 gennaio del 1968 -  è il più tragico, il più agghiacciante. Non ci sono lamenti, né ansimare di ruspe, soltanto il fischio del vento e il rumori dei passi del sindaco e dei suoi pochi abitanti, la loro voce adirata contro i soccorritori che non arrivano. Un mare di tufo, di ciottoli, di gesso rivoltato dalla terribile scossa delle 3.08. Da quel momento la tragedia da allucinante si è fatta assurda. Quando arrivo a Santa Margherita Belice sono trascorse più di dodici ore dalla catastrofe, ma nessuno s'è fatto ancora vivo. La città è distrutta per il 90 per cento, ma la catastrofe non pare abbia tali proporzioni, perché di Santa Margherita è rimasta la facciata. I prospetti di molte case; ma dietro non c'era più nulla, solo un ammasso di pietre sbriciolate tra le quali si deve frugare al più presto..."

lunedì 3 ottobre 2022

LA "SELVATICA ED AVVINCENTE" PORTICELLO IN UNA FOTOGRAFIA DI ENZO GATTI

Pescatori a Porticello.
Fotografia di Enzo Gatti,
opera citata nel post


"La litoranea che vi giunge serpeggia sulla convulsa scogliera dell'Aspra, in un paesaggio marino selvaggio ed avvincente, tra i più belli dell'isola. Da questo porticciolo si scorge la punta di Solanto dominata dal castello; a ridosso, su di un colle, sono i resti della fenicia Solunto"

La descrizione di un giovane Giuseppe Bellafiore - futuro storico dell'arte e divulgatore del patrimonio architettonico  siciliano - risale al 1956. Il testo servì da didascalia alla fotografia di Porticello riproposta da ReportageSicilia e pubblicata all'epoca dal fascicolo "Visioni di Palermo", edito dall'Istituto Geografico De Agostini di Novara. Lo scatto - realizzato da Enzo Gatti - ed il testo di Bellafiore che lo illustrò sono oggi l'ennesima testimonianza della perduta bellezza patita negli ultimi decenni da tanti "selvaggi ed avvincenti" ambienti costieri siciliani. Nella fotografia di Gatti, Porticello mostra l'innocenza di un paesaggio circostante che si svolge per chilometri senza l'invasiva e soffocante cortina edilizia di cemento che oggi, dopo Termini Imerese, diventa incancellabile sfregio di una rugginosa e spettrale area industriale. Spiccano, nell'immagine, le figure di una decina di pescatori di Porticello; alcuni in posa, altri concentrati sulle fatiche di un lavoro che comporta i rischi propri di ogni attività svolta giornalmente - e specie la notte - in mare. 



Appena due anni prima della pubblicazione della fotografia - nel novembre del 1954 - una violenta mareggiata aveva spazzato il porticciolo, affondando i pescherecci "Sant'Antonio", "Immacolata Concezione" e "Santa Rosalia". Altre due imbarcazioni subirono gravi danni, così pure la nuova diga in costruzione allo scopo di limitare appunto le conseguenze del mare ingrossato. Peggio era andata nell'aprile del 1933; decine di barche di Porticello furono allora sorprese al largo dal mare in burrasca. Un rimorchiatore partito da Palermo riuscì a salvarne quattro, trainandole in porto. Il piroscafo svedese "Scandinavia" salvò nove pescatori prossimi all'affondamento a tre miglia a largo di Lipari; altre barche da pesca riuscirono fortunosamente a riparare nei porti di Termini Imerese, Cefalù e Patti



I sopravvissuti alla furia del mare tornarono a Porticello in treno, quando già numerose famiglie non speravano nella loro salvezza: vicende sbiadite dal trascorrere del tempo, come è sbiadito ai nostri giorni il ricordo della Porticello fissato grazie alla fotografia di Enzo Gatti.