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martedì 30 luglio 2019

PERCHE' LA MAFIA NON PUO' ESSERE UN SOUVENIR DI SICILIA

Fotografie di
Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Ci si indigna - e giustamente - per il luogo comune sui "siciliani mafiosi" alimentato di tanto in tanto dagli articoli di qualche giornale straniero; oppure, dopo la scoperta di un ristorante il cui nome - è accaduto in Spagna e Germania - fa riferimento ai termini "mafia" o "padrino"; o, ancora, per l'iniziativa imprenditoriale dei figli di sanguinari capimafia che pensano di sfruttare il proprio cognome per attirare affari e clienti.
Proteste e condanne di patria per l'accostamento "Sicilia-mafia" sembrano però ignorare proprio ciò che accade in molte città dell'Isola: la vendita di souvenir turistici - coppole, magliette, statuette, calamite-ricordo per frigorifero - in cui la mafia diventa un oggetto da mettere in valigia a ricordo di una vacanza in Sicilia.



Cavallo di battaglia per l'industria di questi articoli da bancarella venduti ai turisti per lo più stranieri è l'immagine di Marlon Brando nell'interpretazione de "Il Padrino", il film - oggetto di culto per i veri boss - che a partire dal 1972 ha fatto della mafia un "brand" universalmente legato alla Sicilia.
Così, un fenomeno criminale capace di uccidere magistrati che hanno dato il nome al principale aeroporto dell'Isola, diventa un folclorico oggetto di ricordo e promozione dell'immagine siciliana nel mondo, al pari delle riproduzioni di carretti e pupi.
La nostra modesta idea è che che la mafia ridotta a folklore non aiuti a liberare le menti di una parte dei siciliani dal senso di appartenenza ad una vera e propria cultura mafiosa. 



Sarebbe forse opportuno che qualche sindaco cominci a bandire la vendita del volto impomatato di Brando sui capi di abbigliamento o di simpatiche cartoline con il disegno della lupara e la scritta "Minchia! In Sicilia fui...".
Forse, quando ciò sarà fatto - e quando i divieti non saranno più necessari - in Sicilia spunteranno come souvenir le magliette con i volti di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e di tanti altri caduti nella lotta alla mafia.



LA PREGHIERA DI SILVIO MILAZZO A SANTA ROSALIA

Silvio Milazzo
in preghiera dinanzi Santa Rosalia.
La fotografia venne pubblicata
nell'agosto del 1959,
opera citata

"L'onorevole Silvio Milazzo nella grotta di Santa Rosalia a Palermo assiste a una messa di ringraziamento dopo la sua elezione a Presidente della Regione ottenuta, come è noto, di stretta misura grazie ai voti di due franchi tiratori della coalizione di centro destra e all'astensione del rappresentante socialdemocratico.
Con ogni probabilità l'onorevole Milazzo chiede anche alla Patrona di Palermo di poter far funzionare il Governo che si deve reggere su una maggioranza così fragile"

Questa didascalia accompagnò la fotografia pubblicata l'undici di agosto del 1959 dal settimanale "Tempo".
Il giorno successivo, Silvio Milazzo - leader dei dissidenti DC riuniti nel movimento dell'Unione Siciliana Cristiano Sociale -  sarebbe stato nominato per la seconda volta Presidente del governo della Regione, rimasto in carica sino al 17 dicembre dello stesso anno.
L'"operazione Milazzo" - appoggiata dal PCI ed inizialmente anche dal MSI e destinata a terminare nel febbraio del 1960 con lo scandalo della compravendita di due deputati - suscitò allora l'attenzione e la curiosità della stampa nazionale. 
La fotografia che ritrae Milazzo nell'atto di chiedere protezione a Santa Rosalia pubblicata da "Tempo" provocò più di un malumore nelle alte sfere della Chiesa; pochi mesi prima, la Santa Sede aveva bocciato l'alleanza dell'USCS con il PCI, scomunicando al suo nascere la breve esperienza politica del "milazzismo" in Sicilia.     

mercoledì 24 luglio 2019

L'ANIMA ARABA NELLA TOPONOMASTICA DI PANTELLERIA

Pescatore a Pantelleria.
La fotografia, attribuita a Nino Teresi,
venne pubblicata nell'aprile del 1977
dalla rivista "Sicilia"

Da "Benicuvèdi" - i "figli di Huwedi", una tribù di origine berbera che viveva in quella contrada - a "Bonsultòn", ovvero "il figlio del sultano"; da "Bukkuràm" - cioè, "ricca di vigne" - a "Firiciakki", tradotto dall'arabo "grosse pietre, macigni"; ed ancora, da "Kharéd", cioè "i ruderi", a "Nikà", vale a dire "stagno di acqua".
Una ricostruzione dettagliata dell'origine islamica di buona parte dei toponimi delle contrade di Pantelleria si legge nell'opera "Il libro dell'isola di Pantelleria", scritta da Angelo D'Aietti nel 1978 ( Trevi Editore ).
Lo studio realizzato da D'Aietti si avvalse di una ferrata documentazione accademica e della memoria dei più anziani panteschi dell'epoca.
L'incidenza araba nella toponomastica dell'isola - un caso linguistico unico in Italia - conta un centinaio di denominazioni, legate alla presenza di antichi manufatti o alle caratteristiche geofisiche o produttive dei luoghi. 
Ancora, fra le contrade citate dall'autore, si registrano tra gli altri i nomi di "Khaffefi" ( "pomice" ), "Khazèn" ( "magazzino" ) "Fram" ( "punta tagliuzzata" ), "Muègen" ( "cisterne" ),  "Màstra" ( "mulino" ), "Rukìa" ( "pozzo" ), "Salibi" ( "crocevia" ).
La ricerca di D'Aietti individua inoltre i lasciti toponomastici non islamici legati alla storia di Pantelleria nelle vicende delle civiltà del Mediterraneo: un mare solcato da millenni da uomini e merci, in una commistione di lingue ed influenze culturali ed ambientali.  
Così, la famosa Grotta di Satarìa ( della "salute" o della "salvezza" ) deriverebbe la denominazione dal periodo dell'occupazione bizantina; la Punta Spadillo trarrebbe invece origine dallo spagnolo "espadillo", un certo tipo  di remo.
Proprio qui del resto nel 2012 - corsi casuali della storia - come ha ricordato Giosuè Calaciura in "Pantelleria. Ultima isola" ( Editori Laterza, 2016 )

"Subacquei hanno rinvenuto due fusti di cannone in ferro, l'armamento di una nave spagnola a guardia di Pantelleria colata a picco in combattimento o per tempesta che in quello specchio di mare non si risparmia..."   

martedì 23 luglio 2019

VEDUTE DI LEVANZO DI SANTUZZA CALI'



SANTUZZA CALI', Fichi d'India di Levanzo e veduta del paese

lunedì 22 luglio 2019

VITA QUOTIDIANA A CATENANUOVA AI TEMPI DEL BANDITISMO

Una strada a Catenanuova
negli anni del secondo dopoguerra.
Opera citata

"Una strada e una fontana di un paese dove è avvenuto un fatto di sangue.
Un bandito penetrato nel borgo, uccideva un contadino che gli doveva mille lire" 

Con questa didascalia, il settimanale "l'Europeo" pubblicato il 27 ottobre del 1946 illustrò le due fotografie scattate nel paese ennese di Catenanuova.



Il periodico milanese diede conto di un episodio di cronaca nera che rimanda alla stagione di violenza nella Sicilia del secondo dopoguerra: un omicidio lì maturato negli ambienti della banda guidata all'epoca dal brigante Giuseppe Dottore.
Nelle due fotografie riproposte ora da ReportageSicilia - scene di ordinaria vita paesana, negli anni della povertà e della borsa nera - nulla trapela dei crimini del banditismo, che pure imperversò allora in gran parte della provincia di Enna.  

domenica 21 luglio 2019

LEGGENDE ED ABBANDONO DELLA TORRE DELLE CIAVOLE

La Torre delle Ciavole,
lungo la costa tirrenica messinese.
Fotografie Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Protesa sul mare da uno sperone di roccia al chilometro 92,990 della strada statale 113 che corre da Messina a Palermo, la Torre delle Ciavole - in siciliano, le gazze - è una delle più spettacolari torri di avvistamento presenti sul litorale dell'Isola.

"Dalla sua bellissima posizione avanzata ed estremamente marina - scrissero Salvatore Mazzarella e Renato Zanca in "Il libro delle torri" ( Sellerio editore Palermo ) nel 1985 - corrispondeva con Capo Calavà verso Messina e con Brolo verso Palermo"

Dagli stessi autori, apprendiamo storie e leggende che accrescono la suggestione dell'edificio, costruito probabilmente nella prima metà del Seicento.
In quel periodo - ricorda una fonte locale - "i corsari, innamorati delle rive orlandesi vi avevan fatto stanza e covo orribilissimo".



In una giornata di primavera - agli inizi dell'Ottocento - il torraro che avrebbe dovuto svolgere il compito di guardiano di quel tratto di costa lasciò la torre incustodita.
La sua assenza coincise con l'assalto compiuto da un corsaro francese ad una imbarcazione trapanese: quest'ultima venne depredata ed a nulla valse l'intervento di un viandante che, accortosi dell'attacco, cercò di allontanare l'assalitore sparandogli contro alcuni colpi di artiglieria.
Torre delle Ciavole lega inoltre la sua fama locale al racconto orale leggenda di una drammatica storia di amore fra un guardiano ed una castellana di Brolo.
Ambientato ancora una volta agli inizi dell'Ottocento, è stato così ricordato da Mazzarella e Zanca:

"I due comunicavano con specchietti e altre segnalazioni ottiche tra la terrazza di Ciavole e il bel balcone in alto della torre di Brolo, scambiandosi espressioni di amore così ardenti, che non resistettero ad organizzare l'incontro.
Alla fine la bella, dopo una fuga rocambolesca, riuscì finalmente ad abbracciare l'amante e raggiungere con lui il paesino di Gliaca; ma i famigli dell'irato nobile brolese li inseguirono e si scontrarono con l'audace rapitore e i suoi bravi, in una lotta sanguinosa, che vide alla fine trionfare la gente di Brolo nella piccola guerra con quella di Gliaca.
Puniti i gliacesi sopravvissuti all'avventura, ai due poveri amanti fu riservato l'amaro destino di venir sepolti vivi nella cisterna della torre stessa..."




Non sappiamo se qualcuno abbia mai cercato le ossa dei due amanti all'interno della cisterna, tentando di verificare il fondamento della leggenda; di certo, però, è che da anni l'avvicinamento alla Torre delle Ciavole è interdetto da cartelli che ricordano il rischio di ulteriori crolli del costone che conduce al sito dal margine della strada statale 113.
La Torre - in passato adibita ad uso residenziale e di proprietà di un italo-americano - si erge invece ancora ben salda sulla roccia che da quattro secoli sfida la forza delle onde del Tirreno.



Per ammirarne lo svettante profilo lungo la costa che guarda verso le Eolie si può salire, quattrocento metri più su, sino al magnifico belvedere di Piraino ( luogo poco conosciuto, dal quale l'amplissima vista del mare e delle isole ha pochi eguali in Sicilia ).
Un'altra leggenda - o forse è una storia reale, la cui veridicità è stata trasfigurata dal trascorrere del tempo - vuole che dal paese un cunicolo raggiungesse un tempo la Torre delle Ciavole: verità o voce popolare, anche questa è materia di suggestione nella storia del non sempre sereno rapporto fra la Sicilia ed il mare che la circonda.   



lunedì 1 luglio 2019

LA METAFORA DELLA PIETA' DEL CRETTO DI BURRI A GIBELLINA

Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Il Grande Cretto che Alberto Burri ha costruito sulle rovine di Gibellina è probabilmente un'opera unica al mondo.
L'idea di compattare in 122 isole di bianchissimo cemento buona parte delle macerie del paese del Belìce distrutto dal terremoto del 1968 è stata del resto il frutto di una personale e folgorante suggestione.
Storia vuole infatti che l'artista di Città di Castello, invitato da Ludovico Corrao a Gibellina Nuova nel 1981, abbia deciso di realizzare il suo Cretto dopo una visita al tramonto alle rovine del paese.


Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia

Alberto Burri e le rovine di Gibellina.
La fotografia è esposta all'interno
del Museo del Grande Cretto,
allestito nella ex chiesa di Santa Caterina


In precedenza, Burri era stato condotto da Corrao dinanzi ai resti di quella Sicilia "classica" pure così lontana dalle espressioni di architettura contemporanea realizzate nel progetto urbanistico di Gibellina Nuova: il tempio di Segesta e le immense rovine di Selinunte.


Costruzione del Grande Cretto, e, in basso,
altre immagini della progettazione
e realizzazione dell'opera.
L'ultima immagine ritrae Alberto Burri
accanto ad un isolato colmato dal cemento.
Fotografie esposte all'interno della
ex chiesa di Santa Caterina

Il Grande Cretto di Gibellina - esteso circa 12 ettari - è così un grande sudario che ha eternato la memoria del catastrofico evento ( le vittime, a Gibellina, furono 111 ) sigillando le pietre, gli intonaci, gli arredi e gli oggetti di quella vita quotidiana interrotta per sempre dalla forza della natura e dalla fragilità costruttiva degli edifici.
L'opera - che ricostruisce il tessuto urbanistico del vecchio paese - venne avviata nel 1984; dopo un'interruzione nel 1989, è stata definitivamente completata e restaurata nel 2015.






Da qualche settimana, un vicino Museo allestito all'interno della ex chiesa di Santa Caterina ( anch'esso, come il Grande Cretto, bianchissimo ) ne illustra efficacemente la storia.
   
"Se quel gran lenzuolo bianco steso da Burri sulle rovine del terremoto è metafora quasi esemplare della pietà - ha scritto Antonino Cusumano in "La strada maestra, memoria di Gibellina" ( Comune di Gibellina, 1997 ) la morfologia delle crepe che scolpiscono il paesaggio sembra essere figurazione della terra che ha tremato, riproposizione simbolica dell'antico tracciato viario.
Rimuovendo e rimodellando i segni della catastrofe nelle forme di un eccezionale sacrario, si restituisce paradossalmente la vita a ciò che che sarebbe destinato a diventare 'natura morta', si ricostituisce nei percorsi riportanti alla luce la trama spezzata della comunità, si ricompone l'orizzonte del paese nel quale è ancora possibile identificarsi, pur nell'inarrestabile allargarsi e dilatarsi delle latitudini dell'universo.
In quel magico labirinto di stretti varchi e tortuosi passaggi nessun pellegrino rischierà di perdersi, se seguirà la strada maestra della memoria"