Translate

mercoledì 30 agosto 2017

LA FESTA DELLE ARANCE DI GIOVANNI DE SIMONE


GIOVANNI DE SIMONE, "Festa delle arance" ( particolare )

martedì 29 agosto 2017

LA DELIRANTE BIANCHEZZA DELLE CAVE DI POMICE A LIPARI

Le cave di Lipari in una fotografia
di Josip Ciganovic pubblicata nel 1974
in "Sicilia" di Aldo Pecora ( UTET )
"Il cavatore di pomice ha la mentalità dei minatori improvvisati, non bada ai rischi e gli infortuni sul lavoro sono frequenti, spesso mortali.
Le montagne si elevano come orridi strapiombi immacolati fino a più di trecento metri e gli operai si arrampicano avanzando un passo dietro l'altro, lentissimi, scalfendo a poco a poco le pareti levigate a colpi di piccone e facendo scivolare a valle la breccia polverosa.
Restano lassù otto ore al giorno, coi piedi appoggiati su fragili sporgenze della friabilissima parete quasi verticale, in posizione di equilibrio instabile che gli spacca la schiena"

Così nel 1960 il giornalista Francesco Rosso descrisse il duro e pericoloso lavoro dei circa 500 operai abbarbicati sui fianchi delle cave di pomice a Lipari.
In quel periodo, la produzione destinata alle fabbriche di prodotti cosmetici ed all'edilizia raggiungeva i due milioni di quintali l'anno.
La fama della pomice di Lipari - la cui estrazione è documentata dal 1680 - risale molto indietro nei secoli; si vuole infatti che sia stata utilizzata per la costruzione della cupola emisferica del Pantheon di Roma e della Cappella di Santa Maria del Fiore, a Firenze.
L'attività dei cavatori è terminata agli inizi degli anni Duemila, quando l'Unesco minacciò di mettere a rischio per questioni paesaggistiche ed ambientali la permanenza delle Eolie nella lista dei siti dichiarati "patrimonio dell'umanità".


Oggi si discute di trasformare le vecchie cave in un Parco GeoMinerario.
Sul progetto gravano però le immancabili controversie burocratiche e legali, a causa di un contenzioso fra Comune di Lipari e la curatela fallimentare della proprietà degli impianti: vicenda che ricorda uno storico dissidio sullo sfruttamento delle cave nel 1813 fra Vescovo e Comune.


La fotografia di Josip Ciganovic - tratta dall'opera di Aldo Pecora "Sicilia" ( UTET, 1974 ) - ci restituisce l'immagine delle bianchissime colline di Porticello agli inizi degli anni Sessanta; lo stesso periodo cioè in cui ancora Francesco Rosso tratteggiava così lo scenario delle cave:

"Le cave di pomice esplodono con bianchezza delirante nel sole già spuntato, piccole macchie scure arrancano sulle pareti della vertigine levigata simili a formiche dannate a scavare il vuoto, nuvole di polvere bianca salgono come incenso opaco nel cielo limpido.
Così i turisti vedono le montagne di pomice: un remoto, drammatico angolo di mondo lunare confitto nel cuore di Lipari, isola di luce azzurra..."  


lunedì 28 agosto 2017

IL PRESENTE E IL FUTURO AFRICANO DI PALERMO

Donne e bambini africani
in piazza Santa Chiara, nel centro storico della città.
Le fotografie del post sono di ReportageSicilia
Per turisti e viaggiatori, è un fenomeno spesso inaspettato e quindi causa di sorprese.
Poche fra le più aggiornate guide cartacee di Palermo, del resto, segnalano che lo storico mercato di Ballarò è da molti anni l'anima africana di una città che nel corso della sua remotissima storia ha ospitato popoli provenienti da tutto il Mediterraneo; più spesso, quest'indicazione si ricava dalla lettura di social network e siti come TripAdvisor
Così, una passeggiata a Ballarò diventa una lezione su cosa sia il mondo di oggi, oltre le pretese di erigere barriere ad epocali fenomeni di migrazione.



Dinanzi ad una regione di giovani siciliani che abbandonano sempre più la loro terra per garantirsi altrove la sopravvivenza, le Ballarò dell'Isola rappresentano una parte imprescindibile del futuro della Sicilia.
Con i coloratissimi vestiti dei Paesi di origine - Nigeria, Costa d'Avorio, Senegal, Ghana - sono soprattutto le donne ad occupare la scena dei disastrati quartieri del centro storico di Palermo; e sono loro le madri del maggior numero di cittadini palermitani nati da qualche anno ad oggi nel cuore più antico della città.




Passeggiare a Ballarò significa prevedere quale sarà il volto palermitano delle future generazioni, senza l'afflizione di paure o di pregiudizi. 
Così, nel bene della sua tolleranza e nel male delle sue numerose tare, Palermo è una città che insegna sempre qualcosa.



sabato 26 agosto 2017

GLI ULTIMI PALADINI DEI CARRETTI DI GIUSEPPE PICCIURRO

Il pittore palermitano di carretti
Giuseppe Picciurro
al lavoro su una razza di ruota.
Le immagini del post furono pubblicate
il 16 maggio del 1954
dal settimanale "Epoca"
Giuseppe Picciurro ( 1910-1970 ) viene ricordato come uno dei più abili pittori di carretto.
Salvatore Lo Presti - autore nel 1959 del saggio "Il carretto", edito a Palermo da S.F.Flaccovio - lo definì come discepolo "molto apprezzato" di Emilio Mùrdolo, decoratore di origini calabresi che a Bagheria contribuì a formare il giovane Renato Guttuso.
L'arte del pittore di carretto richiedeva un completo bagaglio di estro ed abilità manuale: dopo averlo ricevuto allo stato grezzo, egli provvedeva anzitutto a turarne con lo stucco buchi ed incrinature.
Quindi, dopo avere reso sensibile il legno al colore con l'olio di lino, come ha ricordato Antonino Buttitta in "Due ruote" di Paolo Di Salvo ( Eugenio Maria Falcone Editore, 2007

"aveva inizio la prima fase del lavoro, consistente nel passare su tutte le superfici libere una prima ed una seconda mano di bianco, e infine una terza di giallo, la quale in origine andava a tutto il carro e poi soltanto ad alcune parti di esso"

L'attività di Giuseppe Picciurro - pittore che collaborò soprattutto con il carradore Giovanni Raia - si formò alla scuola del padre, e passò di mano al figlio Mariano; la loro bottega palermitana si trovava in piazza Scaffa, a poca distanza dal ponte dell'Ammiraglio.
La fama goduta da Picciurro fece sì che il settimanale "Epoca" gli dedicasse nel 1954 il reportage fotografico ora riproposto da ReportageSicilia.




Erano i tempi in cui le forme di cultura tradizionale venivano illustrate con curiosità, con una visione ormai folklorica di arti e mestieri che sino a qualche decennio prima rappresentavano pienamente la società e la cultura del proprio territorio.
L'articolo di "Epoca" - firmato con le iniziali D.F. - presentò l'attività del pittore palermitano negli anni in cui i carretti cominciavano a scomparire da strade e campagne della provincia di Palermo:

"Da un ventennio in qua si stanno riducendo.
Se ne facevano sessanta all'anno; se ne fanno dieci.
Schiamazzano i motori dove tinnivano i sonagli: e che gusto c'è più a mettere colori chiassosi sui fianchi di un veicolo che fa già anche troppo chiasso?"

In una delle fotografie che accompagnarono quel reportage, Giuseppe Picciurro è impegnato a rifinire - o a fingere di rifinire - gli "ammozzi" ( le razze ) di un carretto.
Intorno al maestro palermitano - una mano sul pennello, l'altra a reggere la tavolozza ed un bastone - compaiono ragazzini e bambini; su uno sfondo, si intravede il passaggio di alcuni carrettieri.




Un'altra immagine, fissa il lavoro di ricalco del pittore con le "veline" sul "masciddaru" ( la fiancata ), allo scopo di abbozzare le scene da raffigurare. 
Le sponde del carretto dipinto da Picciurro si rifanno ai tradizionali motivi decorativi: le storie dei paladini di Francia, scene di opere liriche, episodi mitologici o della Bibbia.
Sono i temi iconografici tradizionali del carretto isolano, che già agli inizi degli anni Cinquanta cominciavano a cedere il posto a personaggi e spunti narrativi ispirati da vicende di cronaca raccontate da quotidiani e riviste popolari.
Qualche anno prima, negli anni bui del secondo dopoguerra, si sarebbe anche visti carretti con raffigurazioni dello sbarco alleato in Sicilia o con i disegni di un incontro fra il generale Patton e l'arcivescovo di Palermo, cardinale Lavitrano.




L'aggiornamento dei temi decorativi avrebbe dato quindi spazio alle scene tratte dai film proiettati nei cinema: un'evoluzione pittorica sempre meno legata alla tradizione seguita da Picciurro e così descritta nel 1982 ancora da Antonino Buttitta in "Il carretto racconta" ( Edizioni Giada ):
   
"Le immagini di cui nel suo momento finale la pittura del carro tende ad appropriarsi, erano infatti i simboli di una civiltà dai cui processi di produzione e di scambio persino i carretti e non solo le loro pitture sarebbero stati esclusi e cancellati.
Di tutto ciò però solo ora abbiamo assunto consapevolezza.
Quando nella nostra giovinezza abbiamo ammirato i primi cowboys dipinti sulle sponde dei carri, non potevamo sapere infatti che essi erano lì per annunciare la fine di una cultura della quale, a dispetto dei tempi, nel bene come nel male, restiamo ancora alcuni a testimoniare la memoria"








lunedì 21 agosto 2017

VECCHIE STORIE DI BEFANE MILIONARIE E DI ALTRI VIZI REGIONALI




"Il politicantismo ha creato una classe di privilegiati: quella dei deputati regionali, che nel 1961 ha speso ben otto milioni di lire per la voce 'Befana dei figli dei deputati regionali'; che si è proposta una legge che consenta loro, nel caso non siano più rieletti, un'indennità di 'reinserimento nella vita civile' di sette milioni e mezzo di lire ciascuno.
A tanto impegno economico, in cui si sono verificati casi addirittura scandalosi, come quello rivelato dall'autorevole periodico milanese 'Epoca' del 30 giugno 1963, per cui un impiegato della Regione siciliana è andato in pensione a trent'anni di età, con pochissimi anni di servizio, ma con una liquidazione di 15 milioni di lire e una retribuzione mensile di 300.000 lire, non è nemmeno corrisposto un impegno di lavoro adeguato, se lo stesso presidente dell'Assemblea regionale siciliana, avvocato Rosario Lanza, è stato costretto dalla realtà dei fatti, nel maggio 1969, a dovere criticare 'il frequente disinteresse dei deputati per i lavori legislativi e dell'aula, la dispersione che caratterizza i dibattiti, il mancato rispetto dei termini regolamentari'"

SANTI CORRENTI 
"Storia di Sicilia come storia del popolo siciliano"
LONGANESI, 1977

L'INGORGO PALERMITANO D'INIZIO NOVECENTO


Folla di persone e di mezzi di trasporto
ai Quattro Canti di Città,
nella Palermo dei primi anni dello scorso secolo.
La fotografie del post sono di Eugenio Interguglielmi
e sono tratte dalla monografia
"La Sicilia e la Conca d'Oro", edita da Fratelli Treves
nel dicembre 1908-gennaio 1909
Agli inizi del Novecento, Palermo raccoglieva circa 300.000 residenti.
La vita dei suoi abitanti si svolgeva prevalentemente ancora nel secolare centro storico: una funzione residenziale - quella offerta dalla croce viaria tra via Vittorio Emanuele e via Maqueda - che cominciava però ad entrare in un'irreversibile fase di crisi.
L'avvento dell'architettura "liberty" lungo viale della Libertà, via Notarbartolo e via Dante - espressione edilizia di una committenza borghese, desiderosa di esibire il proprio status economico - cominciava infatti ad ampliare i vecchi confini residenziali della capitale dell'Isola.
In "Palermo l'altro ieri" ( Flaccovio, 1966 ), Mario Taccari individuava il declino abitativo e sociale della città storica nel passaggio fra Ottocento e Novecento, sottolineandone le motivazioni di carattere imprenditoriale:

"Qualcosa mutava nell'antico tessuto economico cittadino e le tradizionali strade artigianali - la Calderai, la Chiavettieri, la Candelai, la Cintorinai, la Bottai, l'Argentiera, la Schioppettieri e le altre della lunga serie - andavano perdendo, per lento trapasso dall'industria familiare a quella associata, il loro peculiare carattere, il loro volto secolare"



L'immagine riproposta da ReportageSicilia si deve ad uno scatto di Eugenio Intergugliemi e venne pubblicata nella monografia dell'"Illustrazione Italiana" "La Sicilia e la Conca d'Oro", pubblicata da Fratelli Treves nel dicembre-gennaio 1908-1909.
La fotografia ci restituisce il volto affollato e caotico dei Quattro Canti di una città in quel periodo ancora legata per breve tempo al suo cuore storico.
Il documento di Intergugliemi venne accompagnato da un reportage di Mario Morasso,  scrittore e giornalista genovese che agli inizi del Novecento portò avanti le idee del Modernismo e del Futurismo.
Il suo racconto colse allora alcuni caratteri del palermitano di quegli anni:

"Il palermitano agisce sempre come in uno stato di eccitamento, di stimolante ebbrezza, di irresistibile effusione, nessun elemento moderatore lo raffredda, lo trattiene, e perciò facilmente si esaurisce in parole e gesti prima di arrivare all'opera o al pensiero definitivo.
Come vive all'aperto fisicamente, vive altresì all'aperto spiritualmente.
La strada palermitana pertanto con le sue automobili, tutte a scappamento libero e con grandi arie da corsa, con i suoi tramways elettrici, con la sua lunga e dritta prospettiva, serba quasi intatto il suo aspetto e il suo frastuono caratteristici.



Il bel carretto siciliano, giallo e rosso, miniato come un messale con le storie dei paladini o i miracoli dei santi, tratto da un cavallo impennacchiato di rosso, vi galoppa accanto allo stuolo di innumerevoli carrozzelle su cui la popolazione scorre metà della sua esistenza.
Non sono soltanto le signore che vanno al corso in carrozza.
Il Giardino Inglese e via Maqueda sono gremiti di vetture private e pubbliche su cui gli uomini si mettono in mostra con evidente compiacimento.
Sacre immagini illuminate ad ogni angolo di strade, ad ogni casa ricevono gesti devoti da tutti i passanti.
Le finestre sono popolate di spettatori e spettatrici che preferiscono però essere guardati.
Un vocio continuo, una specie di chiacchierata ad alta voce sale da tutta la strada, ove scoppiettano innumerevoli gli "ah" violenti, il furente grido barbarico di tutti i guidatori di quadrupedi.
Sembra l'urlo frenetico di una folle carica di cavalleria..."




sabato 19 agosto 2017

IL SALMASTRO AVVELENATO DI PRIOLO E GELA

L'abbaglio dello sviluppo economico generato dall'industria petrolchimica in un reportage del TCI realizzato nel 1966 a Priolo e Gela


Lo scenario industriale siracusano a Priolo
in una delle fotografie che nell'ottobre del 1966
illustrarono su "le vie d'Italia"del TCI
un reportage del giornalista catanese Giovanni Centorbi
"Il desolante vuoto di zone depresse - quali Priolo nel siracusano e Gela - che furono condannate per secoli a vivere di grame risorse artigianali, è stato in gran parte colmato.
Dove un tempo era il deserto, oggi, grazie al sodalizio industriale fra siciliani e lombardi, si levano fabbriche enormi, serbatoi colossali, capolavori della fraternità e della buona fede fra Nord e Sud...
Per gli osservatori estranei al mondo della tecnica, più delle cifre e delle sigle può valere, testimonianza di una volontà che si esprime nei fatti, lo spettacolo offerto dal numero, dalla mole, dalla semplice e nitida bellezza degli stabilimenti, che danno a una frazione marittima di Siracusa - fino a pochi anni fa borgata di povera gente dedita alla pesca e alle saline - l'apparenza e l'effettivo prestigio di un moderno quartiere industriale..."

Con un ragionamento che, riletto oggi, appare ancora più ingenuo, il giornalista  e scrittore catanese Giovanni Centorbi pubblicò nell'ottobre del 1966 un reportage dedicato alle aree industriali di Priolo e Gela.


Una panoramica degli impianti di Priolo,
definita nella didascalia "borgata di povera gente
dedita alla pesca e alle saline ed oggi prestigioso e moderno
centro dell'industria"
L'articolo - apparso su "le vie d'Italia" del Touring Club Italiano con il titolo "Viaggio fra le industrie della Sicilia orientale" - illustrò l'avvio nell'Isola delle attività petrolifere e le loro ricadute economiche e sociali.
Il resoconto di Centorbi - illustrato dalle fotografie riproposte da ReportageSicilia - si inserisce il quel filone di articoli giornalistici che prendono nome di pubbliredazionali: pezzi scritti grazie alla collaborazione degli uffici stampa di enti o aziende ed in cui il cronista,  giocoforza, finisce col promuoverne acriticamente l'iniziativa o l'attività.
Nel reportage in questione, i gruppi EDISON, ANIC ed ENI venivano considerati come i salvifici promotori dello sviluppo occupazionale nell'Isola, grazie agli investimenti industriali favoriti dalla Cassa per il Mezzogiorno e dalla Regione.
All'epoca, le grandi società avevano trasformato la Sicilia in un terreno di conquista dei finanziamenti statali e regionali; allo scopo di agevolare questa pratica, nel 1953 venne fondato l'Istituto Regionale Finanziamento Industrie Siciliane ( IRFIS ). 
Le leggi approvate a Palermo portarono così nel 1954 ben 56 compagnie italiane e straniere a bucare il territorio isolano alla ricerca di petrolio: un'attività propedeutica alla creazione di poli industriali dedicati alla raffinazione e lavorazione del greggio.
La creazione di giganteschi impianti - favorita anche dalle politiche degli incentivi economici e degli sgravi finanziari - cambiarono così in pochi anni il volto di intere aree della Sicilia.


Un impressionante groviglio di tubi metallici
nel complesso siracusano
comprendente fabbriche di fertilizzanti,
petrolchimici e chimici, una centrale termoelettrica
e una stazione di pompaggio dell'acqua marina
A determinare quella "colonizzazione" da parte della grande industria, fu, ovviamente la politica regionale, spesso subalterna alle indicazioni provenienti da Roma e dalle lobby finanziarie italiane e straniere.

"Alla fine del 1955 - ha scritto a questo proposito Matteo G.Tocco in "Libro nero di Sicilia" ( Sugar Editore, 1972 ) - l'ENI si decideva ad aprire un discorso concreto con la Regione Siciliana, dicendosi disposto ad assumere un impegno di spesa di 8 miliardi e 85 milioni di lire, ripartiti in nove anni; ma il 75 per cento circa dell'investimento previsto avrebbe dovuto essere assicurato dalla Cassa del mezzogiorno attraverso la IRFIS, e dalla Regione Siciliana attraverso una società finanziaria da costituire in attuazione di una nuova legge di incentivazione industriale.
I protagonisti della battaglia siciliana del petrolio furono, in quell'arco di tempo a cavallo della seconda legislatura siciliana, L'ENI, la Montecatini, la Gulf Corp.
Ognuno di questi gruppi aveva i suoi amici all'interno dell'Assemblea Regionale Siciliana: la nuova legge per l'industrializzazione siciliana doveva essere combattuta principalmente da questi tre gruppi"


Petroliera attraccata ad un pontile di Priolo.
La didascalia spiegava che
"gli idrocarburi arrivano allo stato grezzo,
riprendono poi le rotte verso l'Oriente per essere restituite
ai luoghi di origine come prodotti raffinati"
Così, sulle pagine de "le vie d'Italia", Giovanni Centorbi descrisse con prosa celebrativa il rinnovato scenario di Priolo e Gela: luoghi fino ad allora consegnati al secolare paesaggio di una Sicilia rurale ed ora investiti da un convulso progresso tecnologico:

"In un colpo d'occhio - si legge nell'articolo - abbiamo nell'insieme volumetrico degli impianti, delle cisterne, dei pontili all'attracco di navi da carico, un quadro immediato di opere che sembrano nate quasi per virtù di prodigio: opere di ferro e d'acciaio che fanno la storia, dopo la lunga lotta degli uomini contro la natura, nella quale ogni risorsa - la scienza, il talento, la manodopera, i capitali - è stata prodigata coraggiosamente, in uno sforzo comune che impegnava i dirigenti e anche gli ex-zolfatari divenuti operai dell'industria"

A Priolo Gargallo, tra Augusta e Siracusa, il primo nucleo abitato  nacque nel 1813, per volontà del barone Tommaso Gargallo.
Le 36 famiglie residenti vivevano allora di agricoltura e di pesca.
La zona era ricca di agrumeti - in contrada Girotta - e di uliveti, in quelle denominate Fico e Bondifè; per un certo periodo, i Gargallo tentarono pure di coltivare senza grande successo il cotone.
Durante il periodo della prima guerra mondiale, gli eredi del barone decisero di versare 25 lire mensili alle famiglie di tutti i priolesi chiamati alle armi: iniziativa inconsueta nella storia dei rapporti fra proprietari terrieri e contadini nell'Isola.


Una veduta panoramica degli stabilimenti a Gela
Il futuro di Priolo fu segnato nel 1949, quando Angelo Moratti impiantò una piccola raffineria con materiali dismessi provenienti dal Texas destinati alla fabbricazione di modeste quantità di benzina.
La scelta dell'area del siracusano non fu casuale, rispondendo ad una serie di parametri di convenienza economica.
Come ha scritto Giuseppe Gestivo in "Sottosviluppo e lotte popolari in Sicilia , 1943-1974" ( Pellegrini, 1976 ), citando l'opera della francese Renèe Rochefort "Le travail en Sicile" ( 1961 ):


"Si trovano geograficamente concentrati nel territorio da Siracusa ad Augusta una piana litorale accogliente per le fabbriche, la strada ferrata, abbondanza di sorgenti, grandezza della baia di Augusta, prossimità dello zolfo, della potassa, del sale, dello stesso petrolio siciliano; e ancora, posizione favorevolmente rivolta sia ai mercati dei Paesi sviluppati che a quelli dei Paesi produttori di petrolio che si affacciano sul Mediterraneo, tradizioni umane di popolazioni laboriose con relativa offerta di manodopera abbondante.
E' quindi in tutta lucidità che la grande industria chimica ha deciso di venire qui a prendere partito dei favori che la Regione siciliana offriva agli industriali"

Gli impianti di Priolo furono poi ceduti da Moratti alla RASIOM, in seguito entrata a far parte della Standard Oil Company ESSO: la progressiva crescita dell'area petrolchimica cambiò per sempre il destino dei suoi abitanti.
Per venire incontro all'esigenza di costruire i nuovi edifici industriali, un'ordinanza prefettizia dispose l'esproprio degli agrumeti e degli uliveti delle contrade Girotta, Fico e Bonfidè.
Altre grandi estensioni di terreno agricolo furono acquistate a prezzi irrisori. 
Per centinaia di contadini e braccianti - abbandonati aratri ed altri arcaici strumenti agricoli - si aprì la caccia al posto di lavoro all'interno degli stabilimenti; non mancarono neppure i "piazzisti" del posto nella fabbrica dei fertilizzanti, offerto alla cifra di 300.000 lire.


Le dune della spiaggia di Gela, e, sullo sfondo,
a due chilometri dalla costa,
la piattaforma petrolifera Scarabeo
Il vecchio impianto urbano di Priolo Gargallo - due assi viari che si incrociavano ad angolo retto, affiancati da case ad uno o due piani - venne stravolto da una disordinata opera di nuove costruzioni, demolizioni e soprelevazioni.
Il mercato degli affitti - favorito dall'afflusso della crescente classe operaia e degli impiegati - venne monopolizzato da piccoli speculatori; i proventi ( l'affitto medio mensile di una stanza ammontava a 15.000 lire ) vennero reinvestiti nella costruzione di altri alloggi.
Così, nel 1960 Priolo arrivò ad accogliere 10.000 abitanti, concentrati in un'edilizia di bassa qualità e con servizi precari.
L'altra faccia del boom edilizio - non in grado però di compensare gli squilibri sociali e territoriali - fu rappresentato dalla creazione di una farmacia, due cinema, una decina di bar, alcune pensioni,  due alberghi e tre banche.


La didascalia che illustrava questa fotografia
recitava: "Vecchio e nuovo a Gela", intendendo
l'inarrestabile corsa della tecnologia
in una zona della Sicilia tradizionalmente legata
all'agricoltura ed alla pastorizia
Le conseguenze ambientali della rivoluzione del petrolchimico a Priolo sono oggi tristemente note, grazie alle indagini della Procura di Siracusa che lo scorso giugno ha attestato la scarsa salubrità dell'aria.
Già nel 1990, l'area industriale ed urbana era stata definita ad alto rischio ambientale, per la presenza di idrocarburi nelle falde acquifere e di cadmio, cromo, nichel ed altre sostanze inquinanti e cancerogene nell'aria e nel sottosuolo.
In quel reportage del 1966, non compare alcuna previsione di ciò che stava accadendo a Priolo.
Descrivendo le attività della SINCAT - ( Società Industriale Catanese consociata con EDISON ) sorta a Priolo tra il 1954 ed il 1959 dopo l'acquisto di milioni di metri quadrati di agrumeto - Giovanni Centorbi così illustrava l'attività di produzione di fertilizzanti:  

"Una giornata di sosta alla SINCAT - tre milioni di metri quadrati coperti da edifici, impianti meccanici delle varie industrie, forni, capannoni per servizi recentemente ampliati - è un'esperienza d'interesse eccezionale.
Lungo strade e linee ferroviarie aziendali, per complessivi trenta e venticinque chilometri, percorsi in uno spazio arioso illuminato dalla luce che viene dal mare, nel sentore di salsedine che attenua le esalazioni di carburante, abbiamo raggiunto e visitato, nel pieno ritmo di una fase della lavorazione, le fabbriche dei fertilizzanti semplici e complessi, dei prodotti chimici e petrolchimici, i laboratori per gli sperimentatori della sezione agraria, il centro elettrocontabile, le potenti installazioni della centrale termoelettrica autonoma, che rende possibile una parziale e assai notevole indipendenza dalla fornitura di energia, per due milioni di kilowattora al giorno, che agli inizi dell'attività proveniva dalla centrale della Tifeo..."


Operai gelesi in uscita
dallo stabilimento dell'ANIC.
Scooter e motociclette
sanciscono l'inizio della società dei consumi
grazie ad un'economia
destinata a stravolgere il territorio
La SINCAT realizzava inizialmente il ciclo di realizzazione dall'olio minerale grezzo ai fertilizzanti; in seguito avrebbe prodotto benzina, gasolio, etilene, propilene ed altre sostanze ad alto tasso di inquinamento.
Eppure, dinanzi a tanta massiccia capacità di lavorazione di prodotti petroliferi, Centorbi notava quasi con una nota di colore che "il sentore di salsedine attenua le esalazioni di carburante".
All'epoca, insomma, le ragioni del vorticoso sviluppo industriale sembravano ignorare qualsiasi riserva di natura ambientale o ogni considerazione di tipo sociologico sullo sviluppo assegnato al territorio.
Anni dopo l'articolo pubblicato sul mensile del Touring Club ItalianoGiuseppe Fava avrebbe così spiegato l' incapacità di vedere oltre la minacciosa grandiosità degli impianti petrolchimici:
    
"La logica dell'impresa industriale - si legge in "I Siciliani" (  Cappelli editore, 1980 ) - allora era quella, né a quel tempo alcuno si chiedeva cosa sarebbe accaduto nel territorio, come tutto quell'arco marino si sarebbe popolato di mostri che avrebbero lottato accanitamente ognuno per cercare il proprio spazio, e il mare avrebbe cominciato lentamente a morire con i suoi pesci, e le campagne sarebbero diventate deserto, e l'aria intossicata di veleni che gli uomini sarebbero stati costretti a respirare ogni giorno.
In quel tempo tutto sembrava coincidere perfettamente, soprattutto la buona volontà: gli americani a vendere i loro rottami, gli italiani ad acquistarli per far fronte al disperato bisogno di combustibile, la popolazione a cedere tutta quella plaga deserta pur di avere una fonte di lavoro sempre più vasta e sicura, i pecorai e i contadini ad accettare un salario quotidiano definitivo e sufficiente comunque a sopravvivere.
Stava accadendo una cosa gigantesca che avrebbe stravolto tutto, l'economia, i commerci, la cultura, la salute, i sogni, le abitudini della vita, le speranze, e sarebbe stato necessario capire per tempo tutto questo e dare un ordine logico agli avvenimenti in modo da appagare gli uomini e tuttavia salvare il loro destino futuro dentro il territorio.
Ma c'erano fame, avidità, ignoranza, speculazione"

Nel resoconto pubblicato da "le vie d'Italia", Giovanni Centorbi raccontò pure la trasformazione industriale a Gela, altra realtà territoriale siciliana sconvolta dall'economia petrolchimica.
Anche in questo caso, l'entusiastica descrizione del giornalista dimostra l'incapacità di prevedere gli effetti a lungo termine della "lotta dell'uomo contro la natura"; vale a dire, scarichi aerei di fumi tossici, inquinamento del terreno e delle falde ed incremento tra le popolazione gelese di malformazioni genetiche e patologie tumorali:

"In un colpo d'occhio - da viaggiatori senza particolari attributi - abbiamo nell'insieme volumetrico degli impianti, delle cisterne, dei pontili all'attracco di navi da carico, un quadro immediato di opere che sembrano nate quasi per virtù di prodigio: opere di ferro e d'acciaio che fanno storia, dopo la lunga lotta degli uomini contro la natura, nella quale ogni risorsa - la scienza, il talento, la manodopera, i capitali - è stata prodigata coraggiosamente, in uno sforzo comune che impegnava a vincere i dirigenti e anche gli ex zolfatari divenuti operai dell'industria..." 


Anche questa immagine puntava
ad evidenziare il contrasto gelese fra presente e passato
Ventotto anni il reportage di Centorbi, Vincenzo Consolo avrebbe consegnato alla letteratura il racconto di quell'infido miraggio di civiltà tecnologica a Gela:  

"Da quei pozzi, da quelle ciminiere sopra templi e necropoli, da quei sottosuoli d'ammassi di madrepore e di ossa, di tufi scanalati, cocci dipinti, dall'acropoli sul colle difesa da muraglie, dalla spiaggia aperta a ogni sbarco, dal secco paese povero e obliato partì il terremoto, lo sconvolgimento, partì l'inferno di oggi.
Nacque la Gela repentina e nuova della separazione tra i tecnici, i geologi e i contabili giunti da Metanopoli, chiusi nei lindi recinti coloniali, palme, pirosfori e buganvillee dietro le reti, guardie armate ai cancelli, e gli indigeni dell'edilizia selvaggia e abusiva, delle case di mattoni e tondini lebbrosi in mezzo al fango e l'immondizia di quartieri incatastati, di strade innominate, la Gela dal mare grasso d'oli, dai frangiflutti di cemento, dal porto di navi incagliate nei fondali, inclinate sopra un fianco, isole di ruggini, di plastiche e di ratti; nacque la Gela della perdita d'ogni memoria e senso, del gelo della mente e dell'afasia, del linguaggio turpe della siringa e del coltello, della marmitta fragorosa e del tritolo..." 
( "L'olivo e l'olivastro", Mondadori )


venerdì 18 agosto 2017

IL RILIEVO DI PALAZZO MONCADA DELLO SPATRISANO


GIUSEPPE SPATRISANO, disegno di palazzo Mondaca a Caltanissetta


mercoledì 9 agosto 2017

LA SPAZZATURA METAFORA DELLE TARE DELL'ISOLA

Marciapiede in una strada
del centro storico di Palermo.
Le fotografie del post sono
di ReportageSicilia
Dello scarso senso civico dei palermitani sul tema dei rifiuti ha avuto modo di scrivere pure Goethe nel suo celebrato "Viaggio in Italia":

"Questa via ( Vittorio Emanuele, n.d.r. ) per lunghezza e bellezza, non la cede al Corso di Roma.
A destra e a sinistra vedo dei marciapiedi, che ogni proprietario di magazzino o di officina mantiene puliti a furia di scopare gettando tutta l'immondizia nel mezzo della via; ma questa naturalmente diventa sempre più sudicia e finisce col restituirvi, ad ogni soffio di vento, il sudiciume che vi avete accumulato"
( da "Viaggio in Sicilia", Edi.bi.si, Palermo, 2000 )

A suffragare la fama di questa radicata piaga cittadina concorre poi la voce popolare: quella secondo cui le braccia protese ad altezza di vari metri della statua di Carlo V - in piazza Bologni - indicano il livello di spazzatura a Palermo.
Oggi la città - finiti i tempi in cui, cinquant'anni fa, i vecchi autobus dell'Amat furono utilizzati per il trasporto straordinario dei rifiuti - comincia timidamente ad apprendere la pratica della raccolta differenziata.
L'iniziativa coinvolge al momento pochi quartieri residenziali.
In altre zone , specie quelle periferiche, il cassonetto continua ad essere il contenitore di ogni specie di rifiuto, soprattutto se trasbordante e proveniente dalle cucine di pub, ristoranti e negozi.
Continua poi ad avere largo seguito l'abitudine di considerare la strada il luogo ideale per scaricare materassi, frigoriferi o altri oggetti domestici; o di considerare le aiuole come cestini dove buttare cartacce, bottiglie ed ogni altro genere di conforto per il passeggio.
La spazzatura in strada a Palermo ed in molti luoghi della Sicilia è così metafora dei mali dell'Isola e dei suoi abitanti, a cominciare da quello dello scarso senso del bene collettivo: una tara che trae origine negli ultimi decenni anche dall'esempio di inettitudine della classe politica regionale e locale, incapace di governare per il bene pubblico.




In questo senso, c'è poca differenza tra l'inciviltà del deputato regionale che diserta le sedute del parlamento ( senza perdere un euro del suo lauto stipendio ) e quella del cittadino che butta i rifiuti in strada.
Così, Roberto Alajmo ha efficacemente illustrato la piaga di un atteggiamento che costituisce anche il fondamento di quell'orribile bruttezza che è la mafia:
 

"Anche per godere della bellezza più recondita - si legge in "L'arte di annacarsi, un viaggio in Sicilia", Edizioni Laterza, 2010 - è necessario immergersi in quell'abisso che è la Sicilia.
Non si può fare a meno di ravvisare la bruttezza diffusa, il sistematico disprezzo per gli spazi comuni, l'incapacità delle persone anche migliori di fare rete e porre rimedio a queste distorsioni.
Viaggiare attraverso la Sicilia significa sporcarsene.
E si tratta di uno sporco persistente, di quelli più difficili da trattare"


martedì 8 agosto 2017

I FERMENTI CLERICALI DI ALCAMO IN UNA PAGINA DI ALBERTO CAVALLARI

Una strada di Alcamo
 in una fotografia di Josip Ciganovic
apparsa nell'opera "Sicilia", edita nel 1962
da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini
"Alcamo è tutta nell'atmosfera del 'Risorgimento deluso' di Gobetti.
Strade e vento, acqua di fogna che scorre davanti alle case.
I muri sono piani di scritte 'viva Corrao'.
Ma non si tratta del compagno di Rosolino Pilo che vi organizzò la rivolta contro i Borboni.
Il Corrao d'oggi è un deputato milazziano; lo seguono persino alcuni preti.
Il clero di Alcamo è famoso per la sua 'protesta', per la sua rivolta in nome della Sicilia 'offesa'.
Alle ultime elezioni, alcuni sacerdoti vennero sospesi a divinis"

Il saggista e giornalista piacentino Alberto Cavallari così raccontò Alcamo nel 1962: tre anni prima quindi che la stampa descrivesse agli italiani l'ambiente della cittadina trapanese attraverso le cronache della vicenda di Franca Viola.
A difendere nei processi la giovane donna che dopo il rapimento si era opposta al matrimonio con Filippo Melodia - nipote del capomafia Filippo Rimi -  fu proprio quel Ludovico Corrao il cui nome Cavallari aveva visto campeggiare sui muri degli edifici.
Corrao - legato all'Unione Siciliana Cristiano Sociale e sindaco di Alcamo dal 1960 al 1962 - venne appoggiato anche una parte della chiesa locale sensibile alle battaglie civili da lui portate avanti nel trapanese.  
Prima del caso di Franca Viola, Alcamo aveva tuttavia già meritato le attenzioni dei giornali nazionali per i disordini accaduti nel 1961 durante i solenni festeggiamenti del Corpus Domini, agli inizi di giugno.
Dopo settimane di screzi politici, parte del clero decise allora di non invitare alle processioni il vicesindaco ed i consiglieri comunali comunisti: ne seguì una gazzarra al termine della quale la polizia denunciò una trentina di persone.
L'arcivescovo di Monreale Corrado Mingo decise di sospendere tutte le processioni e di vietare il suono delle campane in tutta Alcamo.
Come in un coprifuoco, le chiese ebbero indicazioni di chiudere prima del tramonto. 
Per qualche mese, si visse in un clima di ostilità fra clericali e comunisti; poi, i livori si appianarono ed oggi soltanto i più anziani fra gli alcamesi ricordano quei secolari e litigiosi festeggiamenti religiosi. 
L'immagine di Alcamo riproposta da ReportageSicilia venne pubblicata nel 1962 nel II volume dell'opera "Sicilia", edita da Sansoni e dall'Istituto Geografico De Agostini: il fotografo Josip Ciganovic ne fissò un silenzioso scorcio di quel centro storico recente teatro dei disordini del Corpus Domini.   


giovedì 3 agosto 2017

"L'URLO" DI MUNCH E ALTRI FRAMMENTI DI NOVECENTO A VERGINE MARIA

Bizzarrie litiche raccolte
lungo la costa palermitana di Vergine Maria.
Le fotografie sono di ReportageSicilia
Fra le superstiti suggestioni della borgata palermitana di Vergine Maria sopravvissute a decenni di sfregi ambientali c'è quella di una costa non ancora del tutto deturpata dall'inquinamento e dall'edilizia abusiva.
La prova più evidente degli sfregi è costituita dalla collina di detriti denominata "scaricatore", cresciuta per effetto dello scarico di tonnellate di materiale di risulta negli anni del sacco di Palermo: quelle macerie sono ciò che resta di ville ed edifici storici distrutti per fare posto ai palazzi di via Notarbartolo e di viale Strasburgo.


Ai limiti di questa massa indistinta di materiale edile, la linea costiera è tracciata da strette lingue di spiagge di ciottoli e da una scogliera di massi di varia natura e dimensioni.
Molte di queste pietre - modellate e bucate dall'erosione del mare e del tempo - sembrano essere uscite dalla bottega di uno scultore: alcune ricordano le figure di piccoli animali, altre hanno assunto  singolari sembianze umane.
Così, nell'abitazione di due affabili ospiti e cultori di Vergine Maria - Linda ed Antonio - viene esibita una pietra che sembra essere un clone artificiale del celebre volto dell'"Urlo" dipinto da Edvard Munch.
I proprietari della pietra l'hanno inanellata in un tondino di ferro, in cima ad una pila di altre bizzarrie litiche raccolte lungo la costa di Vergine Maria.



La "scoperta" della versione scultorea di un capolavoro della pittura espressionistica non è l'unica sorpresa di questo lembo di mare. 
Lo sguardo basso sugli scogli ci permetterà di osservare anche frammenti di mattoni e centenarie mattonelle decorate: la prova che qui, nei decenni passati, è stata distrutta e dispersa la memoria di tanta edilizia palermitana d'inizi Novecento