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mercoledì 31 marzo 2021

I CARRADORI DI BAGHERIA FOTOGRAFATI DA "IL MONDO"

Carradori di Bagheria.
La fotografia, senza attribuzione dell'autore,
venne pubblicata nel febbraio del 1952
dal settimanale "Il Mondo"


Con la semplice didascalia "Bagheria. La fabbrica di carretto", il 2 febbraio del 1952 il settimanale di politica e cultura "Il Mondo" pubblicò una fotografia che ritrae cinque carradori bagheresi in posa dinanzi l'anonimo autore dello scatto. Erano gli anni in cui a Bagheria i costruttori di carri - e, con loro, decine di pittori, fabbriferrai, maestri d'ascia, maniscalchi, intagliatori e costruttori di finimenti per cavalli - praticavano con profitto un'attività alimentata dal fiorente mercato locale degli agrumi. Come ha scritto a questo proposito Antonino Buttitta in "Le ruote del sole" ( prefazione al saggio storico-fotografico di Paolo Di Salvo "Due ruote", edito nel 2007 da Eugenio Maria Falcone Editore ):

"Il mercato degli agrumi fu favorito dalla costruzione da parte del Governo Borbonico di due assi viari fondamentali per lo sviluppo degli scambi e dei commerci: la Messina-Marine e la Messina-Montagne. Bagheria diventò in questo modo uno snodo produttivo e commerciale fra i più importanti della Sicilia Occidentale. La nuova condizione delle vie di comunicazione determinò una rivoluzione nei trasporti. Dalle lente e lunghe 'retini' di muli si passò al più funzionale veicolo costituito dai carretti. Fu in conseguenza di questo nuovo fatto che da Palermo si trasferirono a Bagheria le maestranze necessarie per la loro costruzione..."



La fotografia pubblicata da "Il Mondo" e riproposta da ReportageSicilia restituisce un frammento di memoria visiva dei carradori bagheresi di sessant'anni fa. Paolo Di Salvo, da appassionato fotografo e conoscitore di quell'ambiente, ipotizza che il luogo dello scatto sia da identificare in un edificio ancora esistente sulla strada statale 113 nei pressi di Bagheria che in passato ospitò una bottega di carradori. E, sempre per ipotesi, Di Salvo non esclude che il secondo uomo a partire da destra possa essere indicato in Rosario Buttitta, uno dei tanti carradori che hanno fatto la storia di questa attività artigiana bagherese.





STRADA DI USTICA DI GIOVANNI OMICCIOLI

 


martedì 30 marzo 2021

LA TERRA TREMA, VICISSITUDINI E POLEMICHE FRA ACI TREZZA E VENEZIA

Luchino Visconti
durante la lavorazione di "La terra trema".
Le foto del post sono tratte
dall'opera "1949 Mediterranea",
citata nel testo


Fu dall'ottobre del 1947 a maggio del 1948 che il borgo marinaro di Aci Trezza cambiò per sempre la sua storia. Furono i mesi in cui Luchino Visconti girò in questo luogo sconosciuto e remoto per tutti gli italiani e per gran parte dei siciliani un documentario che sarebbe ben presto diventato un film: "La terra trema", ispirato a "I Malavoglia" di Verga. Il clamore suscitato da quest'opera cinematografica avrebbe da allora inciso sulla vita quotidiana e sull'economia di Aci Trezza, dove quasi nessuno dei pescatori aveva mai prima messo piede in un cinema o in un teatro. Arrivarono i primi turisti, si costruirono ristoranti, alberghi e piattaforme per la balneazione sulla scogliera lavica: la fine    di quel mondo remoto e dominato solo dalla natura che tanto aveva affascinato ViscontiIl lavoro del regista, commissionato dal PCI dopo la strage di Portella della Ginestra del 1 maggio del 1947, sarebbe dovuto essere un reportage sulla condizione dei minatori, dei braccianti agricoli e dei pescatori di un'Isola scossa dalle lotte contadine per la terra e dal banditismo.

Franco Zeffirelli,
uno degli assistenti di Visconti,
parla con Giovanni Greco,
uno dei protagonisti del film


Luchino Visconti, che per il documentario disponeva di un budget limitato a pochi milioni di lire, nelle settimane successive alla strage di Portella arrivò in Sicilia per un sopralluogo, accompagnato da Francesco Rosi. In auto, raggiunsero anche Aci Trezza, dove, come lo stesso Visconti avrebbe dichiarato in seguito "ai miei occhi di lombardo apparve il mondo primitivo e gigantesco dei pescatori, in uno scenario favoloso e magico, con il rumore monotono delle onde che si infrangono sui faraglioni...". 

Fu dinanzi a quel mondo arcaico, lontanissimo dalle nascenti spinte di rinascita economica che rianimavano le grandi città del Nord Italia, che Luchino Visconti decise di ambientare il racconto esclusivamente ad Aci Trezza ( in origine, intitolato "L'episodio del mare" ), rinunciando a quella trilogia documentaria che avrebbe dovuto riguardare anche i minatori e dei contadini.

Una inquadratura
del film


Come è noto, le riprese di Visconti - che scelse come assistenti lo stesso Rosi e Franco Zeffirelli - coinvolsero decine di pescatori e loro familiari. Seguendo, pare, le indicazioni personali di Palmiro Togliatti, la produzione decise di far recitare le battute agli attori  non professionisti nel dialetto di Aci Trezza, incomprensibile anche per gran parte dei siciliani. In una delle poche trattorie del borgo, Visconti riuscì a reclutare dopo molte insistenze le giovanissime sorelle Agnese e Nella Giammona, con un compenso pattuito di 450 lire per ogni scena realizzata. Le spese di produzione, gravate anche da chi ad Aci Trezza lucrò sull'affitto di barche da pesca e reti, finirono con l'esaurire presto i fondi messi a disposizione dal PCI. Fu così che Luchino Visconti - regista che non badava a spese pur di girare secondo le sue aspettative - investì nella produzione il provento di alcuni beni personali; ad aiutarlo - malgrado l' appartenenza alla Orbis Universalia ( società legata al Centro Cattolico Cinematografico del Vaticano ) - fu il produttore Salvo D'Angelo: l'architetto catanese che a partire dal 1938, in pieno periodo fascista, si era dedicato a Roma alle scenografie ed alla produzione di alcuni film.

Come testimoniato da Francesco Rosi - che nel corso delle riprese subì le frequenti sfuriate di un regista ossessionato dai dettagli - durante la produzione Visconti si concentrò esclusivamente sulla realizzazione del film:     

"Se aveva delle indecisioni, le superava con impostazioni di lavoro intransigenti. Finito di girare ad Aci Trezza, ogni sera si ritirava in albergo a Catania, cenava in camera e non usciva più. Si portava sempre dietro una sua borsa di cuoio misteriosissima dalla quale tirava tutto ciò che preparava a scriveva di notte: disegni, appunti, pagine di dialogo che poi rifaceva con i pescatori interpreti del film..."

Una piccola interprete
di "La terra trema"

Agnese Giammona,
interprete della parte di Maria

Il 2 settembre del 1948, "La terra trema" venne proiettato alla Mostra del Cinema di Venezia, presenti le sorella Giammona e pochi altri attori non professionisti che avevano ricevuto da Visconti la promessa di essere presenti alla prima del "loro" film. La proiezione dei 4 chilometri di pellicola - quasi tre ore di durata - e i dialoghi in un siciliano incomprensibile per i giurati ed il pubblico provocarono accese proteste in sala: un clima che a fine proiezione spinse il critico Arturo Lanocita a giudicare "La terra trema" "il più discusso e direi il più altercato film della Mostra". Nonostante le contestazioni, la pellicola si aggiudicò uno dei quattro premi di quella rassegna veneziana, dando ragione agli estimatori del regista milanese.  Malgrado le pesanti polemiche di natura anche politica - quelle degli ambienti democristiani e dei vertici della Regione, che accusarono Visconti di avere proposto l'immagine falsa di una Sicilia arcaica - anche i più convinti detrattori del film ammisero quei pregi che lo rendono ancor oggi uno dei capisaldi della produzione del regista cimentatosi in seguito di nuovo nell'Isola con "Il Gattopardo":

"Lento, smisurato, con passaggi meccanici senza estro, con molte cartoline illustrate - scrisse lo sceneggiatore Ferruccio Disnan in "Il cinema in Italia", Mediterranea Almanacco di Sicilia, I.R.E.S Palermo, 1949  - discontinuo di stile e di tono ( molte scene della prima parte sono di un verismo calligrafico, mentre altre, come quella di Ntoni che balla con altri compagni sono di un verismo di marca francese ), con tutti questi difetti l'opera, ridotta quanto basti per farne un film di durata normale e abolito il commento, ha un suo innegabile fascino. La baruffa fra mercanti e pescatori, la dolente umanità delle donne, la loro immota attesa sulla scogliera, alcuni interni ripresi con sincera immediatezza e la stessa incomprensibile parlata fa di quelle parole una storia di canto aspro e dolce, la stessa musica corale delle onde che lisciano la rena o si avventano sui massi, sono tutti elementi positivi in una opera grave di cose inutili e di maniera..."  

lunedì 22 marzo 2021

MONTE PELLEGRINO ED IL CONTRASTO DI IMPRESSIONI DI MATTEO COLLURA

 

Monte Pellegrino
in una fotografia accredita
all'Assessorato regionale al Turismo
nel marzo del 1965

Lasciando da parte l'entusiastico giudizio che ne fece in un lontanissimo 1787 il Goethe - l'apprezzamento di una bellezza oggi sfregiata da una caotica inondazione urbana di cemento - il monte Pellegrino rimane comunque una presenza che connota in modo determinante l'immagine di Palermo.

Fra coloro che hanno manifestato le contrasti impressioni provocate dal profilo della roccia del Pellegrino e dalla sottostante metastasi  edilizia - un intreccio di sensualità ed inquietudine indotto dal "subbuglio di condomini nel quale la città in anni recenti è finita affogata" - figura Matteo Collura.

Nel saggio "In Sicilia" ( Longanesi & C., Milano, 2004 ), il giornalista, scrittore e saggista agrigentino scrive:    

"Tra poco, laggiù dove il sole tramonta, attraverso un leggero velo di vapori apparirà il sensuale profilo di monte Pellegrino; e quel mare apparirà 'cu Palermu nte vrazza', come dice Ignazio Buttitta, il poeta qui nato e vissuto, quel meraviglioso cantore che nella memoria di chi lo ha conosciuto ha il volto, le mani, la voce di questo tratto di costa.

Altro scatto di monte Pellegrino.
La fotografia è di Gaetano Armao
ed è tratta da "Sicilia"
pubblicato nel luglio del 1956
da S.F.Flaccovio Editore Palermo


E davvero da qui si avverte una promessa di città gentile, accogliente, appagata di essere tenuta in braccio da un così paterno mare, vegliata da un promontorio che sembra emergere per rendere spettacolare questo luogo. Tutt'altra cosa la città, vista dall'alto della stessa montagna che la protegge; da lassù ne ho un ricordo inquietante, come di massa informa che si espande, si espande, immemore e violenta..."

domenica 14 marzo 2021

L'EMPATIA DI COMISSO PER L'IDENTITA' GRECA E ISLAMICA DELL'ISOLA



Agrigento,
colonne del tempio della Concordia.
Foto di Federico Patellani


Fra i narratori italiani del Novecento, il veneto Giovanni Comisso è stato uno dei più assidui e sensibili descrittori della Sicilia. Una prova di questa empatia - testimoniata da da decine di reportage lasciati sulle pagine di riviste e quotidiani degli anni Cinquanta e Sessanta ( scritti parzialmente raccolti in "Sicilia", edito a Ginevra nel 1953 da Pierre Cailler ) - si trova in un fascicolo speciale de "L'Illustrazione Italiana" dedicato alla Sicilia e pubblicato alla vigilia del Natale del 1952.

Nell'articolo "Templi e vestigia greche" - accompagnato dalle fotografie di Federico Patellani - Comisso rivela il suo culto per il mondo classico, evidenziando il ruolo delle colonie greche nella storia identitaria dell'Isola. Insieme alle pietre dei templi di Selinunte, Segesta ed Agrigento, Comisso individua ancora nelle "vestigia salienti delle moschee" l'altra anima mediterranea ed orientale della Sicilia: e se non si può negare il peso avuto dalla cultura araba nella antropologia dei siciliani, non si può non contestare a Comisso la sostanziale assenza nell'Isola di resti di moschee ed edifici di età propriamente islamica. Tranne che non riconoscerne tracce consistenti nell'architettura di epoca normanna, che per lo scrittore di Treviso trascorse invece in Sicilia inavvertita e infeconda:   

"Andare verso la Sicilia è come addormentarsi e subito essere presi da un concatenato susseguirsi di sogni che si svolgano in epoche diverse. Quel passaggio dello Stretto di Messina è veramente un trapasso, ci si stacca non solo dall'Italia e dall'Europa, ma dalla vita per entrare in un'altra. E' poi inutile che la memoria o le guide di viaggio, che sono nella mia valigia, vogliano documentare su quest'isola una trama storica fatta con l'impresa di Garibaldi, col terremoto del 1908 o con lo sbarco delle armate inglesi e americane; la solo storia che predomina su di essa è quella delle epoche di penetrazione greca e araba. Persino quella di dominio romano passa inavvertita, come quella di dominio normanno.

E ci si convince, se si raffigura quest'isola triangolare, sospesa tra l'azzurro del mare e la luce irruente del suo cielo, come un fiore creato in modo da essere soltanto penetrato e fecondato da determinati insetti e non da altri. I greci insofferenti della propria patria, smaniosi di fondarne una nuova e gli arabi che trovavano insufficiente la breve fascia costiera della terra d'Africa, sono stati i naturali insetti destinati ad accrescere la straordinaria splendidezza di quest'isola-fiore.

Bambini che giocano
nei pressi del teatro greco
a Siracusa.
Foto di Federico Patellani


Altri popoli approdati in Sicilia, come il romano e il normanno, sono stati soltanto intrusi infecondi. Oppure, passando ad altra immagine, i venti buoni non possono essere per la Sicilia quelli che spirano dal settentrione, ma quelli che formandosi a oriente o a mezzogiorno di essa vi arrivano apportatori di sementi, di uccelli gai e canori, temperando con il loro tepore la dura terra. Delle due epoche feconde, quella greca, vive ancora la impronta nel sangue della gente che è in parte dolce e danzante e in altra parte ardente, belluina e come scenario stanno ancora i ruderi dei tempii solenni e le vestigia salienti delle moschee e delle ornamentazioni moresche..."

lunedì 8 marzo 2021

CESARE BRANDI E L'AMORE PER IL PAESAGGIO CIRCOLARE DI ERICE

Scorci di Erice.
Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Storico dell'arte nato e cresciuto in uno dei luoghi che raccontano la cultura italiana - Siena - Cesare Brandi fu legato da profondi legami alla Sicilia. A Palermo, Brandi è stato professore ordinario di Storia dell'arte medievale e moderna; ed all'Isola, dedicò un appassionato saggio di impressioni ed appunti su alcuni luoghi che raccontano la sua arte, dai graffiti preistorici di Levanzo alla pittura novecentesca di Guttuso.

In "Sicilia mia" - pubblicato da Sellerio nel 1989 - Cesare Brandi così descrisse la silenziosa architettura di Erice, col suo intreccio quasi perfetto fra azione dell'uomo e opera della natura: 

"A Erice si vorrebbe arrivare per uno di quei misteriosi trasferimenti che di balza in balza fa Dante nel Purgatorio, e che all'ingresso di Erice fosse un angelo a cancellarci i P dalla fronte, tutti i peccati cioè, perché qui, dove sembra di stare nell'aria, tanto improvvisa è l'elevazione e azzurro il baratro intorno, alla leggerezza dell'aria vorremmo aggiungere una coscienza scevra di fanciullo.



Come è luminoso e lindo il paese, con i suoi lastricati a disegno; come è serena questa atmosfera, senza rumori, ove quasi par di sentire il respiro che esce di bocca; come è lieve il passo su queste strade dove scorre un velo di luce, e come è nitido questo paesaggio quasi circolare che ci circonda, le saline di Trapani e l'andamento sinuoso della costa; sembra una cosa disegnata nel palmo della mano, così netta e così lontana, così vicino all'occhio quasi come al cuore che l'ama subito come fosse un ricordo di infanzia..."