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lunedì 13 giugno 2016

UN RITRATTO PRIVATO DI ELIO VITTORINI

Gli affanni e le incertezze della scrittura e della lettura, la fobia per la tecnologia, la passione per il jazz, la rottura con il comunismo e la delusione dopo un incontro con Saroyan: una cronaca milanese del giornalista Manlio Cancogni datata 1951

Elio Vittorini nelle fotografie pubblicate
il 28 ottobre del 1951 dal settimanale "l'Europeo".
L'articolo del giornalista e Manlio Cancogni
documenta il carattere schivo e inquieto
dello scrittore siracusano
nel suo appartamento milanese di via Canova


L'Università di Palermo ha ricordato qualche giorno fa il cinquantesimo anniversario della morte di Elio Vittorini.
La giornata di studi - con vari interventi di docenti provenienti da Catania, Milano e Torino - è stata in questi mesi una delle poche occasioni per ricordare l'opera dello scrittore nato a Siracusa e vissuto in larga parte a Milano.
Già all'età di 20 anni, Vittorini - figlio di Sebastiano Vittorini, ferroviere girovago in piccole stazioni dell'isola con la passione per Eschilo e per la tragedia greca - lasciò la Sicilia, trovando lavoro come correttore di bozze a "La Nazione" di Firenze.
Fu allora che il giovane siracusano iniziò a costruire la sua vita da scrittore, saggista, traduttore dall'inglese, antologista ed ideatore e curatore di collane editoriali e riviste.
Elio Vittorini tuttavia non perse i contatti con la sua terra ( sposò anche Rosa Quasimodo, sorella di Salvatore, dopo una tradizionale "fuitina" tra le pietre del teatro di Siracusa e Lentini ); vi tornò spesso, serbandone il ricordo dell'infanzia trascorsa "tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne".
Alla sua morte, nel febbraio del 1966Milano, il critico letterario ed amico Carlo Bo così ricordò il legame profondo di Vittorini con l'isola:

"Era un siciliano, partito dalla Sicilia carico di fuoco e fantasia; un patrimonio che non ha mai inteso barattare"

Le fotografie riproposte da ReportageSicilia colgono Vittorini in alcuni momenti di vita privata, all'interno del suo appartamento milanese al civico 42 di via Canova.
Le immagini accompagnarono un articolo scritto dal giornalista e scrittore Manlio Concogni e pubblicato il 28 ottobre del 1951 dal settimanale "L'Europeo".
All'epoca, Vittorini aveva 43 anni ed era impegnato nella sofferta stesura del romanzo "Le donne di Messina", cui avrebbe lavorato per 17 anni.


Il reportage di Concogni - intitolato "Vittorini cerca la felicità sull'Atlante" -  è interessante perché presenta  alcuni aspetti della personalità di un  narratore  in lotta con le incombenze dell'esistenza quotidiana e con le contraddizioni degli uomini e della storia.
La vita dello scrittore siracusano appare inquieta ed in perenne ricerca di un ordine, di un percorso liberato dalle incertezze e dalle scadenze della scrittura e della lettura.
Si scopre così un Vittorini milanese racchiuso nel suo appartamento di via Canova stipato di carte e libri in continua e ripensata elaborazione; alla fobia per la tecnologia - l'uso del telefono, dell'automobile, dell'ascensore - si contrappongono la passione per il jazz e la presenza di oggetti che rimandano al ricordo della Sicilia.
L'articolo di Concogni - un'osservazione dei comportamenti e degli stati d'animo di Vittorini - svela l'epilogo di un incontro fra lo scrittore e William Saroyan e analizza infine i motivi della rottura dei suoi rapporti con il partito comunista:
   
"Sul tavolo levigato della piccola stanza di via Canova arredata con un divano a giorno, una poltrona foderata di stoffa e due bassi scaffali, si ammassano fogli, libri, cartelle, taccuini, buste, pacchetti, e sul carrello della macchina da scrivere c'è sempre un foglio cominciato.
Il primo pensiero di Vittorini, quando alle nove di mattina apre gli occhi, va a quella confusione che simboleggia l'andamento del suo lavoro.
C'è la lettera dell'editore Einaudi che sta sollecitando una risposta riguardo al manoscritto di un giovane scrittore; c'è l'appello del traduttore americano che aspetta la nuova stesura delle 'Donne di Messina'; c'è il piano di un romanzo incominciato di cui però ha perso la vena; c'è un'infinità di progetti, appunti, note, che aspettano di essere sviluppati; ci sono infine, segnati su pezzetti di carta sparsi un po' dovunque, gli indirizzi delle persone alle quali deve scrivere e che gli martellano il cervello come rimproveri.
All'ora del risveglio il bisogno di ordine è così intenso che Vittorini non può indugiare a letto nemmeno un minuto in più.
Beve appena una tazzina di caffè e si precipita nello studio.
La vista del tavolo lo scoraggia.
Per calmarsi i nervi è necessario fumare una sigaretta.
Poi Vittorini siede e per qualche minuto i suoi occhi indugiano sulla parete di fronte, sul grande manifesto che egli ha trovato in un teatro di burattini a Caltagirone e che rappresenta alcuni guerrieri medievali aggrovigliati in una battaglia senza principio né fine.


A quarantatré anni Vittorini è ancora in lotta con l'esistenza quotidiana come un giovane di ventuno.
Non ha preso confidenza nemmeno col telefono.
Ogni volta che gli si avvicina per formare un numero si sente in imbarazzo, guarda l'apparecchio con sospetto, e il più delle volte ci rinuncia.
Anche l'automobile, come tutto ciò che è meccanico, gli mette paura.
Il mondo, tranne che nei momenti in cui il cuore gli batte più forte sotto lo stimolo di una commozione poetica, è un nemico con quale non ha ancora saputo trovare un accordo.
il bisogno di ordine è forte, ma quando Vittorini comincia a lavorare, si accorge di avere dimenticato le sigarette e allora è costretto a scendere in fretta le scale ( preferisce non usare l'ascensore ) per andarle a comprare.
Come prima regola indispensabile, Vittorini s'è imposto di dedicare il mattino alla nuova stesura delle 'Donne di Messina' e il pomeriggio il lavoro editoriale.
Ma riscrivere una cosa già fatta è per lui una pena.
A lui piace scrivere soltanto quando sente dentro di sé un mondo nuovo non ancora esplorato come al tempo di 'Conversazione in Sicilia'; lavorare su ciò i cui limiti sono già conosciuti e definiti gli dà un senso di paralisi.


Vittorini ha fretta di liberarsi dal lavoro presente.
Sotto gli occhi gli balza di continuo il colore azzurro di una cartella sulla quale ha tracciato dei nomi e dei ghirighori che sono il principio di un nuovo romanzo e vorrebbe essere al giorno in cui, sollevato dal vecchio impegno, potrà abbandonarsi al piacere di scrivere nuove cose.
Così, in certi giorni, ritorna al manoscritto delle 'Donne di Messina' anche nel pomeriggio per finirlo prima, con la conseguenza che il lavoro editoriale rimandato, si accumula e viene un giorno in cui, ormai in ritardo di un mese, Vittorini deve abbandonare lo scrivere per rispondere a tutte le lettere, per esaminare i manoscritti che aspettano un suo giudizio, per leggere i libri inglesi e americani di cui c'è da consigliare la traduzione.
'A 45 anni', pensa Vittorini continuando a scrivere, 'diventerò padrone del mio tempo'.
A un tratto però si alza dal tavolo, si mette a frugare tra i libri e ne cava fuori un disco.
Poi prende il grammofono, ma non sa dove posarlo.
Allora lo mette sul pavimento, lo carica, e standogli accanto in ginocchio ascolta un 'hot' o un 'bleu' di cui gli è venuto in mente il motivo.
Questa è la sua maniera di distrarsi.
Anche per il divertimento non ha regola.
Va al cinema quando gli capita e non frequenta nè i caffè, nè le trattorie, nè le redazioni dove s'incontrano i letterati e gli artisti milanesi.


Specialmente in questi ultimi anni, da quando ha rotto ogni rapporto con il partito comunista, s'è isolato e ha cominciato a uscire di rado.
Carlo Bo, Giansiro Ferrata, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Enrico Emanuelli, vanno ogni tanto a trovarlo a casa.
Ferrata e Gatto erano come lui comunisti, e come lui si sono allontanati dal partito.
Li conosce ormai da venti anni, sono suoi coetanei; eppure gli pare aver poco in comune anche con loro. 
Vittorini ruppe definitivamente con il partito comunista quando lesse le direttive culturali di Zdanov che furono approvate dai dirigenti italiani.
Allora si convinse che il comunismo, nelle intenzioni dei suoi capi, era una cosa ben definita, rigida, e che non tollerava nuove scoperte.
Leggendo quei dogmi, Vittorini rivide la folla anonima delle strade di Varsavia e di Praga dove era andato nel 1946 e nel 1947.
In quelle occasioni le due città gli parvero incredibilmente lontane dal mondo occidentale a cui la sua fantasia era legata.
I motivi che spingono Vittorini ad agire sono sempre lirici, quindi privati, e spesso incomunicabili. 
Quando sta con Ferrata e Gatto anzichè di politica preferisce parlare di calcio.
Anche l'amicizia come ogni realtà pratica, rappresenta per Vittorini uno scoglio.


Credeva di essere molto amico di Saroyan, lo scrittore americano di cui aveva tradotto per primo i racconti.
Gli scriveva spesso e guardando il suo ritratto credva anche di riscontrarci una somiglianza.
Un giorno Saroyan arrivò a Milano per conoscerlo.
Avendo sbagliato indirizzo l'americano faticò molto prima di arrivare al campanello del quarto piano del numero 42 di via Canova.
Vittorini gli andò ad aprire di persona.
Saroyan aveva il respiro grosso; Vittorini era imbarazzato.
Si strinsero la mano e rimasero muti.
Nessuno dei due sapeva parlare la lingua dell'altro.
Anziché alle persone prese individualmente, Vittorini preferisce pensare ai paesi, alle comunità.
Da ragazzo, e poi da giovane, sognava l'America.
Quel mondo si identificava per lui con la vita; era sempre in movimento, pieno di sorprese, di rischi.
Quando viaggia, Vittorini monta su un vagone di terza classe e per tutto il tempo sta affacciato al finestrino.
Vicino al finestrino, a diciotto anni fece il suo primo viaggio da Siracusa in Alta Italia, credendo di andare verso la felicità, l'ordine, la libertà e la giustizia che non ha ancora trovato"

    





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