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domenica 19 gennaio 2025

LA "POSTEGGIA" DI FRANCO FRANCHI NELLA PALERMO DEL DOPOGUERRA

Franco Franchi in una piazza di Palermo
agli inizi della sua carriera di attore da strada.
Fotografia di Nicola Scafidi tratta 
dall'opera "Sicilia Felicissima",
edita nel 1978 a Palermo da "Edizioni Il Punto"


Nel 1967 Franco Franchi - pseudonimo di Francesco Benenato - e Cicco Ingrassia erano all'apice della loro carriera cinematografica, alimentata dalla instancabile ed intensiva produzione di film regolarmente stroncati dalla critica del tempo ma seguitissimi dal pubblico. ( "Ho visto nelle edicole meridionali molti giornaletti con le avventure di Ciccio e Franco - Franco Franchi e Ciccio Ingrassia - i più dozzinali comici italiani che la TV scaraventa in tutte le case il sabato sera. Non si poteva scendere più in basso e i teatri con i loro ori, con la loro teorica funzione culturale, sono fantasmi del passato. Si può parlare, in questo caso, dei mezzi audiovisivi come fattori di educazione?", scrisse quell'anno il critico musicale Angelo Falvo sul "Corriere della Sera", ndr ).  Ciascuna delle loro pellicole - girate spesso contemporaneamente in due settimane - costava da 100 a 170 milioni e arrivava ad incassarne anche 600 o 700.  Quell'anno nei cinema furono proiettati 9 nuovi film della coppia di comici palermitani; e proprio alla fine del 1967 - il 3 dicembre - il giornalista Pietro Zullino pubblicò sul settimanale "Epoca" una lunga intervista a Franco Franchi. Il reportage ebbe luogo nel suo appartamento romano, al terzo piano di un caseggiato del quartiere Tuscolano, a poca distanza dagli studi di Cinecittà. Nel servizio pubblicato da "Epoca" - intitolato "Il pagliaccio che si chiude in casa ad ascoltare Bach"Franco Franchi spiegò di essere appassionato di musica classica, al punto da ospitare a casa musicisti da camera per ascoltare dal vivo i repertori di Vivaldi, Haydin o Boccherini. L'attore rievocò anche a Zullino i primi anni di povera gavetta artistica vissuta in strada, nella Palermo del secondo dopoguerra:  

"Incominciò a studiare a vent'anni, quando faceva ancora il posteggiatore per le vie di Palermo e, non essendo mai andato a scuola, - si legge nell'articolo del giornalista - sapeva soltanto scrivere la sua firma. La "posteggia", in Sicilia, è lo spettacolino all'aperto che la più infima categoria di attori improvvisa negli angoli delle piazze. In realtà si tratta di una rappresentazione-fiume che dura anche sei ore consecutive e comprende canzoni, scenette, macchiette, in programma e a richiesta.



"Il capocomico incominciava così: "Signore e signori, il teatro ci ha chiuso le porte, siamo ridotti a questo per portare del pane alle nostre mogli e del latte ai nostri bambini... Noi siamo gli attori, noi siamo i cassieri, ogni tre numeri faremo un giro con il cappello... Il comico più bravo lo mettiamo all'asta: un bis vi costa mille, un tris duemila lire"

Franchi rievoca senza nessuna vergogna questi umilissimi inizi. Il comico più bravo naturalmente era lui per le sue imitazioni di Hitler, per i suoi lazzi irresistibili e plebei, per le macchiette di Nicolino Ristrettezza e Arcangelo Bottiglia. Nella gag di Nicolino Ristrettezza, Franco Franchi cantava:

"Con l'impiego che ho trovato, stongo sempre disperato: lo stipendio non mi basta "p'acattà nu chilo 'e pasta". 

Come Arcangelo Bottiglia:

"Ragioniere, ragioniere, voi dovete ragionà..."

Con la canzone boccaccesca "Concì, Concià, Concè", faceva esplodere la piazza. Dopo l'imitazione di Hitler, concludeva suonando un'immaginaria trombetta con naso tra le mani. Si era nell'immediato dopoguerra, e Franchi aveva da poco smesso di fare il garzone di fornaio. La sua vocazione artistica gli era valsa l'espulsione da casa. Viveva di stenti: una volta aveva persino passato la notte in mezzo agli accattoni su un marciapiede, o meglio sulle grate di ferro di un albergo diurno, dalle quali usciva il tiepido vapore degli scaldabagni..."  

   

mercoledì 15 gennaio 2025

L'OSTENTATA RICCHEZZA DELLA COMITINI "EL DORADO" DELLO ZOLFO

Balcone di palazzo Vella, a Comitini.
Fotografia Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Con una popolazione residente di 874 persone, Comitini - centro agrigentino spopolato negli anni Sessanta e Settanta del Novecento dai flussi migratori - è oggi uno dei più piccoli comuni della Sicilia. Ben diverso era il suo computo demografico ai primi di quel secolo, quando il paese - dove erano allora attive un'ottantina di zolfare - poteva contare oltre 3.000 abitanti. L'attività di estrazione dello zolfo - un elemento necessario per la produzione di acido solforico richiesto dall'industria tessile, della soda e della polvere pirica - aveva ricevuto impulso a Comitini e in altri comuni dell'agrigentino e del nisseno nel 1808. All'epoca - ha ricordato lo storico locale Angelo Cutaia in "Comitini e le sue zolfare" ( Siculgrafica, Agrigento, 2017 ) "il re Ferdinando III di Borbone rinunciò al regio monopolio che esercitava sulle miniere", abolendo anche "il diritto di regalia" e quindi il peso fiscale gravante sulle zolfare, ad eccezione di una tassa da 10 onze da pagare per l'attivazione di una nuova miniera. "Questi provvedimenti - ha scritto ancora Cutaia - risultarono alquanto utili ai proprietari terrieri i quali da quel momento si ritennero autorizzati a scavare, indiscriminatamente, le miniere nei loro fondi, grandi o piccoli che fossero. Di conseguenza iniziò la rincorsa forsennata allo sfruttamento dei giacimenti di zolfo di cui in quell'epoca l'unico produttore, nel mondo, era la Sicilia...". Figura di spicco a Comitini nell'attività di estrazione fu il barone Ignazio Genuardi, le cui zolfare vennero rilevate nel 1886 da una "Società Anonima Miniere di Comitini". Come è noto, l'enorme quantità di zolfo siciliano estratto per decenni su una superficie di 1300 chilometri quadrati - 500.000 le tonnellate prodotte nel 1905 - ebbe la conseguenza di farne crollare il prezzo, a danno di produttori e lavoratori impegnanti nel duro e pericoloso lavoro nel sottosuolo. Quando a partire dal 1870 in Lousiana e in Texas si scoprirono enormi giacimenti in cui l'estrazione venivano agevolata dalla creazione di pozzi nei quali l'immissione di vapore o acqua ad alta pressione fondeva lo zolfo, facilitandone la raccolta per mezzo di aria compressa, il monopolio siciliano del prodotto venne meno. Anche per Comitini - come negli altri comuni dell'agrigentino e del nisseno - la concorrenza dello zolfo americano ebbe effetti disastrosi sull'economia locale.



Nei primi decenni del Novecento il numero delle zolfare attive si ridusse in maniera significativa, portando al fallimento di produttori come i Di Francesco ed i Vella. Dell'agiatezza di questi ultimi rimane il ricordo nelle strutture abbandonate di una residenza posta in piazza Bellacera. I prospetti dell'edificio, costruiti a partire dal Settecento, presentano fasce marcapiano e finestre balconate con frontoni impreziositi da motivi scultorei fitomorfi ed ispirati ai bestiari medievali: una esibizione di ricchezza decorativa frutto di un benessere che nell'Ottocento aveva fatto di Comitini un "El Dorado siciliano" dello zolfo.

domenica 12 gennaio 2025

IL REPORTAGE DI "EPOCA" NEL BELICE DEI "POVERI CRISTI"

Vigili del Fuoco a Gibellina.
Fotografia di Mario De Biasi-Mondadori


Si deve al settimanale "Epoca" edito da Arnoldo Mondadori Editore il 28 gennaio del 1968 un prezioso reportage sul terremoto del Belìce di magnitudo 6.4 avvenuto 13 giorni prima. Accanto ai resoconti di quella devastazione materiale ed umana firmati da Vittorio G.Rossi, Giuseppe Grazzini e Pietro Zullino - drammatica testimonianza giornalistica di una calamità che provocò la morte di almeno 296 persone, circa mille feriti e almeno 100.000 sfollati, 30.000 dei quali costretti od indotti ad emigrare lontano dalla Sicilia - quel numero di "Epoca" ( il 905 ) fu arricchito da 50 pagine di fotografie. Parte di quegli scatti - realizzati da Mario De Biasi, Sergio Del Grande, Giorgio Lotti ed Alberto Roveri - vengono riproposti in questi giorni dall'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia in una mostra organizzata a Palermo all'interno dei Cantieri Culturali della Zisa. Il titolo scelto per l'esposizione - "La terra dei poveri cristi. Il terremoto del 1968 nel Belice" - è ispirato dal nome che il sociologo Danilo Dolci volle dare alla radio clandestina che da Partinico, per poche ore, a partire dal 25 marzo del 1970, mandò in onda testimonianze e denunce sui ritardi degli interventi nello Stato nel Belìce

Il pranzo di una bambina sfollata.
Fotografia Mario De Biasi-Mondadori


"Quel 15 gennaio del 1968 - si legge nel catalogo della mostra curata da Maria Donata Napoli - ha rappresentato per i "poveri cristi della Sicilia occidentale", come li definì il sociologo Danilo Dolci, uno spartiacque definitivo. Per decine di migliaia di loro si tradusse nell'avventura in una nuova città, in un contesto complicato come quello industriale dell'Italia del nord dei primi anni Settanta. Per tutti si tradusse nella cesura temporale tra due mondi. Nei discorsi della gente del Belice, ancora oggi, c'è un "prima del terremoto" e un "dopo il terremoto". Un prima fatto di una dimensione agricola, pre-industriale, e un dopo fatto di città lunari, incomprensibili e, come tali, mai accettate. 

Bambini in posa dinanzi ad una tenda.
Fotografia Giorgio Lotti-Mondadori


I fotografi Mondadori avevano la non comune capacità di leggere la luce delle emozioni di di fissarla sulla carta. Ed è grazie a loro che l'Italia ha scoperto l'incredibile realtà di un pezzo di paese che apparteneva al passato. Una responsabilità che va al di là di ciò che è il mestiere di fotoreporter. E che nulla ha da invidiare a ciò che scrittori, saggisti ed economisti ci hanno raccontato di quel meridione d'Italia in migliaia di pagine..."

mercoledì 8 gennaio 2025

LA NASCITA SENZA TEMPO DI LEONARDO SCIASCIA A RACALMUTO

Racalmuto,
epigrafe di Leonardo Sciascia
scolpita su pietra.
Foto Ernesto Oliva-Reportage Sicilia


L'8 gennaio di 104 anni fa Leonardo Sciascia nasceva a Racalmuto. Di quell'evento avrebbe così scritto nella prefazione al saggio "Occhio di capra", edito nel 1990 da Adelphi a Milano:

"A Racalmuto ( Rahal-maut, villaggio morto, per gli arabi: e pare gli abbiano dato questo nome perché lo trovarono desolato da una pestilenza ) sono nato sessantaquattro anni addietro; e mai me ne sono distaccato, anche se per periodi più o meno lunghi ( lunghi non più di tre mesi ) ne sono stato lontano. E così profondamente mi pare di conoscerlo, nelle cose e nelle persone, nel suo passato, nel suo modo di essere, nelle sue violenze e nelle sue rassegnazioni, nei suoi silenzi, da poter dire quello che Borges dice di Buenos Aires: "Ho l'impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato". Mi pare cioè di sapere del paese molto di più di quel che la mia memoria ha registrato e di quel che dalla memoria altrui mi è stato trasmesso..." 

domenica 5 gennaio 2025

SPERLINGA, IL CASTELLO DELLE TREMENDE PRIGIONI

Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Pur essendo ricordato fin dal 1082 in un diploma del Gran Conte Ruggero, è difficile individuare nelle attuali rovine elementi stilistici di epoca normanna, anzi va detto che esso si presenta in una tale nudità ornamentale da appartenere ad un Medioevo atemporale, nel quale è possibile datare con approssimazione soltanto la finestra a bifora della facciata assegnabile al tardo Trecento"

Così Gioacchino Tomasi di Lampedusa nel saggio "Castelli e monasteri siciliani"  ( Palermo, 1968, con fotografie di Enzo Sellerio ) descrisse il singolare aspetto del castello di Sperlinga: un maniero i cui ambienti furono in gran parte ricavati da antichissimi ingrottati che bucano una levigata e ripidissima roccia. Reso famoso dalle vicende dei Vespri siciliani del 1282, allorché i francesi vi furono accolti e protetti, conserva memoria di quell'evento nella scritta incisa sopra un arco interno: "Quod siculis placuit sola Sperlinga negavit", "Quello che i siciliani vollero solo Sperlinga rifiutò"






Sembra che terminato vittoriosamente l'assedio durato un anno, gli Aragonesi volessero demolire completamente il castello, riuscendovi solo in parte; e che nel 1881, in vista del sesto centenario dei Vespri, il Comune di Sperlinga avesse pensato di cancellare quella scritta. 



Nel 1973 lo stesso Comune sarebbe diventato proprietario del castello, acquistandolo dall'ultimo fra i numerosi proprietari per la somma simbolica di mille lire. 






Scavate nella pietra da cui si ricavarono gli ambienti di servizio, all'interno del maniero si osservano ancor oggi le scuderie, le stalle e quelle che Alba Drago Beltrandi definì giustamente "le tremende prigioni" ( "Castelli di Sicilia", "Silvana" Editoriale d'Arte, Milano, 1956 ). Forse nel ricordo di quello storico luogo di pena presente all'interno del castello, nel 1977 il sindaco di Sperlinga offrì allo Stato un vicino terreno comunale di 170 ettari per destinarlo alla costruzione di un penitenziario: una proposta caduta nel vuoto e nata dalla speranza di alimentare l'asfittica economia locale, oggi testimoniata dall'abbandono della maggior parte delle case costruite ai piedi della poderosa roccia fortificata.