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giovedì 14 febbraio 2019

LE BARCHE DI EUSTACHIO CATALANO


EUSTACHIO CATALANO, "Barche", olio su tela

mercoledì 13 febbraio 2019

LA FORMA DELLE CANDELE NEI VOTI A SANTA ROSALIA

Devozione palermitana a Santa Rosalia.
Le fotografie riproposte da
ReportageSicilia
vennero pubblicate nel settembre del 1958
dalla rivista "L'Italia", edita dall'ENIT
e dalle Ferrovie dello Stato

"La festa della patrona di Palermo ricorre il 4 settembre ma, dalla vigilia e nel corso di un'intera settimana, attira al suo santuario, sul monte Pellegrino, migliaia di visitatori: operai, artigiani, commercianti e funzionari…"

Così nel 1956 Daniel Simond illustrò in "Sicilia" ( Edizioni Salvatore Sciascia ) i riti palermitani per la ricorrenza della festa di Santa Rosalia, il 4 settembre.
Nel suo saggio, Simond raccontò la partecipazione di fedeli, turisti e curiosi all'affollato rito religioso e pagano accolto nell'area del Santuario di monte Pellegrino.
Due anni dopo, allo stesso evento dedicò un fotoreportage la rivista mensile "L'Italia", edita dall'ENIT e dalle Ferrovie dello Stato.



 
Nell'articolo - datato settembre 1958 e al pari delle fotografie, privo di firma - si legge che una credenza popolare porta a far credere ai palermitani devoti alla Santa che le forme assunte dalle candele votive indichino o meno l'accoglimento dei voti:

"Confusi nella folla dei fedeli, vedremo ascendere al tempio i cortei salmodianti dietro le bandiere votive, i penitenti insieme con i curiosi e le allegre comitive, le congregazioni religiose insieme con i turisti, tutti in un unico viaggio verso la famosa grotta.
Vedremo i lunghi ceri che poi si accenderanno davanti alla veneratissima Santa, alcuni fedeli scalzi per mortificazione, le donne vestite di nero che conducono i figli per mano su per l'erta come per offrire alla Madonna anche la forza casta di quegli innocenti, gli uomini, i carri, le bandiere, gli innumerevoli giochi della festa: una vigilia ardentissima, rumorosa, appassionata come il popolo che vi partecipa.


E' in tutti il presentimento del voto, in un pittoresco miscuglio di sacro e profano: nei grandi occhi dei siciliani, nella notte ancora calda di settembre.
Come bruceranno i ceri?
Una leggenda vuole che il voto a Santa Rosalia sarà accolto se i ceri bruceranno incurvandosi: prosperità o carestia, grazia o maledizione, tutto dipende dal modo in cui i ceri si consumeranno sull'altare.
Tremano le mani nel disporli ai piedi della Vergine, le pupille di dilatano nell'estatica attesa davanti alla fiamma, luci e ombre aumentano l'arcano, le implorazioni e le preghiere fanno eco nella grotta.


Bisogna assistere alla secolare funzione per capire il sentimento religioso di questo popolo che è mediterraneo e scettico e vive alle porte dell'Africa: anche se i ceri non s'incurveranno, si ha il sospetto che questa gente si accorderà con la sua Santa come quattro secoli fa, quando Palermo fu salvata dalla peste perché il corpo di Rosalia fu portato in processione.
Mentre violento ed estenuante si compie il rito nel Santuario, fuori esplode la festa, una festa siciliana.
Tutto il colle è pieno di gente che, propiziatasi la Santa, si abbandona in spensierata allegria più che in ogni altra sagra…"  

domenica 10 febbraio 2019

IL VILLAGGIO SICILIANO DI GIOVANNI COMISSO

Mussomeli, nel nisseno.
Foto ReportageSicilia

"I villaggi, in Sicilia - scrisse lo scrittore Giovanni Comisso nel 1953 ( "Sicilia", Pierre Cailler, Ginevra ) sono estesi come piccole città, perché in essi vi abitano anche i contadini che lavorano la terra attorno per molti chilometri.
Sono le loro case alla periferia e appena si arriva al villaggio si avverte un sentore acuto di stallatico giacché muli e contadini riposano sotto lo stesso tetto.
Di mattina presto prima che si alzi il sole, nel silenzio del villaggio addormentato si sente il trotterellare di questi muli sul selciato, e in groppa tentennano i contadini che vanno al lavoro dei campi lontani.
La struttura delle strade è uguale a tutti i villaggi, vi è un gran corso, dove alla sera la popolazione fa la sua passeggiata ambiziosa.
A questo corso confluiscono dai lati i veicoli, selciati con grosse pietre, percorribili solo a piedi o col mulo.
Ogni famiglia abita una casa, quasi sempre conquistata dagli avi con l'emigrazione in America dove i nascituri andranno a loro volta per costruirsi un'altra casa.
In queste case non vi è il focolare, quindi mancano di comignolo, il cibo parsimonioso viene preparato su un fornello a carbone e quando si guarda il disteso villaggio dall'alto di un monte vicino risaltano queste cubiche case nel gioco di ombra e di luce senza che da alcuna di esse esca un filo di fumo a dare il segno di una vita casalinga.
La cattedrale è sempre di bella fattura, o gotica ricordando i Normanni o barocca ricordando gli Spagnoli.



Dopo vi è il giardino pubblico, quello che chiamano "la Villa", con un belvedere verso il mare o verso la campagna circostante e tra le aiuole sempre fiorite alberi bellissimi e schietti si elevano in sanezza per dare il fresco ai vecchi che dopo cena vanno a godersi la sera fuori dai vicoli…"  

sabato 9 febbraio 2019

L'ATTESA DEL PESCHERECCIO A SCIACCA

 Foto del post ReportageSicilia 

Il porto di Sciacca ha una lunga banchina che taglia in due un mare dalle tonalità azzurrine.
Da qui - verso terra - si può ammirare l'anfiteatro di edifici che si arrampicano l'uno sull'altro, ricordando vagamente il calligrafico disegno delle casette delle cartoline di certe isole greche.
Diversamente da quanto accade in altri porti siciliani, a Sciacca molti pescherecci rientrano a terra in tarda mattinata, con il loro carico di sardine, triglie, gamberi ed ogni altro tipo di pescato.





Così, quando il "Fantastico II" sta per rientrare verso la banchina - inseguito dal solito chiassoso mulinello di gabbiani - un gruppetto di persone lo attende, seguendone in silenzio le veloci manovre d'attracco.
Non appena un componente dell'equipaggio fissa la gomena alla bitta - operazione agile e rapidissima - qualcuno già poggia sulla banchina le cassette traboccanti di pesce.
Mentre a bordo due pescatori accatastano centinaia di luccicanti sardine nei contenitori di polistirolo, le persone che aspettavano l'attracco del peschereccio guardano con attenzione il contenuto delle cassette.



Si riconoscono i clienti abituali - ristoratori e piccoli grossisti, nelle cui mani finisce buona parte del pescato - dagli avventori occasionali, disposti ad accontentarsi di ciò che rimarrà invenduto.
Intorno a loro, c'è un buon numero di semplici curiosi, affascinati dalla lucentezza dei polpi ancora vivi e dai palpitanti guizzi dei pesci boccheggianti.
La discussione del prezzo con il comandante della ciurma è un fatto di esperienza e di familiarità con l'arte della contrattazione; e in una ventina di minuti, tutte la cassette hanno trovato un'acquirente.






Anche chi non è riuscito a tirare troppo sul prezzo, ritorna però a casa con la soddisfazione di avere acquistato del pesce fresco, gratificando la fatica di chi dal mare trae la quotidiana fonte del suo sostentamento.     

venerdì 25 gennaio 2019

I CONFINI DELLA MEMORIA DELLA CULTURA POPOLARE NELL'ISOLA

Misurazione del grano con il "tùmminu" nelle Madonie.
La fotografia è tratta dall'opera
"Le forme del lavoro, mestieri tradizionali in Sicilia",
opera citata

"La cultura popolare siciliana - ha scritto Antonino Buttitta nell'opera "Le forme del lavoro, mestieri tradizionali in Sicilia" ( un catalogo realizzato in occasione di una mostra organizzata a Palermo dalla Facoltà di Lettere e Filosofia, dal 5 al 20 marzo del 1986 ) - si presentava come una cultura profondamente vissuta e largamente partecipata.
I cicli stagionali avevano in essa la loro scansione e nel suo sistema di regola le attività lavorative dell'anno trovavano la propria misura.
Essa accompagnava gli individui dalla culla alla bara e mediante i suoi codici ne orientava i comportamenti in ogni fase dell'esistere.
Non costituiva certo un'alternativa né un surrogato ad una condizione economica insidiata dalla precarietà, spesso ai limiti della sopravvivenza.
Contro tale condizione però essa offriva sistemi di difesa, apparati simbolici per il suo superamento.


Partecipi di questa cultura, ciascuno con un'identità riconoscibile, non erano solo braccianti e piccoli proprietari, ma anche pastori, artigiani, minatori: gli agrumicoltori del palermitano, i vignaioli del trapanese, i portuali di Messina, i porcari delle Madonie, i carbonai dei Nebrodi, i salinari di Trapani, i bovari del ragusano, i pescatori di Sciacca e Mazara, i figuli di Caltagirone, gli zolfatari di Lercara: tutti coloro, insomma, che partecipavano attivamente ai processi di produzione.
Persino i grandi gabelloti e in genere il 'borghesato' rurale, pur rappresentando l'ingresso nell'aristocrazia la loro massima aspirazione e pur sforzandosi per ciò di ripeterne i comportamenti culturali, di fatto fruivano attivamente della cultura contadina.
In questi ultimi decenni è profondamente mutato il paesaggio agrario dell'Isola.


Si sono estese, solo per fare qualche esempio, le aree agrumicole e le superfici vitate, mentre si sono ridotte le produzioni cerealicole o sono del tutto scomparse o in via di estinzione alcune culture specializzate come la canna da zucchero, il frassineto, il pistacchio.
Sono anche cambiate l'organizzazione e le tecniche di lavoro agricolo.
Una decisiva innovazione sia per l'incentivo offerto a nuove culture sia per le modificazioni apportate alle vecchie, è stata introdotta dalla meccanizzazione e dai nuovi sistemi di raccolta e distribuzione delle acque irrigue.
Tutto ciò ha provocato conseguenze notevoli sulla cultura contadina tradizionale.


Secolari sistemi di organizzazione e di disegno dello spazio agrario, millenari strumenti di lavoro, quali l'aratro a chiodo, i linguaggi e quanto direttamente connesso o indirettamente alla rappresentazione metaforica del mondo che sempre ne consegue, sono ormai fatti quasi ai confini della memoria..."     



sabato 19 gennaio 2019

LA CHIESA CON FIGURA DI VINCENZO NUCCI


VINCENZO NUCCI, "Chiesa con figura", ( olio, 1967

venerdì 18 gennaio 2019

LE BOTTEGHE DEI BARBIERI DELLA VECCHIA GIBELLINA

Botteghe di barbiere a Gibellina,
prima del terremoto che nel gennaio del 1968 devastò il Belice.
Le fotografie riproposte da ReportageSicilia
sono tratte dall'opera di Antonino Cusumano
"La Strada Maestra, memoria di Gibellina"

Dopo che il 15 gennaio del 1968 il terremoto squassò il Belìce, Gibellina perse completamente il suo volto di paese rurale diviso in sei quartieri ( Santa Caterina, Acqua Nuova, Pizzo di Corte, San Nicolò, Sant'Antonino e Zubbìa ) con due presenze architettoniche di riferimento storico: i ruderi del castello di età chiaramontana e la chiesa madre.
Al disastroso evento sismico, Gibellina ha risposto dando vita ad un nuovo agglomerato urbano, diventato laboratorio e museo a cielo aperto di arte contemporanea: un esempio di sperimentazione e creatività in verità rimasto isolato, mezzo secolo dopo, nel panorama dei ritardi e dei dissesti che segnano presente e futuro del territorio belicino.
Prima del terremoto, anche Gibellina univa in un rapporto strettissimo gli abitanti e le strade urbane.

"La strada - ha scritto Antonino Cusumano nel suggestivo saggio "La Strada Maestra, memoria di Gibellina", edito nel 2003 dal Comune di Gibellina e dalla Provincia Regionale di Trapani - non era che il prolungamento della casa, uno spazio frastagliato da scale esterne e soglie prospicienti, un'appendice pubblica dell'abitazione privata, uno slargo in cui si risiedeva, si lavorava, si intesseva la fitta rete delle relazioni..."

Il saggio di Cusumano è illustrato da decine di fotografie della Gibellina pre-terremoto.
Si tratta di immagini che testimoniano la fitta trama di relazioni interpersonali del paese negli anni Cinquanta e Sessanta:  ritratti di persone e di oggetti capaci di rievocare voci, suoni e umori di un'intera comunità ignara dell'incombente disastro.



Tra le fotografie che illustrano una realtà per sempre perduta, quelle delle botteghe dei barbieri rivelano la funzione sociale di luoghi di incontro e discussione, rigorosamente maschili:

"Nella via Umberto erano concentrati i quattro bar del paese, la tabaccheria della signorina Lombardo, la prima per volume di affari e movimento di avventori, e soprattutto la gran parte dei saloni dei barbieri.
Era all'interno delle loro botteghe, pervase dai profumi di borotalco e di colonia, che davvero 'si faceva politica', si costituivano e si scioglievano le alleanze, si determinavano le sorti del governo comunale e dei candidati alle elezioni.
Luogo maschile per eccellenza, il salone era punto di aggregazione e di ritrovo di quanti volevano vendere o compare terre, animali, vi si svolgevano le intermediazioni o 'sensalie', si concludevano gli affari.
Stimato maestro di rasoio era, tra gli altri, Nicolò Bonura.
Da lui imparò il mestiere Giuseppe D'Aloisio, barbiere dall'età di dodici anni, tra i più popolari del paese tanto da potere vantare 480 clienti fissi.
La sua bottega era anche una rivendita di quotidiani e rotocalchi"