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martedì 4 aprile 2023

LE "PAROLE DI PIETRA" DI FRANCESCA SERIO, MADRE DI SALVATORE CARNEVALE

Francesca Serio,
madre del sindacalista
Salvatore Carnevale.
Foto tratta da "Domenica del Corriere"
del 22 agosto 1965


Il 23 marzo del 1960, nell'aula della corte di assise di Santa Maria Capua a Vetere, Francesca Serio si rivolse verso la gabbia degli imputati gridando loro con rabbia e disperazione:

 "Voi siete gli assassini di mio figlio! Voglio giustizia per quello che avete fatto, l'avete ucciso senza motivo e senza coscienza!" 

Dietro le sbarre si trovavano i campieri Luigi Tardibuono e Giovanni Di Bella, il magazziniere Antonino Mangiafridda e Giorgio Panzeca, amministratore del feudo di Sciara della principessa Notarbartolo. Il 20 maggio del 1955, Francesca Serio aveva inviato un esposto alla Procura di Palermo in cui indicava in quegli uomini gli assassini di Salvatore Carnevale, ucciso da tre scariche di lupara in contrada Cozze Secche di Sciara la mattina del 16 maggio. L'omicidio aveva fatto seguito al suo impegno a favore delle lotte contadine e di uno spirito di lotta sindacale in questo allora remoto territorio del palermitano. Nel 1951, Carnevale aveva fondato a Sciara una sezione del PSI, riorganizzando l'attività della locale Camera del Lavoro. Quattro anni dopo, il figlio di Francesca Serio aveva promosso l'occupazione di una parte dei 500 ettari di terreni coltivati con grano ed ulivi espropriati alla principessa Notarbartolo e non ancora assegnati. Ignorando le minacce ed i tentativi di blandirne l'impegno sindacale con promesse di vantaggi personali - la concessione di un florido uliveto -   Carnevale aveva ottenuto che i contadini fossero destinatari del 60 per cento dei prodotti ricavati grazie alla loro attività: una conquista che, insieme alla difesa di lavoratori in sciopero per il mancato pagamento degli stipendi, ne decretò la condanna a morte. Il 21 dicembre del 1961 - grazie alle accuse ripetute in aula da Francesca Serio e da alcuni testimoni - i quattro imputati furono condannati all'ergastolo: un giudizio ribaltato dal processo di appello e dalla Cassazione, che, nel febbraio del 1965, confermò l'assoluzione con formula dubitativa. 

Salvatore Carnevale.
Archivio
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Nel marzo del 1967, un rapporto redatto dal vice-questore Angelo Mangano ed inviato alla Commissione Parlamentare Antimafia indicò nell'avvocato di Termini Imerese Nicolò Marsala - legale della principessa Notarbartolo - e in Peppino Panzeca di Caccamo i mandanti del delitto di Salvatore Carnevale: accuse che non ebbero però seguito, lasciando impunito il delitto del sindacalista e deluse le rivendicazioni di giustizia della madre.

All'epoca del delitto del sindacalista, giornali e riviste italiane e straniere raccontarono con i loro reportage la storia di Salvatore Carnevale e della coraggiosa denuncia di Francesca Serio. Lo fece anche lo scrittore e pittore Carlo Levi, che poi pubblicò il racconto in "Le parole sono pietre. Tre giorni in Sicilia" ( Einaudi, 1955 ): pagine in cui dalla descrizione fisica e psicologica di questa donna, anch'essa vittima della violenza mafiosa, Levi trasse spunto per dare il titolo alla sua raccolta di racconti:

"E' una donna di cinquant'anni, ancora giovanile nel corpo snello e nell'aspetto, ancora bella nei neri occhi acuti, nel bianco-bruno colore della pelle, nei neri capelli, nelle bianche labbra sottili, nei denti minuti e taglienti, nelle lunghe mani espressive e parlanti: di una bellezza dura, asciugata, violenta, opaca come una pietra, spietata, apparentemente disumana. Chiede a Alfio se io sono un compagno o un amico, ci fa sedere vicino a lei, presso quel letto bianco che era quello di Salvatore, e parla. Parla della morte e della vita del figlio come se riprendesse un discorso appena interrotto per il nostro ingresso. Parla, racconta, ragiona, discute, accusa, rapidissima e precisa, alternando il dialetto e l'italiano, la narrazione distesa e la logica dell'interpretazione, ed è tutta e soltanto in quel continuo discorso senza fine, tutta intera: la sua vita di contadina, il suo passato di donna abbandonata e poi vedova, il suo lavoro di anni, e la morte del figlio, e la solitudine, e la casa, e Sciara, e la Sicilia, e la vita tutta, chiusa in quel corso violento e ordinato di parole. Niente altro esiste di lei e per lei, se non questo processo che essa istruisce e svolge da sola, seduta sulla sua sedia di fianco al letto: il processo del feudo, della condizione servile contadina, il processo della mafia e dello Stato. Essa stessa si identifica totalmente con il suo processo e ha le sue qualità: acuta, attenta, diffidente, astuta, abile, imperiosa, implacabile. Così questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione di un processo verbale, con una profonda assoluta sicurezza, come chi ha raggiunto d'improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata, è la Giustizia. La giustizia vera, la giustizia come realtà della propria azione, come decisione presa una volta per tutte e da cui non si torna indietro: non la giustizia dei giudici, la giustizia ufficiale. Di questa, Francesca diffida, e la disprezza: questa fa parte dell'ingiustizia che è nelle cose..." 

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