ReportageSicilia è uno spazio aperto di pensieri sulla Sicilia, ma è soprattutto una raccolta di immagini fotografiche del suo passato e del suo presente. Da millenni, l'Isola viene raccontata da viaggiatori, scrittori, saggisti e cronisti, all'inesauribile ricerca delle sue contrastanti anime. All'impossibile fine di questo racconto, come ha scritto Guido Piovene, "si vorrebbe essere venuti quaggiù per vedere solo una delle più belle terre del mondo"
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giovedì 8 novembre 2018
LA ROCCA FORTIFICATA DI GAGLIANO CASTELFERRATO
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Uno scorcio del castello di Gagliano Castelferrato, singolare rocca fortificata nell'ennese. Le fotografie sono di ReportageSicilia |
Qui, il susseguirsi delle diverse dominazioni ha generato fortilizi di diversa datazione e nei quali è spesso riconoscibile una variabile e complessa stratificazione architettonica, dall'epoca fenicia a quella borbonica.
Non pochi sono poi i castelli dei quali rimangono pochissimi resti edilizi o semplici citazioni letterarie di storici e viaggiatori dei secoli passati: quei ruderi e quelle notazioni ricordano le tante battaglie combattute nei secoli per il controllo di pezzi della Sicilia.
Uno dei più singolari castelli ci sembra essere quello, nell'ennese, di Gagliano Castelferrato: simile per certe sue caratteristiche a quello di Sperlinga, ma ancora meno conosciuto e visitato.
Costruito in perfetta simbiosi con l'ambiente naturale - tre concatenate e frastagliate rupi incombenti sul quartiere della Chiesa Madre - il castello ha più l'aspetto di una rocca fortificata.
L'intero complesso è un perfetto incastro di opera edilizia - muraglioni, intagli nelle roccia, vasti ipogei - e azione millenaria di una natura che ha modellato pinnacoli rocciosi e lisce pareti a strapiombo.
"Come nel caso di Sperlinga - ha scritto Ferdinando Maurici in "Castelli medievali in Sicilia" ( Sellerio editore Palermo, 1992 ) - anche per il castello di Gagliano non è possibile proporre una cronologia attendibile.
Le parti in muratura superstiti non presentano elementi architettonici particolari o tipici e per gli ipogei si pongono i problemi di tutti i siti rupestri con caratteristiche in qualche modo analoghe.
E' però ipotizzabile che il complesso venisse realizzato in tempi e fasi differenti e che l'edificio rettangolare costruito nella spaccatura fra le rupi ed il muro che delimita il cortile siano successivi agli ambienti ipogeici.
Per questi ultimi è tentazione fortissima una collocazione cronologica in età bizantina: ancora una volta, però, solo una migliore conoscenza complessiva del trogloditismo medievale siciliano potrà rafforzare con elementi più solidi questa che necessariamente resta solo un'impressione ed un'ipotesi di lavoro"
Da anni, il complesso fortificato di Gagliano Castelferrato attende un pieno recupero strutturale ( con una spesa stimata in una decina di milioni di euro ), utile anche ad accrescere la sua fruizione turistica e l'eventuale utilizzo per eventi culturali.
Il Comune ha acquistato in passato l'immobile dagli ultimi proprietari e realizzato mirati interventi di ristrutturazione: una nuova scalinata d'accesso, il consolidamento di alcuni ambienti di servizio e di una parte delle mura esterne.
Resta aperto il nodo del completo restauro, della pulizia interna dalla vegetazione infestante e dello studio e della messa in sicurezza delle numerose cisterne e degli ambienti sotterranei dell'area fortificata.
All'interno di questo singolare castello - un tempo soppalcato con strutture lignee - resistono ancora poche mattonelle maiolicate ed i segni di un utilizzo residenziale strettamente connesso a quello militare.
Non è escluso che gli eventuali interventi di restauro possano restituire qualche traccia architettonica di pregio, testimonianza della secolare vita in questa rocca fortificata.
Di certo, prima dell'acquisto da parte del Comune, sono scomparse alcune opere di scultura: fra queste, un'elegante testa leonina finita in chissà quale salotto di promotori dell'antiquariato clandestino.
Costruito in perfetta simbiosi con l'ambiente naturale - tre concatenate e frastagliate rupi incombenti sul quartiere della Chiesa Madre - il castello ha più l'aspetto di una rocca fortificata.
L'intero complesso è un perfetto incastro di opera edilizia - muraglioni, intagli nelle roccia, vasti ipogei - e azione millenaria di una natura che ha modellato pinnacoli rocciosi e lisce pareti a strapiombo.
Le parti in muratura superstiti non presentano elementi architettonici particolari o tipici e per gli ipogei si pongono i problemi di tutti i siti rupestri con caratteristiche in qualche modo analoghe.
E' però ipotizzabile che il complesso venisse realizzato in tempi e fasi differenti e che l'edificio rettangolare costruito nella spaccatura fra le rupi ed il muro che delimita il cortile siano successivi agli ambienti ipogeici.
Da anni, il complesso fortificato di Gagliano Castelferrato attende un pieno recupero strutturale ( con una spesa stimata in una decina di milioni di euro ), utile anche ad accrescere la sua fruizione turistica e l'eventuale utilizzo per eventi culturali.
Il Comune ha acquistato in passato l'immobile dagli ultimi proprietari e realizzato mirati interventi di ristrutturazione: una nuova scalinata d'accesso, il consolidamento di alcuni ambienti di servizio e di una parte delle mura esterne.
Resta aperto il nodo del completo restauro, della pulizia interna dalla vegetazione infestante e dello studio e della messa in sicurezza delle numerose cisterne e degli ambienti sotterranei dell'area fortificata.
Non è escluso che gli eventuali interventi di restauro possano restituire qualche traccia architettonica di pregio, testimonianza della secolare vita in questa rocca fortificata.
Di certo, prima dell'acquisto da parte del Comune, sono scomparse alcune opere di scultura: fra queste, un'elegante testa leonina finita in chissà quale salotto di promotori dell'antiquariato clandestino.
mercoledì 7 novembre 2018
UN INGANNEVOLE SCAMBIO DEI SANTI A SALEMI
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La chiesa del Collegio dei Gesuiti a Salemi. La fotografia è di ReportageSicilia |
Il riferimento al racconto di Sciascia risulta inevitabile dinanzi ad una reale vicenda ambientata qualche anno fa a Salemi, la cittadina trapanese che vantava un tempo una sessantina di edifici religiosi.
Qui accadde che la venerata statua di sant'Antonio custodita all'interno dell'omonima vecchia chiesa rovinata nel 1560 e nel 1920, venisse sostituita - per errore o per taciuta necessità del parroco - con un simulacro di san Benedetto trovato a Partanna.
Per decenni quindi i salemitani rivolsero le loro preghiere ad un sant'Antonio sbagliato.
L'equivoco sarebbe venuto fuori solo dopo il terremoto che colpì il Belice nel gennaio del 1968.
Gli arredi della chiesa furono trasferiti in un deposito; a distanza di anni, il loro recupero fu accompagnato da una più attenta identificazione della statua, che fu appunto riconosciuta come quella di un san Benedetto.
Oggi a Salemi pochi ricordano la storia delle statue protagoniste dell'errore: qualche anziano ed i cultori delle vicende locali, in un paese dove i pochi giovani affidano il proprio futuro non ai santi ma all'emigrazione.
Oggi a Salemi pochi ricordano la storia delle statue protagoniste dell'errore: qualche anziano ed i cultori delle vicende locali, in un paese dove i pochi giovani affidano il proprio futuro non ai santi ma all'emigrazione.
domenica 4 novembre 2018
LA PALERMO CAPITALE DELL'AUTOMOBILE D'INIZIO NOVECENTO
"Fin dall'inizio dell'automobilismo nostro, Palermo e Torino precedettero dandosi la mano, fiere di trovarsi alla testa di un movimento che ha messo in azione le più feconde energie di tutta Italia"
Era il 1952 quando Carlo Biscaretti di Ruffia, fondatore del museo torinese dell'automobile, accostò Palermo a Torino - la città della Fiat - nel ruolo di protagonista della diffusione dell'automobile in Italia.
Il riconoscimento di Biscaretti di Ruffia a Palermo si lega soprattutto alla diffusione degli sport motoristici - e dell'automobile in particolare - che in città ebbe luogo grazie a Vincenzo Florio ( destinatario, ad appena 15 anni, di un triciclo-automobile De Dion-Bouton da parte del fratello Ignazio ).
Il fondatore della Targa - "Enzo Ferrari ha fatto di Maranello un luogo universale. Così Vincenzo Florio con Palermo", ha scritto in questi giorni la rivista "Ruoteclassiche" - finì con l'imporre fra la borghesia e l'aristocrazia cittadina la diffusione delle vetture a scoppio, come segno irrinunciabile di un ribadito status sociale.
Così, la Palermo dei primi due decenni del Novecento si distinse per la presenza di autovetture prestigiose, degne oggi della considerazione dei maggiori collezionisti di vetture veteran.
Una di queste, fu la Isotta Fraschini di Salvatore e Carmela Giaconia, ritratta nella fotografia riproposta da ReportageSicilia ed esposta a Palermo all'interno della villa Baucina-Pottino, in via Notarbartolo.
La moda per l'automobile di quel periodo palermitano venne così descritta nel 1966 da Mario Taccari, in "Palermo l'altro ieri" ( S.F.Flaccovio, Palermo ):
"Con la 'Targa' esplode a Palermo, in gara con poche, pochissime altre città al mondo, l'automobilismo sportivo.
Il riconoscimento di Biscaretti di Ruffia a Palermo si lega soprattutto alla diffusione degli sport motoristici - e dell'automobile in particolare - che in città ebbe luogo grazie a Vincenzo Florio ( destinatario, ad appena 15 anni, di un triciclo-automobile De Dion-Bouton da parte del fratello Ignazio ).
Il fondatore della Targa - "Enzo Ferrari ha fatto di Maranello un luogo universale. Così Vincenzo Florio con Palermo", ha scritto in questi giorni la rivista "Ruoteclassiche" - finì con l'imporre fra la borghesia e l'aristocrazia cittadina la diffusione delle vetture a scoppio, come segno irrinunciabile di un ribadito status sociale.
Così, la Palermo dei primi due decenni del Novecento si distinse per la presenza di autovetture prestigiose, degne oggi della considerazione dei maggiori collezionisti di vetture veteran.
Una di queste, fu la Isotta Fraschini di Salvatore e Carmela Giaconia, ritratta nella fotografia riproposta da ReportageSicilia ed esposta a Palermo all'interno della villa Baucina-Pottino, in via Notarbartolo.
La moda per l'automobile di quel periodo palermitano venne così descritta nel 1966 da Mario Taccari, in "Palermo l'altro ieri" ( S.F.Flaccovio, Palermo ):
"Con la 'Targa' esplode a Palermo, in gara con poche, pochissime altre città al mondo, l'automobilismo sportivo.
Su questo punto non si stenta a fissare la data d'origine di uno dei più legittimi motivi di orgoglio dei palermitani.
Molto meno facile dare un nome a chi fu il primissimo a percorrere con l'auto a ruote gommate - l'incredibile carrozza semovente, sconvolgente meraviglia della tecnica dei trasporti - la via 'marmorea', nata per le portantine, come una 'rambla' del tempo di Filippo V e del cardinale Alberoni.
Più d'uno ci ha provato ma, quanto a risultato, non ce ne sono due che si siano trovati d'accordo.
Il conte de Sarzana e il suo landeau elettrico 'Jentaud' pilotato da uno strano autista in livrea con cilindro e coccarda?
La grossa 'Itala' di don Vincenzo Florio o la piccola 'De Dion' di don Ignazio?
L'ambiziosa berlina marrone, con sedili di panno rosso e ruote gialle, della principessa di Fitalia, ovvero il coupé fracassone di casa Ardizzone, terrore dei vigili urbani?
L'avanguardia dei sobbalzanti teuf-teuf avvolti di fumi di benzina e da romantici svolazzanti veli femminili ( qui consegniamo alla storia le primissime chaffeuses della Conca d'Oro: la Whitaker, la Baucina, Anna Maria Grasso, nonché Rosa di scalea, quella medesima che, secondo un informato diarista, il Mauro Turrisi Grifeo - investì alla prima uscita il portinaio di casa sua demolendogli la guardiola ) precedeva immediatamente l'incalzare dei nuovi arrivi: le auto di fresca estrazione, delle quali ce n'era per i Majorca, i Pisani, i Pecoraro, i Ribolla, i Carella, i Vannucci, gli Stabile, mentre i più legati alla tradizione scuotevano il capo a significare che, malgrado tutto, non sarebbe mai stata l'automobile a soppiantare, quanto a dignità ed a signorilità, il nobilissimo cocchio, nelle sue ammirevoli versioni, dalla regale berlina allo sportivo tilbury, dalla giovanile charrette al pomposo phaèthon.
Palermo di inscriveva nella sua insegna automobilistica con un confidenziale PA; e mentre insistevano, oltre ogni ragionevolezza, le riserve degli scettici, c'era chi avventurava perfino nell'ardua impresa di fabbricare automobili di marca palermitana: l''Audax' di Vincenzo Pellerito, della quale si videro uscire dalla officina di via Malfitano non più di cinque esemplari; l''Apis' di Eugenio Oliveri della quale si ebbero una decina di saggi destinati a scarso successo; nonché la rudimentale monocilindrica fabbrica dell'industriale Savattiere, il cui prototipo doveva finire nella bottega di un rigattiere di via Calderai, che se n'era assicurato il possesso a buon prezzo: settantacinque lire..."
La grossa 'Itala' di don Vincenzo Florio o la piccola 'De Dion' di don Ignazio?
L'ambiziosa berlina marrone, con sedili di panno rosso e ruote gialle, della principessa di Fitalia, ovvero il coupé fracassone di casa Ardizzone, terrore dei vigili urbani?
L'avanguardia dei sobbalzanti teuf-teuf avvolti di fumi di benzina e da romantici svolazzanti veli femminili ( qui consegniamo alla storia le primissime chaffeuses della Conca d'Oro: la Whitaker, la Baucina, Anna Maria Grasso, nonché Rosa di scalea, quella medesima che, secondo un informato diarista, il Mauro Turrisi Grifeo - investì alla prima uscita il portinaio di casa sua demolendogli la guardiola ) precedeva immediatamente l'incalzare dei nuovi arrivi: le auto di fresca estrazione, delle quali ce n'era per i Majorca, i Pisani, i Pecoraro, i Ribolla, i Carella, i Vannucci, gli Stabile, mentre i più legati alla tradizione scuotevano il capo a significare che, malgrado tutto, non sarebbe mai stata l'automobile a soppiantare, quanto a dignità ed a signorilità, il nobilissimo cocchio, nelle sue ammirevoli versioni, dalla regale berlina allo sportivo tilbury, dalla giovanile charrette al pomposo phaèthon.
Palermo di inscriveva nella sua insegna automobilistica con un confidenziale PA; e mentre insistevano, oltre ogni ragionevolezza, le riserve degli scettici, c'era chi avventurava perfino nell'ardua impresa di fabbricare automobili di marca palermitana: l''Audax' di Vincenzo Pellerito, della quale si videro uscire dalla officina di via Malfitano non più di cinque esemplari; l''Apis' di Eugenio Oliveri della quale si ebbero una decina di saggi destinati a scarso successo; nonché la rudimentale monocilindrica fabbrica dell'industriale Savattiere, il cui prototipo doveva finire nella bottega di un rigattiere di via Calderai, che se n'era assicurato il possesso a buon prezzo: settantacinque lire..."
venerdì 2 novembre 2018
L'ELOGIO DEL FICODINDIA IN UNA PAGINA DI RENE BAZIN
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Venditore di fichidindia a Palermo. Fotografia di ReportageSicilia |
Questo frutto di origini messicane, diffuso in ogni campagna della Sicilia e per questo considerato un "cibo per poveri", sta diventando una risorsa economica non marginale per piccoli e medi imprenditori agricoli ( a Roccapalumba, nel palermitano, la coltivazione offre ad esempio occasione di lavoro stagionale a decine di persone ).
Ovviamente il ficodindia è stato oggetto di frequente citazione nei racconti dei viaggiatori che hanno scritto della Sicilia.
Il romanziere francese René Bazin nell'estate del 1891 visitò l'Isola, riportando in seguito le sue impressioni in "Sicilia, bozzetti italiani" ( ristampato da Edizioni e Ristampe Siciliane nel 1979, con una prefazione di Pierre Thomas ).
Durante una visita all'interno del parco del palazzo d'Orleans, a Palermo, Bazin ammirò una rigogliosa piantagione di fichidindia.
Qui ebbe indicazioni e consigli sulle virtù del frutto dell'"opuntia ficus indica":
"'Il raccolto è bellissimo', mi dice la mia guida indicando le lunghe file di fichidindia spinosi, i cui rami piegano sotto il peso dei frutti.
'Li ho appena venduti sulla pianta.
Fra quindici giorni, Lei sarà ancora in Sicilia e vedrà ovunque, sui muri, sui tetti, i fichidindia che si fanno seccare.
Sono la provvidenza del popolino.
Con una ventina di fichidindia - il valore di due soldi forse - e un pò di pane, un siciliano trova la maniera di fare la prima colazione, di pranzare, di cenare e di cantare nell'intervallo.
Sono freschi, sono sani.
Avvolti in carta sottile, si conservano fino ad aprile.
Non è quindi un frutto prezioso?
L'albero non lo è da meno.
Difende i nostri vigneti e i nostri campi di grano come nessun roveto e barriera lo può fare.
La 'pala', affettata, viene data al bestiame in inverno.
I rami malati servono da lettiera.
Nulla si perde nel ficodindia, perciò lo si ama!
Ehi, tu! Porta un ficodindia a questo signore!
La guardia siciliana cui si rivolgeva andò a raccogliere, sulla pala di un ficodindia molto più alto di lui e coperto di capsule rosse, gialle o verdi, uno dei frutti più maturi, color arancione, grosso come un pugno, irto di spine.
Spaccò la buccia con un colpo di coltellino, allargò i due lembi di buccia, fece uscire la polpa dorata e me la presentò dicendo:
'Che peccato che Sua Eccellenza assaggi il ficodindia prima delle prime piogge!'
'E perchè?'
'Eccellenza, quando il ficodindia ha bevuto la pioggia, diventa delizioso e si può dire che non esista sorbetto migliore'"
Lo scrittore francese ha così lasciato una pagina di storia sulle qualità del frutto più famoso della Sicilia.
Quanto al suo gradimento, Bazin non ne rimase particolarmente impressionato, visto il franco giudizio seguito alla sua degustazione:
"Non voglio parlar male del ficodindia: non mi auguro tuttavia che si stabilisca l'usanza di servirne uno a metà pasto, neppure uno che avesse bevuto la pioggia del paese natìo..."
Durante una visita all'interno del parco del palazzo d'Orleans, a Palermo, Bazin ammirò una rigogliosa piantagione di fichidindia.
Qui ebbe indicazioni e consigli sulle virtù del frutto dell'"opuntia ficus indica":
"'Il raccolto è bellissimo', mi dice la mia guida indicando le lunghe file di fichidindia spinosi, i cui rami piegano sotto il peso dei frutti.
'Li ho appena venduti sulla pianta.
Fra quindici giorni, Lei sarà ancora in Sicilia e vedrà ovunque, sui muri, sui tetti, i fichidindia che si fanno seccare.
Sono la provvidenza del popolino.
Con una ventina di fichidindia - il valore di due soldi forse - e un pò di pane, un siciliano trova la maniera di fare la prima colazione, di pranzare, di cenare e di cantare nell'intervallo.
Sono freschi, sono sani.
Avvolti in carta sottile, si conservano fino ad aprile.
Non è quindi un frutto prezioso?
L'albero non lo è da meno.
Difende i nostri vigneti e i nostri campi di grano come nessun roveto e barriera lo può fare.
La 'pala', affettata, viene data al bestiame in inverno.
I rami malati servono da lettiera.
Nulla si perde nel ficodindia, perciò lo si ama!
Ehi, tu! Porta un ficodindia a questo signore!
La guardia siciliana cui si rivolgeva andò a raccogliere, sulla pala di un ficodindia molto più alto di lui e coperto di capsule rosse, gialle o verdi, uno dei frutti più maturi, color arancione, grosso come un pugno, irto di spine.
Spaccò la buccia con un colpo di coltellino, allargò i due lembi di buccia, fece uscire la polpa dorata e me la presentò dicendo:
'Che peccato che Sua Eccellenza assaggi il ficodindia prima delle prime piogge!'
'E perchè?'
'Eccellenza, quando il ficodindia ha bevuto la pioggia, diventa delizioso e si può dire che non esista sorbetto migliore'"
Lo scrittore francese ha così lasciato una pagina di storia sulle qualità del frutto più famoso della Sicilia.
Quanto al suo gradimento, Bazin non ne rimase particolarmente impressionato, visto il franco giudizio seguito alla sua degustazione:
"Non voglio parlar male del ficodindia: non mi auguro tuttavia che si stabilisca l'usanza di servirne uno a metà pasto, neppure uno che avesse bevuto la pioggia del paese natìo..."
L'IMPROBO LAVORO DEI "CORDARI" PALERMITANI
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"Cordari" a Palermo nel secondo dopoguerra. La fotografia venne pubblicata dal settimanale "Tempo" il 21 ottobre del 1958 |
Sotto i raggi brucianti del sole, i ragazzi li aiutano nell'improbo lavoro"
Il 21 ottobre del 1958 il settimanale "Tempo" dava conto ai propri lettori della pratica a Palermo di un mestiere che si rifaceva al patrimonio di competenze artigianali legate alle attività marinare e della pesca.
La fotografia degli uomini impegnati a manovrare a piedi nudi la ruota per realizzare una corda - lavoro cui partecipano alcuni ragazzini - voleva così rappresentare l'arretratezza della Sicilia rispetto all'innovazione industriale che stava cambiando usi e saperi di altre zone d'Italia.
All'epoca dell'immagine riproposta da ReportageSicilia, la figura del "cordaro" - diffusa a Palermo nel quartiere della Kalsa e nelle borgate marinare di Vergine Maria, Arenella ed Acquasanta ( ma anche in pieno centro città si ricorda un "cortile del Cordaro" ) - stava per essere definitivamente cancellata dall'affermazione dell'industria delle fibre sintetiche.
Sino ad allora, l'abilità dei "cordari" era stata al servizio dei pescatori e delle numerose tonnare dell'Isola.
Proprio gli impianti per la pesca del tonno furono fonte importante di lavoro, vista la varietà di cordame necessario all'attività delle tonnare e la necessità - ogni cinque anni - di un completo ricambio.
Il "cordaro" utilizzava la canapa ricavata dall'agave e l'esotica manilla per realizzare reti e corde destinate a sopportare gravosi carichi di lavoro, il cocco, lo sparto e la locale "ddisa" ( un tempo diffusa nel trapanese ) per cordame accessorio o destinato ad un frequente ricambio.
Una descrizione tecnica del lavoro svolto dai "cordari" si legge in "Ippocampo. Tecniche, strutture e ritualità della cultura del mare", a cura di Alessandra Nobili e M.Emanuela Palmisano, Regione Siciliana, 2008.
Gli autori raccolsero le indicazioni di mastro Giuseppe Marino, uno degli ultimi "cordari" della borgata dell'Arenella:
"Dalle foglie della pianta di agave essiccate al sole e schiacciate fino a ridurle in filamenti sottili, si ottiene la 'zabara' grezza che, per essere utilizzata, deve essere assottigliata passando tra le maglie del cardo fino ad ottenere una grande matassa, che si avvolge attorno alla 'nimola', il cui movimento rotatorio facilita l'estrazione della quantità di filato che si desidera.
Per realizzare una corda, mastro Giuseppe Marino, dopo essersi avvolto una certa quantità di filato attorno alla vita, introduce il filo di 'zabara' nell'asola del 'currulo' che si trova su una croce chiamata 'struntaloro', parte integrante della macchina per realizzare le corde, della ruota del cordaro.
Con l'aiuto di un'altra persona che fa girare la manovella della ruota e quindi i 'curruli', avvolge su se stesso il filo di 'zabara', allontanandosi via via dalla macchina"
venerdì 26 ottobre 2018
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