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domenica 5 agosto 2012

LA BREVE EPOPEA DELLE SPUGNE LAMPEDUSANE

La costa Sud Est di Lampedusa, la maggiore delle Pelagie.
Dalla fine del secolo XIX ai primi decenni del secolo successivo, l'isola divenne uno dei principali luoghi
di raccolta e produzione di spugne nel Mediterraneo.
L'immagine è tratta dal sito www.isole-pelagie.it
Ci sono luoghi la cui storia per un lungo periodo di tempo è stata legata ai prodotti naturali loro offerti dal territorio: il cotone a Gela, la manna a Carini o la canna da zucchero a Bagheria, solo per ricordare tre esempi di colture nel frattempo scomparse da quelle terre.
Ci fu così un’epoca – estesa tra la fine del secolo XIX e gli anni che precedettero il secondo dopoguerra – in cui le isole Pelagie furono uno dei principali centri di produzione delle spugne nel Mediterraneo.

Il disegno di una spugna "cavallo", la specie che, in due diversi banchi sottomarini, rese le acque delle Pelagie meta di pescatori provenienti da numerosi porti italiani e del Levante mediterraneo.
L'immagine è tratta dal sito www.legambientearcipelagotoscano.it
I fondali al largo di Lampedusa e dell’isolotto disabitato di Lampione – allora sfruttati solo per la ricchezza delle risorse ittiche, soprattutto le alacce – diventarono le miniere di un prodotto localmente chiamato “spuonza” ed apprezzato in tutta Europa.
Fu così che molti pescatori lampedusani – fra questi, numerosi immigrati palermitani provenienti nel 1856 dal golfo di Carini e da Isola delle Femmine – contesero ad altri colleghi levantini la nuova risorsa naturale.

Un'immagine di Leonardo Augugliaro, il pescatore trapanese che, secondo la tradizione, nel 1897 scoprì e sfruttò per primo 
le colonie di spugne a Lampedusa.
La sua imbarcazione, il "Nuovo Carmine", iniziò la raccolta in un banco individuato a 26 metri di profondità a circa 25 miglia dall'isola.
L'immagine è stata gentilmente concessa dal sito www.trapaniantica.it
La corsa alla ricerca di queste soffici escrescenze dei poriferi fu così affollata da attirare nelle Pelagie pescatori greci, dalmati e tunisini; nè mancarono episodi di accesi contrasti fra gli equipaggi delle speciali imbarcazioni armate per la raccolta, che a Lampedusa presero il nome di “trabaccoli”.
La pesca del prodotto veniva compiuta utilizzando una specie di draga chiamata gangava, attrezzatura che la tradizione vuole essere stata inventata nel golfo di Gabès dai pescatori greci, poi passati ad indossare più efficaci mute da palombaro.
Ancor oggi, nella più grande delle Pelagie qualcuno ricorda che il merito della scoperta dei primi banchi di “spuonze” fu di un pescatore trapanese: Leonardo Augugliaro, armatore del “Nuovo Carmine”.
Nel 1887, Augugliaro individuò una ricca colonia di spugne della specie “cavallo” alla profondità di 26 metri ed a 20/25 miglia a Sud dell’isola; fu così che Lampedusa cominciò a diventare uno dei principali luoghi di pesca e lavorazione del prodotto, in concorrenza con altri porti tunisini e libici.
Nel 1897, con la scoperta di un secondo banco – dieci miglia a ponente-libeccio dell’isolotto disabitato di Lampione – le Pelagie vissero un periodo di floridi affari.

L'isolotto di Lampione, oggi noto soprattutto perchè nelle sue acque
 si possono incontrare gli squali.
Nel 1897, a dieci miglia dal perimetro delle sue coste venne scoperto un secondo banco di spugne, dalla circonferenza di ben tre miglia. Queste acque oggi per lo più frequentate dalle imbarcazioni degli appassionati della ricerca subacquea furono affollate da centinaia di barche per la raccolta delle spugne, provenienti anche dalle isole greche, da quelle dalmate
e dalle coste del Maghreb.
Anche questa immagine è tratta dal sito www.isole-pelagie.it 
Sembra che la colonia al largo di Lampione misurasse ben tre miglia di circonferenza: nel 1889, la nave della Regia Marina “Archimede” contò sul banco 19 barche italiane – provenienti anche da Sardegna e Torre del Greco - e 58 greche; l’anno successivo, quelle italiane furono 45 e 134 le straniere, 116 delle quali con a bordo pescatori delle isole elleniche.
Nel periodo di massima espansione della pesca delle “spuonze”, Lampedusa arrivò ad armare una settantina di “trabaccoli”. L’isola ospitava allora anche impianti di produzione, dove le spugne venivano lasciate seccare sotto il sole e quindi sottoposte a macerazione in una soluzione di acido solforico. Rifinite grazie ad un lavaggio finale, le spugne erano quindi vendute a grossisti provenienti da tutto il Mediterraneo.
I pagamenti erano spesso concordati in oro, così che l’isola riuscì a vivere un periodo di benessere che ebbe però l’effetto di far avvizzire ogni altra attività economica, e soprattutto quelle agricole.
La corsa alle “spuonze” delle Pelagie durò un cinquantennio.

L'interno dell'isola di Lampedusa in una fotografia risalente a circa 60 anni fa e pubblicata nel I volume dell'opera "Sicilia", edita da Sansoni nel 1962.
In quegli anni, l'epopea della pesca delle spugne - capace di attirare nell'isola mercanti e grossisti da tutto il Mediterraneo - 
era tramontata da decenni.
Già prima del secondo conflitto mondiale, il monopolio dell'attività di raccolta e lavorazione era stato raccolto dal porto tunisino di Sfax 
Già alla fine degli anni Venti, con il rafforzamento commerciale del porto tunisino di Sfax, il prezzo delle spugne di Lampedusa e Lampione passò infatti da 110 a 35 lire al chilogrammo. A causare il crollo del mercato locale furono anche i limiti strutturali del porto e l’assenza di infrastrutture e servizi a terra.
Oggi la pesca delle “spuonze” lampedusane fa parte dei ricordi locali. Le colonie di queste escrescenze animali pluricellulari si sono esaurite e l’esistenza di eventuali nuovi banchi – vista l’affermazione delle spugne sintetiche - potrebbe avere un rilievo per lo più scientifico; o di semplice rimando alla storia delle Pelagie, in questi giorni di agosto frequentate da turisti ignari della guerra delle “spuonze” un tempo combattuta fra i pescatori lampedusani e quelli del resto del Mediterraneo.











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