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sabato 1 agosto 2015

LA PALERMO MAESTOSA E MISERABILE DI GIUSEPPE FAVA


Il volto e l'anima della città e dei palermitani in una spietata e attuale pagina pubblicata nel 1981 nella raccolta di inchieste "I Siciliani"

Palermitani ritratti ai Quattro Canti di piazza Vigliena
agli inizi degli anni Sessanta dello scorso secolo.
Le fotografie del post sono tratte dall'opera "Sizilien",
edita nel 1964 da Walter-Verlag
a cura di Eberhard Horst e Josef Rast

Nato a Palazzolo Acreide, testimone scomodo e narratore senza reticenze delle contraddizioni che hanno segnato le cronache siciliane del secolo scorso,  Giuseppe Fava ha legato la sua vita e la sua morte per mano mafiosa alla città di Catania ( "un giorno giunsi a Catania e vi restai per sempre. Accadde molti anni fa. Ora io sono diventato profondamente catanese, i mei figli sono nati e cresciuti a Catania, qui ho i miei pochissimi amici ed i miei molti nemici, in questa città ho patito tutti i miei dolori di uomo, le ansie, i dubbi, ed anche goduto la mia parte di felicità umana..." ).
Inchieste e considerazioni sui mali dell'isola, messe a tacere il 5 gennaio del 1984, costituiscono oggi una preveggente chiave di lettura dell'attuale abulica stagnazione della Sicilia
Si può dire che l'isola del 2015 - con i suoi irreversibili dissesti economici e sociali, con una mafia silente ma sempre tenacemente radicata - viva una condizione di deriva le cui origini sono state oggetto di molte inchieste condotte da Fava nel corso di tre decenni.  
La sua lucida visione dei fatti ha offerto pagine di folgorante verità sulla realtà della Sicilia e dei siciliani.


Uno di questi scritti descrive efficacemente il carattere di Palermo e dei suoi abitanti, individuandone le infinite e contorte identità di città "dove la ricchezza e la miseria sono oltraggiose e profonde":     

"In realtà - si legge ne "I siciliani" ( Cappelli Editore, 1981 ) - Palermo è bellissima, in maniera quasi tracotante.
Non esiste in tutto il Sud d'Italia una città che non sia così bella, ma in bella in un modo particolare, in modo sprezzante, con uno sperpero continuo e oltraggioso di se stessa; palazzi di sovrani dove le ricchezze e le arti si sono concentrate per secoli, e subito accanto i quartieri osceni, lugubri, pavimentati di sterco, le case dove invece si sono concentrati gli elementi della miseria, i letti l'uno accanto all'altro nella stessa stanza, i pidocchi, il buio, la malattia.
Lo spreco, l'indolenza, la maestà decadente.


Lungo la periferia si aprono quartieri che hanno ancora le fondamenta macchiate di sangue. Per ogni area edificabile ci furono morti, uomini rincorsi e straziati in mezzo alle strade, ed ora si spalancano grattacieli di marmo, con i giardini sulle terrazze.
Al centro della città invece si ergono antichi palazzi che da soli potrebbero fare l'orgoglio architettonico di una città, e sono però spaccati, deserti, i balconi sfondati e bui.
Chiese, cattedrali che non hanno eguali, un groviglio di fantasie e genialità, mosaici di oro, giardini di incredibile opulenza, reggie per le quali consumarono la vita migliaia di operai e si impoverirono per decenni le popolazioni, ed alle loro spalle strade profonde come burroni, dove il sole penetra un attimo, a mezzogiorno, un lampo, una lama di luce su un vermicaio di essere umani, su una continua putrefazione umana, migliaia di lenzuoli immobili alle ringhiere come sudari, cani, gatti, bambini; le pareti delle case sono intrise di un sudore fetido, i vecchi e gli ammalati stanno definitivamente lì dentro, come in un anticipo della tomba, immaginano che il paradiso sia semplicemente un letto sul quale sdraiarsi per sempre.


Nel centro di Palermo hai la straordinaria impressione che, accanto ad un nobilissimo quartiere della Roma pontificia, si sia incastrato, anzi sovrapposto un paese come Palma di Montechiaro.
Non esiste forse alcuna altra città italiana dove la ricchezza e la miseria sia così profonda e oltraggiosa.
L'anima della città assomiglia al suo volto.
Giustamente è la capitale dell'isola, poiché ne rappresenta il costume come su un palcoscenico. E si fa pagare per questo, cioè accetta di recitare il personaggio ed il ruolo di capitale a patto che la mantengano, a patto che tutti gli altri sudditi accettino di pagarle la sua magnificenza ed i suoi vizi...




In definitiva, Palermo è la capitale che noi siciliani meritiamo poiché ci rappresenta perfettamente: la sua alterigia e miseria, la sua antica maestà e corruzione, il disordine mentale, il disfacimento dell'antica bellezza, la prosopopea culturale, la prevaricazione politica, la violenza elevata ad infallibile sistema di potere, il servilismo come unico infallibile modo di resistere alla violenza assoggettandosi.
Infinite cose che accadono in Sicilia rassomigliano a questa immagine.
Resta da capire se in questo dopoguerra è stata Palermo a fare lentamente una Sicilia a sua somiglianza, disposta cioè a lasciarsi governare con l'intrigo, il clientelismo, lo sperpero, l'arricchimento e la potenza dei pochi contrapposti alla sofferenza dei più, leggi a favore delle tribù e dei feudi, disprezzo per gli immensi problemi collettivi, oppure è stata la Sicilia con le sue infinite miserie anche mentali, il brulicare dei suoi individualismi, rancori, sordide avidità paesane, a costruirsi una capitale a sua immagine e necessità, capace perciò di tutte le corruzioni, violenze, congiure, complicità, assoluzioni...
L'istituzione dell'autonomia regionale, con una indipendenza amministrativa e politica praticamente senza eguali in tutti gli ordinamenti costituzionali europei, la contemporanea moltiplicazione di enti ed istituti di governo, l'ingigantimento degli interessi economici e finanziari, hanno dilatato gradualmente l'importanza sociopolitica della città.
In realtà Palermo è stata sempre una capitale, ne ha posseduto sempre la definizione, l'albagia, il potere, diremmo quasi una predestinazione.
E' stata addirittura costruita perché fosse capitale.


Il carattere della sua popolazione è stato sempre quello dei cittadini di una capitale...
Prima migliaia di persone, poi decine di migliaia, centinaia di migliaia hanno gonfiato orribilmente il suo tessuto urbanistico, hanno divelto il suo schema di vita, hanno portato o imposto nuove necessità, fabbisogni, vizi.
I nuovi cittadini sono arrivati da tutte le parti.
I politici, i funzionari, i tecnici, gli impiegati, i presidenti, i direttori, i vicepresidenti e vicedirettori, i segretari, e dietro costoro la folla dei clienti, degli amici, dei parenti, degli elettori, ed ancora tutti coloro i quali intravedevano una possibilità di sistemazione, uno stipendio, una carica, un posto, un terreno fertile per i loro imbrogli, o più semplicemente un improvviso spiraglio per risolvere il loro fallimento umano...
In questa città, quasi nessuno ha portato buona volontà di lavoro, idee, entusiasmo, concorrenza, denaro, intelligenza.
Quasi tutti sono venuti per prendere qualcosa, in qualsiasi maniera, offrendo in cambio cose senza valore economico: la propria dubbia devozione, qualche migliaio di voti, qualche raffica di mitra.
Non vogliamo fare qui una nuova storia della mafia, ma semplicemente raccontare come la improvvisa investitura a capitale abbia dapprima gonfiato Palermo, poi l'abbia fatta straripare tumultuosamente in tutte le direzioni, senza un ordine preciso, senza nemmeno una logica sociale e politica...


In questa crescita tumultuosa, apparentemente cieca, e tuttavia sempre oscuramente controllata, fiorivano come sempre accade nelle grandi trasformazioni civili, anche ansie culturali e artistiche improvvise, ribellioni sociali e poetiche; basti pensare che proprio dall'humus palermitano sono germinati Guttuso, Bruno Caruso, Tomasi di Lampedusa, Buttitta, Pino Caruso, lo stesso Leonardo Sciascia, una generazione di talenti che però Palermo ha praticamente disperso, voci di bellezza, verità, disperazione che Palermo ha rifiutato..."







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