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giovedì 21 luglio 2022

ARCHESTRATO DI GELA, IL POETA DELL'ARTE CULINARIA NEL MONDO ANTICO

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Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Ho imparato a cucinare così bene in Sicilia, che per il piacere farò morsicare i tegami e i piatti ai commensali"

Così diceva - secondo quanto ricordato dal giornalista Beppe Fazio nel saggio "Del mangiar siracusano", edito nel 1969 a cura di Antonino Uccello dall'Ente Provinciale per il Turismo di Siracusa - un cuoco del IV secolo avanti Cristo; battuta pronunciata in un'opera scritta all'epoca da Alessi, commediografo di origini calabresi vissuto a lungo ad Atene. La frase risalente ad oltre due millenni fa sembra confermare la buona fama che la Sicilia - per merito soprattutto di Siracusa - ha alimentato sin dall'antichità sul fronte della gastronomia: dote che ancor oggi è motivo di attrattiva per i turisti che visitano l'Isola. Nelle sue pagine, Fazio cita altri nomi di cuochi che nel periodo della Magna Grecia alimentarono la reputazione della gastronomia siciliana nel Mediterraneo: Miteco Siculo - siracusano del V secolo avanti Cristo, autore di un trattato "L'arte culinaria", ricordato da Platone - e l'altro siracusano Labdaco, vissuto due secoli dopo e fondatore di una scuola per cuochi a pagamento. 




Il più noto ed esperto di gastronomia che la Sicilia antica ricordi è tuttavia Archestrato di Gela. Sembra che abbia vissuto nel IV secolo avanti Cristo; un suo poema in esametri - "Hedypatheia", che si potrebbe tradurre "Il dolce gusto" - dovrebbe risalire al 330 avanti Cristo. L'opera, di cui restano 56 frammenti ordinati da Ateneo, è una lode delle delizie culinarie che Archestrato conobbe durante i sui viaggi nel Mediterraneo. Secondo lo storico francese Jacques Le Goff, può essere considerata la prima guida gastronomica della storia: un giudizio che negli anni Settanta dello scorso secolo giustificò a Parigi l'intitolazione di un noto ristorante proprio al nome di Archestrato di Gela. Tutti i frammenti superstiti del suo manuale di cucina - ad eccezione di uno, che descrive la cottura della lepre da arrostire al sangue, cosparsa di sale - riguardano i pesci. A tavola, raccomanda l'autore, è bene non superare il numero di quattro o cinque commensali: un limite che garantisce un'ottima preparazione delle pietanze e la giusta convivialità fra i partecipanti al banchetto. 


 

Archestrato di Gela indica fra le specie da preferire il pesce spada, le triglie, le seppie, le anguille pescate nello stretto fra Sicilia e Calabria. I pesci vanno arrostiti o bolliti, conditi con olio ed erbe odorose come il silfio, una piante estinta presente nell'antichità soprattutto lungo le coste della Cirenaica. Nei frammenti oggi noti di "Hedypateia", si raccomanda la cottura degli sgombri al cartoccio con foglie di vite e viene suggerito l'accostamento fra il pesce ed i formaggi. Il manuale di gastronomia venne tradotto e commentato nel 1823 dallo storico palermitano Domenico Scinà, cultore della lingua greca antica.


 

"Archestrato di Gela - ha scritto ancora Beppe Fazio - aveva trasformato il suo palato in uno strumento di precisione così sensibile da distinguere il sapore di una triglia pescata con la luna calante da una pescata con la luna crescente... Dobbiamo a Scinà se l'opera di Archestrato si può rileggere come un autentico ricettario da utilizzare in cucina. Grazie a lui e ad Archestrato sappiamo che nel IV secolo avanti Cristo il palamito in Sicilia si arrostiva nella cenere calda, avvolto nelle foglie di fico e aromatizzato con l'origano e che la siciliana "nunnata" - i pesciolini appena scovati - bisognava cuocerla buttandola per un attimo nell'olio bollente di una padella e ritirandola prima che si bruciasse, insieme alle ortiche di mare e ad un trito di erbette; due ricette scomparse adesso anche in Sicilia dalle mense cittadine, che si ritrovano nelle tavole modeste dei villaggi dei pescatori. Doveva avere un debole Archestrato per la cucina popolare e semplice se se la prende con i cuochi che vogliono strafare e nascondono l'autentico sapore dei cibi sotto una montagna di condimenti, bravi soltanto a preparare un mucchio di manicaretti "pieni tutti di inezie e di leccumi". Sembra di vederlo, se fosse ancora tra i vivi, questo buongustaio del IV secolo, turarsi le orecchie e storcere la bocca a sentire qualche signora snob ordinare le ostriche senza badare al calendario, soltanto perché le ostriche costano care, lui che mangia triglie soltanto in inverno. Il cefalo lo mangia arrostito tutto intero con le sue squame, perché conservi l'odore intatto delle alghe che ha mangiato, dentro la corazza della sua pelle. Vero è che di fronte a certe descrizioni minuziose viene il sospetto che l'autore ci abbia preso in giro, per esempio, quando tira fuori un complicatissimo manicaretto di addomi di pesce palombo, piuttosto improbabile. Ma anche in questo ci sembra, dimostri un carattere tipico del siciliano di allora e di sempre, quel gusto ironico della vita, che a lui non poteva mancare e che è quello che ci salva dalle malinconie umane che tanto si accaniscono su questa bellissima e antichissima terra..." 

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